Perché siamo diventati poveri?

5 Dicembre 2022

In Italia la povertà presenta alcune caratteristiche di lungo periodo e altre più recenti. Tra le caratteristiche di lungo periodo possiamo annoverare la forte concentrazione territoriale, nel Mezzogiorno, il fatto che riguardi più famiglie che individui che vivono da soli. Tra le caratteristiche più recenti, che si aggiungono alle prime, c’è il sorpasso, avvenuto nella seconda metà degli anni Novanta, degli anziani da parte dei minorenni come la fascia di età più esposta al rischio di povertà. Dal 2011 in poi, inoltre, gli anziani sono diventati il gruppo di età in assoluto meno a rischio, anche se continuano ad esserci anziani, soprattutto anziane, povere, mentre la situazione dei minorenni e delle loro famiglie ha continuato a peggiorare.

L’aumento degli stranieri residenti in Italia, in particolare provenienti dai paesi in via di sviluppo o dall’Europa orientale, ha prodotto un’articolazione per cittadinanza della povertà, con gli stranieri e le loro famiglie esposti a un rischio molto maggiore degli autoctoni, anche nel Mezzogiorno dove pure la povertà è diffusa anche tra questi ultimi. Gli stranieri, infatti, anche se legalmente residenti, sono prevalentemente concentrati nelle occupazioni a bassa qualifica, bassa remunerazione, bassa o nulla protezione, vuoi perché spesso hanno loro stesse scarse qualifiche e bassa istruzione, vuoi perché non sempre i titoli di studio ottenuti nel paese di origine sono riconosciuti in Italia.

Sono spesso lavoratori poveri che vivono in famiglie povere, una esperienza in crescita anche tra gli italiani. Se il fenomeno dei lavoratori poveri è per certi versi endemico nel nostro paese e in particolare nelle regioni del Mezzogiorno, a causa soprattutto dell’esistenza di un ampio settore di economia informale, fuori da ogni forma di regolazione e protezione, negli ultimi anni ha trovato un terreno fertile anche nell’economia formale, con l’esplosione delle forme contrattuali, dei lavori a tempo e del part time involontario. In un contesto in cui anche nell’economica formale e nei contratti a tempo determinato i salari sono spesso bassi e non adeguati all’inflazione, questi possono risultare insufficienti, specie se ce n’è uno solo, a far rimanere fuori dalla povertà una famiglia composta da più persone.

I motivi di queste caratteristiche della povertà italiana hanno a che fare con quello che in un recente libro (La Povertà in Italia, di C. Saraceno, D. Benassi e E. Morlicchio, il Mulino 2022) abbiamo chiamato un particolare “regime di povertà”. La povertà, infatti, e le caratteristiche che hanno i poveri in un determinato paese sono l’esito delle forme di regolazione dei processi sociali che definiscono i pacchetti di risorse a disposizione di individui e famiglie e le condizioni di uso. Più della sfortuna individuale, sono le tendenze demografiche e del mercato del lavoro, i modelli di famiglia e di solidarietà sociale, i sistemi di protezione sociale, le norme e le rappresentazioni sociali, che in parte ne sono il prodotto e in parte ne costituiscono la base di legittimazione, e il modo in cui tali fattori interagiscono tra loro a definire i gruppi sociali che corrono i maggiori rischi di ritrovarsi in povertà.

Queste forme di regolazione, e la loro interazione, differiscono tra paesi e gruppi di paesi, a seconda di come funziona il mercato del lavoro, del peso del lavoro autonomo e dell’economia informale, dei tassi di occupazione femminile e giovanile, del potere negoziale dei sindacati, del sistema di welfare, dell’organizzazione della famiglia, in particolare per quanto riguarda la divisione del lavoro tra uomini e donne. Il regime di povertà italiano è caratterizzato da un mercato del lavoro segmentato, che produce anche distinzioni tra insider e outsider nelle forme di protezione, come è emerso durante la pandemia, con forti squilibri territoriali, forte presenza di lavoro autonomo e un’ampia area di lavoro informale.

Include un tasso di occupazione femminile comparativamente basso, specie tra le donne a bassa istruzione e/o madri di figli piccoli, anche a causa di una divisione del lavoro familiare tra uomini e donne molto asimmetrica e politiche di conciliazione lavoro-famiglia insufficienti e distribuite in modo disomogeneo sul territorio, così come avviene anche per altri aspetti del welfare. Il ridotto tasso di occupazione femminile, specie tra le madri e tra le donne a bassa istruzione, mette particolarmente a rischio di povertà non solo le famiglie monogenitore in cui l’unico genitore presente è la madre, ma anche le famiglie mono-percettore di reddito se l’unico reddito è modesto, quando non inferiore ai minimi, specie in presenza di più figli. Anche se le famiglie con due percettori di reddito non sono totalmente protette dalla povertà, se i due redditi sono parziali e/o intermittenti (ricordo a questo proposito che è molto aumentato il part time involontario), quelle mono-percettore a reddito modesto sono vulnerabili allo squilibrio provocato da un figlio in più, da una malattia, da una riduzione di orario o dalla messa in cassa integrazione, da una chiusura forzata o dalla perdita di clientela, o “semplicemente”, da un forte aumento del costo della vita.

Ma di che cosa parliamo quando parliamo di povertà? Esiste un ampio dibattito su quali siano gli indicatori e gli strumenti di misurazione migliori, sui cui non posso soffermarmi qui. Basti menzionare che a livello dell’Unione Europea si utilizza una definizione relativa, ovvero si definisce povero (o più precisamente a rischio di povertà) chi ha un reddito inferiore alla metà del reddito mediano equivalente (che tiene conto dell’ampiezza della famiglia). L’Unione europea integra questa definizione con altre due misure: una di deprivazione (non poter consumare un certo numero di beni), una di bassa intensità lavorativa.

L’indicatore europeo AROPE (At risk of poverty and social exclusion) include tutte e tre queste dimensioni. L’Italia, oltre all’indicatore AROPE, utilizza da tempo un altro indicatore di povertà relativa, basato non sul reddito, ma sui consumi, e un indicatore di povertà assoluta (l’impossibilità di consumare un paniere di beni definiti essenziali), sempre basato sui consumi.

Naturalmente anche quest’ultimo implica una certa dose di relatività, in quanto implica un giudizio su che cosa è essenziale per chi e per che cosa: solo per la sopravvivenza o anche per condurre una vita dignitosa? Segnalo a questo proposito che la proposta di raccomandazione sul reddito minimo per chi si trova in povertà, approvata a settembre dalla Commissione Europea, che dovrà essere sottoposta alla approvazione del consiglio dei ministri europei, pur lasciando ai singoli paesi di definire la soglia, dice esplicitamente che deve garantire una vita dignitosa, non la semplice sopravvivenza. Non distingue neppure tra “occupabili” e non “occupabili” rispetto al diritto a ricevere il sostegno. Al contrario esplicita che la distinzione vale solo, ed è importante, per le misure che devono integrare il sostegno economico.

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Fotografia di Chris John.

Per semplicità, nel prosieguo di questa nota mi riferirò alla povertà assoluta così come misurata dall’ISTAT, anche perché ha il vantaggio di non essere sensibile alla congiuntura, ma solo al variare dei prezzi. Anche se periodicamente va aggiornato nel contenuto del paniere, vuoi perché alcuni beni non sono più disponibili, o utilizzati, vuoi perché altri beni sono diventati indispensabili. Come è emerso chiaramente durante la pandemia, la disponibilità di uno strumento digitale (computer, tablet, smartphone), e le relative competenze, insieme a un abbonamento ad internet sono necessari anche ai bambini delle scuole primarie, non solo agli adulti per il lavoro. Viceversa la mancanza di un telefono fisso non è necessariamente un indicatore di povertà o esclusione sociale. 

Già fortemente e sistematicamente aumentata dal 2011 a seguito della doppia crisi finanziaria, subendo solo una piccola flessione nel 2019, nel biennio della pandemia la povertà assoluta ha raggiunto i livelli più alti da che è stimata, colpendo in particolare i minorenni e i giovani e le loro famiglie, e le famiglie di stranieri. Rispetto al 2005, quando il fenomeno coinvolgeva poco più di 800 mila famiglie, nel 2020 la povertà assoluta è più che raddoppiata, senza diminuire nel 2021 nonostante la ripresa. Secondo gli ultimi dati disponibili, riguarda 1 milione 960 mila famiglie (il 7,5 per cento del totale, rispetto al 3,6 per cento del 2005). L’aumento sarebbe stato molto maggiore se, a differenza di quanto avvenuto nella crisi finanziaria sotto l’imperativo dell’austerità e del pareggio di bilancio, durante la pandemia non vi fossero state, oltre al Reddito di cittadinanza introdotto pochi mesi prima, le diverse e successive misure redistributive che, sia pur in modo frammentato e largamente categoriale, hanno esteso qualche tipo di protezione ai diversi gruppi di lavoratori e famiglie. 

