Dalla politica alla geopolitica: minoranze antagoniste
Le grandi manifestazioni per Gaza hanno segnato la nascita di un soggetto finalmente “politico”. Prova ne è stata non solo la reazione dell’estrema destra governativa, che ha immediatamente fiutato il nemico e ha cercato di spegnerlo nella culla agitando lo spettro della “violenza”, ma anche lo smarrimento della sinistra istituzionale che ha visto minacciata la propria comfort zone fatta di quieta inoperosità e di retorica sui valori democratici. Parlo di nascita di un soggetto politico senza qualificarlo, come d’abitudine, con l’aggettivo “nuovo”, perché proprio di questo siamo stati testimoni: del ritorno di una soggettività antagonista nel tempo della crisi epocale e definitiva della democrazia liberale. Improvvisamente e inaspettatamente, è diventato visibile un movimento di massa all’altezza dell’evento capitale che ha segnato a livello mondiale la contemporaneità, un movimento in grado di “controeffettuarlo”, come avrebbe detto il filosofo a cui non ci si può non riferire per cercare di comprendere il nostro presente (nonostante Gilles Deleuze sia morto trent’anni fa). “Controeffettuare” la fine della democrazia liberale non significa restaurarla – non si resuscitano i morti – ma provare a trasformarla, per quanto è possibile, e ben consapevoli dell’improbabilità dell’esito positivo, in un’occasione per l’affermazione della giustizia.
A fare da orizzonte alle grandi mobilitazioni è stata infatti la consapevolezza da parte del movimento dell’avvenuta trasformazione della politica quale la conoscevamo e la frequentavamo sui banchi di scuola. Mi riferisco alla politica fatta di maggioranze elettorali conquistate con la persuasione razionale, di minoranze comunque garantite, la politica intesa come arena delle opinioni in conflitto tra loro e poste su un piano almeno di formale parità, la politica, insomma, di cui hanno nostalgia i nostri intellettuali progressisti. Quella politica non c’è più. Si è dissolta come neve al sole. Al suo posto è subentrato qualcos’altro che, in mancanza di un termine migliore, prendendo a prestito un lemma oggi molto in voga, chiamo “geopolitica”.
Il prefisso “geo” aggiunto al lemma “politica” non sta infatti a significare una semplice presa d’atto della dimensione internazionale del conflitto. Non indica soltanto l’ambito di cui si occupano con grande competenza i redattori della rivista “Limes”. Il prefisso indica piuttosto una radicale metamorfosi del “soggetto” della politica. Il mutamento segnalato dall’avvento della “geopolitica” è d’ordine “antropologico”, badando bene a dare a questo termine la sua più genuina valenza filosofica senza indulgere in estetizzanti considerazioni su presunti cambiamenti dei costumi. L’antropologia filosofica dei moderni, quella che ha fatto da sfondo alla creazione delle istituzioni liberali, era basata sull’idea che l’essere umano, in quanto animale razionale e parlante, fosse caratterizzato dalla libertà di scelta e dalla responsabilità, che fosse un essere del possibile, a differenza degli animali che non parlano, segnati come sono dalla bruta necessità naturale. Anche le grandi istituzioni sovranazionali create per regolare i conflitti per mezzo del diritto internazionale sono state generate sul fondamento di questa antropologia filosofica.
Il geopolitico professionista, che ascoltiamo quotidianamente alla televisione (almeno dalla invasione russa dell’Ucraina in poi), ci dà invece una lezione di duro realismo. Per questo lo si apprezza e se ne riconosce l’autorità in modo bipartisan. I suoi “soggetti” (i cosiddetti “imperi”) non sono esseri razionali, liberi e responsabili: sono potenze all’opera, più simili, quindi, ad animali silenti che a uomini loquaci. La potenza chiamata in causa dalla geopolitica non è dunque la potenza del possibile ma una potenza che non può non esercitarsi pena la sua riduzione a impotenza. La politica su quella scala planetaria cessa così di essere l’arte del possibile per diventare una sorta di divinazione dei destini imposti agli attori della scena mondiale. Per agire efficacemente bisogna saper cogliere l’attimo, mancarlo o misinterpretarlo vuol dire tramontare, non essere all’altezza dell’evento. Il soggetto della geopolitica non è quindi, il soggetto della potenza, non ne dispone liberamente, non ne ha “facoltà”, ma è soggetto alla potenza, è sottomesso alla sua indisponibilità di principio. È la potenza a dirigere i giochi della geopolitica. Tucidide e Machiavelli, Marx e Nietzsche sono i fari intellettuali del geopolitico.
La crisi su scala planetaria delle democrazie liberali ha mostrato come queste potenze impersonali fossero però all’opera anche laddove si credeva di vivere nel fiabesco regno di uno stato di diritto. Tutta la nostra antropologia è stata messa in questione. Le istituzioni del liberalismo che su di essa poggiavano stanno infatti crollando una dopo l’altra con la stessa velocità con cui sono evaporati i regimi del socialismo reale alla fine degli anni 80. Niente sembra resistere a tanta furia che ha nel successo mondiale del trumpismo la sua massima espressione. Un senso frustrante di impotenza di fronte all’inevitabile accomuna così tutte le opposizioni democratiche, progressiste, liberali. A dispetto di quanto pubblicamente sostengono, nessuno tra gli oppositori si illude di poter vincere la battaglia sul terreno tradizionale della politica. La ragione è semplice: non c’è più politica ma solo geopolitica e questa non fa sconti.

Ne fa fede il fatto che l’Europa politica, autoproclamatasi terra del diritto, è rimasta silente di fronte alla più evidente violazione del diritto a cui si è assistito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Il che comporta una rettifica del giudizio critico che si dà sul suo atteggiamento nei confronti del genocidio. L’Europa non è stata complice. Il complice di un delitto agisce in vista di un interesse inconfessabile, manifestando in questo modo ignobile una qualche forma di residua potenza. L’Europa politica è stata invece spettatrice non coinvolta dello sterminio, è rimasta seduta immobile sulla sua poltrona a rispettosa distanza dalla scena con la quale non poteva di fatto interferire, perché, come a teatro, da essa era separata da una invisibile “quarta parete”. Gaza era per lei, in fin dei conti, una rappresentazione sulla quale semmai formulare un prudente giudizio estetico (prevalentemente di disgusto). L’Europa politica assisteva impotente perché, non essendo un soggetto geopolitico, non aveva infatti nessuna energia cui attingere per agire contro lo sterminio: l’azione contraddice, infatti, la sua natura inoperosa, il suo universalismo vuoto, la sua antropologia idealistica, il suo umanesimo retorico. Agire è compromettersi, agire è particolarizzarsi, agire è individuarsi, agire è farsi corpo in movimento, agire è letteralmente abbandonare la riva per andare in mare aperto. I buoni Europei per restare con la coscienza a posto di fronte allo sterminio potevano tutt’al più, come hanno predicato, ahimè, anche alcuni autorevoli intellettuali radicali, optare per la “diserzione” (come fa il nichilista Ivan Karamazov dopo aver illustrato l’assurdità del creato al devoto fratello Alyosha: “io preferisco restituire il biglietto”).
In questo contesto la vicenda della Global Sumud Fotilla e le manifestazioni pro-Gaza hanno segnato l’emergere nel deserto dell’Occidente di un soggetto geopolitico antagonista. A caratterizzarlo non è la diserzione ma l’azione, non il “preferirei che no” ma l’engagement. Niente a che fare con la difesa reattiva dei valori democratici minacciati, ma una potenza all’opera, una potenza che spariglia le carte, che costringe con la forza del fatto compiuto, la sola geopoliticamente rilevante, a rinegoziare i rapporti, a ristrutturare l’arena politica, che è percepita come un campo di battaglia. Federico Leoni, su Doppiozero, ha scritto un paio di settimane fa pagine illuminanti a questo proposito alle quali, credo, non c’è molto da aggiungere.
Mi si potrebbe obiettare però che i “valori” del diritto, della democrazia e della pace, radicalmente compromessi dalla trasformazione della politica in geopolitica, sono stati le parole d’ordine di chi è sceso in piazza e questo contraddirebbe la tesi da me sostenuta circa la natura geopolitica del nuovo soggetto antagonista. In realtà non è in nome del diritto che milioni di persone si sono mobilitate, ma in nome della giustizia, che è altra cosa rispetto al diritto. Il diritto regola rapporti di forza istituiti, mentre la giustizia è l’atto instaurativo e necessariamente polemico con il quale si costruisce un ordine il più possibile “umano” contestando quello esistente. Spesso la sete di questa giustizia sostanziale può portare un popolo oppresso anche a compiere azioni incompatibili con il piano astratto del diritto.
E non è la democrazia a costituire l’orizzonte politico di questo soggetto antagonista. A dispetto della sua numerosità, esso resta infatti intrinsecamente minoritario. