Oggetti d'infanzia | Bottoni

27 Aprile 2013

Non un oggetto ma una popolazione virtuale che colonizzava la mia cameretta di bambino. All’inizio furono i soldatini, poi le biglie con l’immagine incastonata dei ciclisti. Esse ampliavano il mio mondo ambiente perché potevano essere portate fuori, alla spiaggia, ad esempio, dove però la costruzione di piste dalle mirabolanti curve sopraelevate non faceva che replicare en plein air la chiusura dell’ambiente domestico. Non ho infatti mai preso seriamente l’ipotesi che tali giochi potessero essere comuni, che di essi si potesse fare il medio di una relazione. Giocavo da solo. Tuttora non credo che il gioco abbia altra vocazione che quella di servire ad una specie di autistico delirio quasi masturbatorio.

 

Godimento Uno, Godimento senza l’Altro, lo ha chiamato dottamente Jacques Lacan. Prima ancora, lo ricordo appena, furono i tappi delle bottiglie, e, per un lungo arco di tempo, furono le figurine dei calciatori che, per la necessità dello scambio, mi costringevano ad una effimera ed interessata socialità. Anche quando i giochi infantili lasciarono il passo, per banali questioni di crescita, alle ragazzine, ad incantarmi in quel nuovo gioco era ancora il fattore-numero, il fattore-muta. Ha ragione Proust. Sono solo retrodatazioni dell’amore adulto, vale a dire dell’amore socialmente approvato, quelle che ci fanno credere che i primi innamoramenti siano segnati dall’aura, dall’apparizione singolare di una lontananza nella forma di un bel visino.

 

In realtà, le ragazze arrivano all’ex-bambino sotto forma di turba, di branco, di schiera. Sono una nuova popolazione di fantasmi che viene a colonizzare la cameretta, sostituendosi ai soldatini, alle biglie e alle figurine o affiancandosi ad esse, in un difficile equilibrio, destinato ben presto a spezzarsi a favore delle nuove arrivate. Il trattamento di quella nuova molteplicità sarà comunque il medesimo. Più che mai, in questo caso, il godimento resterà solitario, domestico, perfino quando potrà manifestarsi in effusioni reali. Per queste ragioni, l’archetipo di tutti gli oggetti della mia infanzia è costituito dai bottoni. Non perché fossi povero e perché mi trovassi nella situazione di dover compensare con la fantasia la carenza di veri giocattoli. Di giocattoli ne avevo come tutti i figli della buona borghesia degli anni ‘60. Se non erano troppi lo si doveva solo al buon senso pedagogico di genitori intelligenti. 

 

I bottoni presentavano ai miei occhi alcuni straordinari vantaggi. Prima di tutto, si trovavano in casa, in grande abbondanza. Non era difficile racimolarne un numero consistente frugando nei cassetti di una famiglia numerosa, con molte donne, dove viva era ancora la tradizione del rammendo e del cucito. I bottoni sono molti per definizione e delle più varie fogge. A differenza dei tappi, loro diretti concorrenti, coniugano numero e differenza qualitativa. Inoltre i bottoni, come oggetti di gioco, mi esimevano dalla cerimonia familiare. Infatti, per la loro stessa natura di “oggetti trovati”, non potevano funzionare come regali. Non mi vincolavano come la mela avvelenata del dono parentale alla necessità di accettare, benedicendolo con un grazie, un legame sociale presupposto. Non mi strangolavano dentro il triangolo edipico, non mi facevano soffrire gratitudine, dipendenza, debito e, infine, vero obiettivo di ogni gioco regalato ad un bambino da un genitore premuroso, non iniettavano senso di colpa. 

 

I bottoni, insomma, non mi incastravano, lasciandomi, per altro, tranquillo nel mio guscietto. Ma cosa fare con i bottoni? Come impiegarli? I soldatini fanno la guerra, le biglie corrono sulle piste, le figurine si incollano sull’album inseguendo un vano sogno di completezza, le ragazzine (più tardi) si corteggiano e si cerca di spogliarle, una dopo l’altra, compulsivamente, ma i bottoni? L’idea, che non ha certo il pregio dell’originalità, fu quella di farli giocare a calcio sulla mia scrivania nera, trasformata in campo di gioco: due porte, un bottone da camicia spezzato perché potesse fungere da pallone, regole ferree che determinavano l’alternanza dei turni, i dribbling, i tiri, una serie di squadre, ispirate a quelle vere, che si contendevano il primato di un campionato che ogni giorno mettevo in scena in camera, sprangando la porta, perché mamma non vedesse quanto orribilmente infantile era ancora il suo bambino (ho giocato, quasi ogni giorno, credo, fino ai quattordici anni).

 

Devo loro momenti di altissima felicità e di vera nostalgia. Fu solo l’arrivo di una nuova muta con caratteristiche simili e foriera di analoghi piaceri solitari a farmeli lasciare alle spalle. Ad un certo punto apparvero, infatti, i libri.

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