Stante la maggiore incidenza della povertà nelle famiglie numerose, nel caso degli individui l’aumento è stato ancora maggiore, quasi triplicandone il numero, da 1,9 milioni nel 2005 a 5,6 milioni nel 2021 (il 9,4 per cento rispetto al 3,3). Si è anche consolidato il cambiamento nei profili di povertà iniziato nella seconda metà degli anni Novanta. Il rischio di povertà è massimo per chi è in famiglie dove nessuno è in condizione professionale né in pensione, toccando il 22,6 per cento delle famiglie in cui la persona di riferimento è in cerca di occupazione. Ma si consolida il fenomeno delle famiglie di lavoratori povere.

La povertà assoluta riguarda, infatti, il 7 per cento delle famiglie in cui vi è almeno un lavoratore, a conferma che non sempre avere un’occupazione consente di proteggere dalla povertà, neppure da quella assoluta, se stessi e la propria famiglia. Ma la percentuale sale al 13,3 per cento tra le famiglie con persona di riferimento operaia o assimilata. Alta è l’incidenza della povertà tra le famiglie di stranieri. Per le famiglie con almeno uno straniero l’incidenza di povertà assoluta è infatti pari al 26,3% (in lieve aumento rispetto al 2020); è al 30,6% per le famiglie composte esclusivamente da stranieri (in forte aumento rispetto al 26,7% del 2020) e al 5,7% per le famiglie di soli italiani, valore rimasto sostanzialmente stabile rispetto al 2020). Soprattutto, si consolida lo scambio di posizione tra minorenni e anziani come soggetti più vulnerabili alla povertà, con gli anziani che sono diventati il gruppo di età meno a rischio, laddove i minorenni e i giovani fino a 34 anni sono quelli più a rischio.

La povertà assoluta, infatti è del 14,2 per cento (poco meno di 1,4 milioni) fra i minori; dell’11,1% fra i giovani di 18-34 anni (pari a 1 milione 86mila individui). Anche nella classe di età 35-64 anni (2 milioni 361mila individui) presenta un’incidenza, 9,1 per cento, superiore alla media. Viceversa presenta valori inferiori alla media nazionale per gli over 65 (5,3 per cento, circa 743mila persone). 

La povertà minorile, inoltre, è strettamente correlata non solo alla condizione occupazionale dei genitori, ma anche al numero di minorenni presente in famiglia. L’incidenza della povertà aumenta con l’aumentare del numero dei figli minori, passando dal 6 per cento delle famiglie con un figlio, all’11 per cento se i figli minori sono due, al 20,4 per cento se sono tre figli o più, quelle, tra l’altro, in cui è più improbabile che la madre sia occupata, stante il grande carico di lavoro famigliare e la scarsità dei servizi, dai nidi al tempo pieno scolastico, specie nel Mezzogiorno. Se entrambi i genitori sono occupati, il rischio di povertà dei minorenni diminuisce sensibilmente. Ma è più probabile che entrambi i genitori siano occupati se ci sono solo uno-due figli, se la madre ha una buona istruzione e se vivono nel Centro-Nord. 

I dati sull’incidenza della povertà assoluta tra i minorenni e le famiglie con minorenni sono ancora più drammatici se si considerano solo le famiglie di stranieri. Nel 2021, in peggioramento di oltre sette punti rispetto al 2020, era del 36,2 per cento per le famiglie con minori composte unicamente da stranieri, più di 4 volte la media delle famiglie con figli minori solo italiane. Era del 30,7 per cento nelle famiglie con minorenni in cui era presente almeno uno straniero (per lo più uno dei genitori): due volte e mezzo rispetto al valore medio delle famiglie con minori. 

È confermata, infine, la forte differenziazione territoriale nella incidenza della povertà, anche se questa rimane alta ovunque: è del 10 per cento nel Mezzogiorno (ulteriormente peggiorato rispetto al 2020), del 6,7 per cento al Nord (con un miglioramento sensibile rispetto al balzo in alto avvenuto nel 2020, a indicare come la ripresa del 2021 abbia coinvolto soprattutto queste regioni), del 5,6 per cento al Centro. Va per altro segnalato che, data la più elevata popolosità delle regioni del Nord rispetto a quelle del mezzogiorno, le famiglie povere sono pressoché in ugual numero al Nord e al Sud, con una più alta presenza di famiglie straniere al Nord.

La forte incidenza della povertà tra i minorenni pone rilevanti problemi di equità, perché nascere e crescere poveri ha effetti su tutte le dimensioni dello sviluppo: dalla salute alle competenze cognitive. Ma pone anche problemi di sostenibilità sociale, nella misura in cui una parte rilevante delle nuove generazioni non è messa nelle condizioni di sviluppare appieno le proprie capacità. Non a caso l’Italia è il paese europeo con i più alti tassi sia di dispersione scolastica, sia di abbandoni precoci, sia di giovani che né studiano né lavorano. Tra questi ultimi, quelli a bassa istruzione non solo sono i più numerosi, ma sono anche più spesso inattivi, nel senso che, scoraggiati, non cercano neppure una occupazione. Tra di essi le giovani donne costituiscono un gruppo a sé, in quanto definirle inattive può essere improprio fattualmente. Non lavorano e non cercano attivamente un lavoro perché spesso sono impegnate sul fronte famigliare come madri di bambini piccoli. Modelli di genere rigidi, mancanza di servizi per l’infanzia, uniti a opportunità di lavoro scarse o poco remunerate, le fanno avviare verso un percorso di estraneità al mercato del lavoro rischioso per loro e per i loro figli.

Nonostante la sua gravità ed effetti negativi di lungo periodo, la povertà minorile fatica ad entrare nell’agenda politica in Italia. Basti pensare che il Reddito di cittadinanza, la cui introduzione in Italia è stata importante perché mancava una misura di garanzia del reddito di ultima istanza, la cui funzione cruciale è stata documentata proprio nella crisi pandemica, nel suo disegno di fatto penalizza i minorenni e le loro famiglie sia nell’accesso, sia nell’importo, a causa della scala di equivalenza che adotta per valutare il reddito disponibile, in base alla quale un minorenne vale la metà di un adulto. L’introduzione dell’assegno unico in parte ha compensato questo secondo aspetto, ma non la discriminazione nell’accesso. 

Il Reddito di cittadinanza discrimina ancora più pesantemente, con un requisito di residenza altissimo (dieci anni), le famiglie con stranieri, con o senza minori. Data l’elevatissima incidenza delle povertà nelle famiglie con minori straniere, ciò significa lasciare prive di sostegno moltissime bambine/i e adolescenti, anche se legalmente residenti in Italia. Per fortuna questa discriminazione non avviene nel caso dell’Assegno unico che dalla seconda metà del 2021 ha sostituito le frammentate e parziali forme di sostegno economico al costo dei figli pre-esistenti. 

Secondo stime recentissime dell’ISTAT (La Redistribuzione del reddito in Italia. Anno 2022, del 23 novembre 2022), questo assegno, di importo crescente al decrescere dell’ISEE familiare, ha determinato, nel 2022, una riduzione del rischio di povertà (quindi la povertà relativa, che presenta percentuali più alte di quella assoluta)) di 3,8 punti percentuali per i giovani da 0 a 14 anni, di 2,5 per quelli da 15 a 24.

Sempre secondo la stessa stima, a seguito delle diverse misure messe in campo dal governo Draghi (la riforma Irpef; l’assegno unico e universale per i figli a carico; le indennità una tantum di 200 e 150 euro, i bonus per le bollette elettriche e del gas; l’anticipo della rivalutazione delle pensioni), il rischio di povertà si è ridotto nel complesso della popolazione dal 18,6% al 16,8%. Rimane da vedere quanto queste misure abbiano inciso sulla povertà assoluta e soprattutto che cosa succederà nel prossimo futuro a seguito sia del perdurare della crisi energetica (e della guerra russo-ukraina), sia delle scelte di politica economica e sociale del nuovo governo.

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