Carteggi dal naufragio / Hannah Arendt e Walter Benjamin, vita precaria

13 Luglio 2017

La pubblicazione postuma di carteggi privati può facilmente incorrere in una deriva scandalistica oggi particolarmente diffusa, per la quale parrebbe essere legittimo frugare negli angoli bui di un’esistenza, rendendo pubblico ciò che appartiene all’intimità di un autore scomparso. Tuttavia, il quadro complessivo che si ricava dalla ricostruzione biografico-teorica presentata nel volume Hannah Arendt, Walter Benjamin. L’angelo della storia (Giuntina, 2017) e curata da Detlev Schöttker e Erdmut Wizisla esula da questo genere di preoccupazioni.

 

Si tratta, invece, di una composita raccolta di scritti – un’introduzione dei curatori, il saggio di Hannah Arendt su Walter Benjamin, le Tesi di filosofia della storia, lettere e documenti – che traccia una linea di continuità tra il pensiero di Benjamin e le vicende storiche e politiche che hanno segnato tragicamente la sua vita. Tutta l’opera filologica dei curatori è animata dalla necessità di mettere a nudo quella connessione delle piccole cose, che Benjamin stesso ha sempre ricercato nel corso della sua elaborazione teorica. Le connessioni costruiscono una trama di involuzioni ed evoluzioni, che si disvela nel tortuoso scambio di lettere tra i protagonisti della vicenda.

 

 

Hannah Arendt, Bertolt Brecht, Günther Anders, Gershom Scholem, Theodor W. Adorno, Hugo Von Hoffmansthal, Martin Heidegger… sono solo alcuni dei nomi che gravitano intorno alla figura di Benjamin, determinando le sorti della ricezione dei suoi testi prima e dopo il drammatico suicidio. Il vero interrogativo riguarda la posta in gioco che si cela dietro al vorticoso scambio epistolare, avente come centro sempre la figura e le opere di Walter Benjamin. Che si tratti di un tributo all’amico scomparso, di un’attenzione meramente scientifica o, ancora, di un senso di colpa da colmare per l’insufficienza degli aiuti prestati a Benjamin da parte di alcuni dei suoi collaboratori, ciò che resta sullo sfondo è un sostrato di generale disaccordo tra gli autori e gli amici.

 

D’altra parte, ciò che questa ricostruzione restituisce al lettore è un tentativo di risposta alla domanda che dava il titolo all’articolo pubblicato sulla rivista Merkur nel 1968: Chi fu Walter Benjamin? A posteriori, quella domanda pare rimanere ancora valida. La sua immagine si ricompone e si disfa, come in un mosaico infinito, attraverso le parole di amici, nemici ed estimatori. Pare quasi che le teorie di Benjamin possano essere applicate come metodo nell’interpretazione della sua persona: nella Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco egli scrive che “l’autenticità – quel marchio d’origine nei fenomeni – è oggetto di scoperta[…] è negli aspetti più peculiari e singolari che si può scoprire questa autenticità”. Nella particolarità di tali aspetti, il fenomeno continua a confrontarsi con il mondo storico, finché non raggiunge la completezza della propria totalità. Il fenomeno Benjamin, nel suo complesso, non ha ancora raggiunto la posa finale della forma, lo sviluppo che coincide con l’origine. Perciò, il drappello di studiosi che si inoltra per i sentieri del suo errare si smarrisce nella ricerca di una segnaletica esistenziale in grado di condurre alla fonte dalla quale si sprigiona il getto originario.

 

Courtesy of Zeitgeit Films and Hanna Arendt Archive. 

 

Certamente la voce di Hannah Arendt prevale sulle altre, offrendo al lettore una prospettica, ma significativa immagine dell’uomo Benjamin, ma anche dall’interpretazione dell’amica filosofa emerge un considerevole sforzo nel processo di ricostruzione. “Spesso un’epoca imprime in maniera più marcata il suo sigillo su chi ne è stato meno improntato, essendone lontano, dovendo perciò soffrirne di più” scrive Arendt nel saggio su Benjamin del 1968. Benjamin sembrava “fosse stato scagliato dall’Ottocento al Novecento come gettato in una terra sconosciuta”. Il tempo passato è effettivamente una nota ricorrente delle riflessioni benjaminiane, ma non è, forse, quella che lo possiede fino all’ossessione. Il Benjamin delle Tesi di filosofia della storia parrebbe, invece, dominato dall’immagine del presente. Nella XIV Tesi egli scrive che “Il materialismo storico non può rinunciare al concetto di un presente che non è passaggio, ma in cui il tempo sta in equilibrio e arriva a essere immobile. Infatti, questo concetto definisce appunto quel presente in cui, di volta in volta, da esso viene scritta la storia”.

 

Di conseguenza, la vicinanza che Hannah Arendt scorge tra il pensiero di Benjamin e quello di Proust non appare evidente. La memoria, la storia, l’attenzione nei confronti di un passato di violenza e oppressione, sono, in realtà, volti all’azione nella Jetztzeit (il momento attuale). Per questa ragione è significativo, come evidenzia Arendt, il rapporto con l’amico poeta Bertolt Brecht, che determinò increspature nelle relazioni sia con Adorno, sia con Scholem. Se Adorno considerava i contenuti politici del pensiero di Benjamin “volgar marxisti”, Scholem pretendeva dall’amico di infanzia uno spessore teologico e metafisico. Entrambi, vedevano nell’amicizia con Brecht la causa di un impoverimento delle riflessioni di Benjamin. Hannah Arendt, però, nota con estrema lucidità come il suo interesse filosofico fosse tutt’altro che prioritario e rivendica la sua identità di critico.

