Moretti e Parise, cercatori di suoni

10 Maggio 2012

Dicono che certi batteristi rock degli anni Settanta si rinchiudessero intere settimane nei magazzini della Zildian o della Paiste per scegliere i piatti migliori. Mi immagino, che so, quel matto di John Bonham (Led Zeppelin) o Ginger Baker (Cream) giornate a provare i piatti, a farli cantare per scegliere la fusione più riuscita, quella dal suono perfetto. Poi, alla fine, tutto viene scartato, rimane solo il piatto, il suono.

 

Come i batteristi anche Goffredo Parise con i Sillabari è andato alla ricerca del suono migliore, perfetto, nel quale la realtà si compie. Lo ha fatto dopo un lungo percorso, anzi una complessa peregrinazione che lo ha portato ad “ascoltare” tanti suoni, dai romanzi non neorealisti in epoca neorealista, ai grandi reportages dai mondi socialmente e politicamente più impervi del pianeta, alle polemiche civili in cui, se partecipavi, farsi male era un rischio concreto, sino a giungere all’individuazione delle essenze quasi minerali dei Sillabari. Quando uscì il primo, 1972, era un’epoca di turbolenze in ogni piano della realtà, ma un giorno, scrive Parise, “nella piazza sotto casa, su una panchina, vedo un bambino con un sillabario. Sbircio e leggo: l’erba è verde. Mi parve una frase molto bella e poetica nella sua semplicità ma anche nella sua logica. C’era la vita in quel l’erba è verde, l’essenzialità della vita e anche della poesia. Pensai a Tolstoj che aveva scritto un libro di lettura non soltanto per bambini e poiché vedevo intorno a me molti adulti ridotti a bambini, pensai che essi avevano scordato che l’erba è verde,che i sentimenti dell’uomo sono eterni e che le ideologie passano”. Di qui nascono quelle piccole prose fatte di versi, tratti lievi e nitidissimi, con cui Parise racconta le emozioni più complesse e sottili. È il suono perfetto che si produce quando percuote il mondo, toccandolo o sfiorandolo appena, e ne fa scaturire una sorta di sintesi assoluta. Come alla ricerca dell’armonico naturale, sempre per restare nella metafora musicale, quel suono che scaturisce dallo sfiorare appena la corda della chitarra con la mano sinistra, un suono lungo e calmante, usato spesso come conclusivo e definitivo, “un amalgama in cui al suono fondamentale se ne aggiungono altri più acuti e meno intensi” (Wikipedia).

 

Quando fu pubblicato Sillabario n.1 l’autore fu maltrattato, agli intellettuali “in lotta” lui appariva come un inutile gagà, un personaggio dei romanzi di Maugham, uno che amava le lenzuola di seta del Ritz di Parigi. E lo diceva pure. E scriveva di cose evanescenti, sfumate, impercettibili, di sentimenti, di atmosfere inutili e vaghe. I suoi personaggi e i paesaggi in cui si muovevano erano dei disadorni un uomo, una donna, un bambino, una città italiana, una località di mare, dei campi, i tempi erano un giorno, un inverno. D’altro canto lo aveva dichiarato, il suo programma “non politicizzato” era di “scrivere dei racconti e dei libri possibilmente buoni, fare con estrema coscienza e sincerità e amore il mio lavoro. Tendere sempre con tutte le mie forze alla tanto disprezzata ‘poesia’, cioè a quella parte ‘alta’ dell’uomo in cui credo e su cui ho fondato la mia vita, perché essa è servita a lenire tanti dolori nella passata e presente storia dell’uomo” (“Il Gazzettino”, 31.10.1972).

 

È molto probabile che diversi tra quegli intellettuali che “militavano” leggessero Parise sotto le coperte per non farsi vedere da nessuno, è possibile che quel richiamo alle cose fondamentali degli uomini non sfuggisse proprio a tutti, non è pensabile che un tale amore per le delicatezze degli esseri umani passasse e andasse così stupidamente perduto. Ma non si poteva dire, non si poteva sostenere, quella di cui parlava Parise semmai era la strategia, il fine, il che cosa a cui tendere, ma in quel momento, nel fuoco sociale dei Settanta, era la tattica a dominare, il come “battere il nemico di classe”. C’è voluto almeno un decennio prima che i Sillabari fossero capiti. Così Giovanni Giudici, un poeta, non per caso, di Sillabario n. 2,“testo non labile in un’era dominata dalla labilità”, diceva: “Niente [...] è più ‘bello’ di una scrittura (e quella di Parise mi sembra tale) che nel mare della lingua umiliata dalla chiacchiera, mortificata dalla retorica, ridicolizzata dalla muscolarità dei mattatori, riesca a carpire, a ‘tradurre’, a incidere nel cuore del lettore il segno delle sue pur lievissime unghiate. Quanto meno pretende di ‘dire’, anzi ‘stradire’, tanto più essa ‘è’” (“L’Espresso”, 27.6.1982).

 

Nanni Moretti lo scorso 18 marzo all’Arena del Sole di Bologna nel “Concerto Moretti” ha letto e commentato brani dai suoi copioni, proponendo ciò che egli ha ritenuto essere i suoi frutti migliori, gli “armonici naturali” che lui ha cercato ed è riuscito ad ottenere, dopo un percorso brillante, ancorché a tratti sconnesso e francamente fuori tono, ormai abbastanza lungo, che gli ha permesso di costruire certi lampi perfetti di armonia. Scene e battute che, nel concerto, grazie alle musiche di Nicola Piovani e Franco Piersanti, autori delle sue colonne sonore (Piersanti in sala a dirigere l’orchestra), sono state esaltate e rese in qualche modo assolute. Il Mambo con Silvana Mangano, il finale di La messa è finita, la vespa e il Köln Concert alla ricerca di Pasolini, “Io non parlo così!”. Anche Moretti nel Concerto, come i batteristi, ha gettato tutto il resto e ha scelto il suo piatto, il suo suono.

 

 

Ora Moretti, cercatore di suoni, legge il cercatore di suoni Parise. “Mi sembrava arrivato per me il momento giusto per leggere e capire meglio quel libro”, dice in un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera”, 8 aprile 2012, in occasione dell’uscita dell’audiolibro della Emons in cui propone tutti i cinquantacinque testi dei Sillabari di Parise. Due personaggi distanti, per molti versi, nel tempo e nelle loro arti, ma evidentemente sintonici. Anche il regista pare approdato allo stesso esito: anche lui, nonostante il suo programmatico disincanto, forse ha la necessità di individuare le vene di una circolazione sanguigna che altrimenti rischia di essere occlusa e bloccata, quella dei “sentimenti” più autentici, alla scoperta “di quelle sorprese che possono confermare la forza della vita”, ha detto a proposito dell’ispirazione parisiana dei Sillabari. Come dire, anche per lui quell’erba è verde.

 

In questo quadro ci sta anche la sua voce afona, con un sereno accento romano, e ci stanno persino gli errori, che sono quasi commoventi (il caffè in Piazza S. Marco si chiama Floriàn e non Flòrian...), perché Moretti legge come “uno normale”, senza affettazioni e freddezze tecniche e questo lo avvicina al tono e al bisogno di sincerità che anche Parise aveva. Parise, recensendo Ecce Bombo, aveva riconosciuto a Moretti il dono dello humor, “il contrario e ben più efficace e allegro e vitale contrappeso del comico, ahimè triste, pessimistico ed eterno retaggio del nostro Paese”, gli aveva consegnato un suo piccolo testimone, di cui per altro lo stesso regista dice di non essersi allora (1978) accorto, poiché probabilmente troppo preso dall’infuriare dei “dibattiti”. E infatti quando Moretti legge i raccontini di Parise si percepisce la sua chiara partecipazione emotiva, gli sono vicini quegli “uomini” e quelle “donne” che si misurano con le loro emozioni più belle, quei raccontini in cui Anima, Bacio, Bambino, Caccia, Carezza, Casa, Cinema, Donna, Estate, Età, Famiglia, Fame, Gioventù, Guerra, Hotel, Italia, Lavoro, Madre, Mare, Noia, Ozio, Roma, Sogno, cioè la complessità della vita, diventano “sentimenti”. (Antonio Damasio avrà mai letto Parise?)

 

Moretti dice chiaramente, sempre nella stessa intervista, che c’è bisogno di “mettere in ordine - e conoscere - i sentimenti, vivendoli magari in modo meno esteriore”. Ma anche di “ricominciare a parlare di principi e di valori”. Magari, aggiunge (morettianamente), “per poi essere subito accusati, naturalmente, di ‘moralismo’”. Quante questioni si sentono sollevarsi attorno a questi temi. Parise, rischiando in qualche modo la reputazione e sfinendosi letterariamente (la sua scrittura di fatto si chiude “alla lettera S” dei Sillabari), aveva toccato un nervo scoperto. Che oggi Moretti insiste a toccare.

 

Ma la questione è un’altra: forse non si tratta di inanellare nuove riflessioni e più o meno abili letture del mondo (vedi i recenti “nuovi” realismi nostrani...), qui si tratta di fare largo al reale, non alla sua definizione ontologica, ma alla sua massa critica, dare strada al consistente quotidiano, non a ubbie più o meno convincenti. Non è una faccenda solo italiana, Mario Vargas Llosa, ad esempio, ha recentemente puntato il dito (gesto parisiano, gesto morettiano) contro la “frivolizzazione” cui la nostra epoca è sottoposta, anche lui sembra voler toccare le stesse corde, anche le sue sembrano urla nel silenzio della Civiltà dello Spettacolo, suo prossimo titolo dagli echi inevitabilmente debordiani. Quando a prevalere è la frivolezza, dice il premio Nobel peruviano, il quadro di valori diventa completamente confuso, viene sacrificata “la visione a lungo termine per quella a breve termine, per l’immediato. Lo spettacolo è proprio questo”. E della frivolizzazione è responsabile anche quel certo “oscurantismo bugiardo che identifica la profondità con l’oscurità, che ha portato la critica a degli estremi di specializzazione che la mettono al margine rispetto al cittadino comune al quale prima la critica serviva per orientarsi davanti a un’offerta così enorme” (Perché siamo entrati nell’era della cultura frivola, in “la Repubblica”, 20.04.2012).

 

Ci vorrebbe ben altro spazio. Basterà per adesso osservare che lì, quando apparvero i Sillabari, era ancora (ma già attenuata con il Sillabario n.2) l’onda lunga del dopoguerra, delle lotte tra gli antichi mondi del Comunismo e del Capitalismo, c’era come bisogno di isolare le parti da non gettare con le zavorre. E che qui, nella confusione odierna, quel richiamo alle essenze delle emozioni umane evidentemente è ancora un imperativo, non possiamo farne a meno.

 

Cosa cercano Parise, Moretti e Vargas Llosa? Il coagulo buono, il coagulo buono dei sentimenti? Forse serve una cassetta di sicurezza, una montagna, come per le sementi pregiate, sotto la quale nascondere per serbarli integri i semi, appunto, che servono a farci proliferare nonostante tutto, in cui mettere al riparo quello che ancora può contare, in attesa di tempi migliori: il senso della misura, il senso del ridicolo, il senso del denaro, il senso degli oggetti, il senso dei sentimenti, il buon senso... perché quell’erba è verde.

 

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