 

Nei confronti del marxismo, secondo Arendt, Benjamin si comportò come molti altri intellettuali dell’epoca, ovvero considerando quasi esclusivamente gli scarni riferimenti alla sovrastruttura, cioè interessandosi a ciò che era di loro competenza e lasciando da parte il corpus teorico marxiano di esplorazione della struttura e della prassi. In questa estrapolazione degli aspetti sovrastrutturali del materialismo, Benjamin fu comunque un eccentrico. La sua visione sui generis è infatti riconducibile all’Urphänomen (il protofenomeno) di Goethe, ovvero a quella complice risoluzione della materia nella forma, che sul piano politico si traduce nella ricerca della sorgiva influenza del pensiero sulla realtà. In questo senso, Benjamin fa proprio il “pensiero rude” (das plumpe Denken) di Brecht. “La cosa principale è imparare a pensare in modo rude”, scriveva Brecht, intendendo con ciò un pensiero in grado di rappresentare il riferimento della teoria alla pratica, capace, nell’azione, di rendere giustizia a se stesso. Benjamin, però, non era tanto interessato alla pratica, quanto alla realtà e da ciò derivava anche la sua fascinazione nei confronti della teoria della metafora, concepita etimologicamente come trasferimento (metapherein) di senso dal sensibile all’invisibile, che consente alla lingua di chiamare la realtà. Il pensiero rude, potendo contare sulla potenza metaforica del linguaggio, è in grado di ricondurre poeticamente all’unità di idea e realtà.

 

Lo studio di Benjamin sulla filosofia del linguaggio non abbraccia, però, la sola teoria della metafora, ma corrobora la tesi per la quale la verità alberga nel palazzo del linguaggio. In questo senso, la verità si dà solo nei cocci del pensiero, ovvero nelle parole depositate sul fondale marino del dimenticato, sottratte all’oblio dalla rete del “pescatore di perle”. Benjamin aveva escogitato una precisa strategia in grado di infrangere l’incantesimo di una tradizione che considerava essere “il bottino di guerra” dei vincitori della storia. Si trattava di una straordinaria collezione di citazioni, minuziosamente appuntate sui suoi taccuini e della quale egli faceva il contenuto fondamentale dei suoi testi. La citazione, come forma del nominare, se sradicata dal suo contesto originario, consente di ricongiungersi alla sola autenticità dell’oggetto. Le citazioni, nelle opere di Benjamin, sono organizzate da una tecnica di montaggio che recide i vincoli della tradizione, contrapponendo al principio di autorevolezza quello dell’autenticità.

 

Il collezionismo, pertanto, come raccolta di parole intimamente strette al segno dell’origine, si configura in maniera antisistematica, livellando le differenze qualitative, che l’impostazione canonica della tradizione irrigidisce. Proprio la ‘filosofia del collezionismo’ si nutre delle due anime apparentemente in conflitto tra loro del pensiero benjaminiano, ovvero materialismo e teologia ebraica. Il collezionismo, di oggetti come di citazioni, consente, infatti, di sostituire il valore d’uso e di scambio con un valore dato dal mero piacere disinteressato dell’amatore. Così, gli oggetti liberati dalla schiavitù dell’utilità e del mercato, sono redenti. Di fatto, si tratta di un’attività rivoluzionaria guidata dal caso, che sconvolge l’ordine imposto al passato, ricollocando la presunta insignificanza di fenomeni minuti su un piano pregno di senso, nel quale esse “agiscono in modo retroattivo nella lontananza dei tempi”, mettendo “di nuovo in questione ogni vittoria che sia mai toccata al ceto dominante” (III tesi di filosofia della storia).

 

Le citazioni costituiscono il nodo centrale della tecnica compositiva di Benjamin, il quale si premurava di scrivere in maniera tale da non incrinare l’intento surrealista del montaggio con spiegazioni di natura logico-causale. Verrebbe da pensare, allora, che proprio il caso rappresenti una categoria portante di tutte le riflessioni di Benjamin. Il caso governa il rinvenimento di “perle e coralli” perduti. Il caso culla il dondolio del flâneur, che si districa tra le strade parigine. Il caso infausto si abbatte anche sulle vicende di vita di Benjamin.

 

L’impressione complessiva che si accompagna alla lettura di questo testo può essere emblematicamente descritta dall’estratto di una lettera che Benjamin scrive a Scholem nel 1931: “Un naufrago alla deriva su un relitto che s’arrampica sulla cima dell’albero maestro ormai disfatto. Ma da lassù egli ha la possibilità di dare un segnale che lo può salvare”. La metafora di Benjamin lascia intendere che la condizione di precarietà della sua vita non potesse conoscere rivolgimenti positivi, se non attraverso una salvezza collocata al di fuori di sé. Il relitto della tradizione consegna il naufrago a un’esistenza in balia del caso, sottraendolo, al tempo stesso, alla necessità orizzontale della filosofia del progresso e affidandogli uno sguardo che, dall’altezza dell’albero maestro, penetra l’infranto, cerca le connessioni tra i cocci della storia e ricongiunge i fenomeni all’autentica sorgente di senso. 

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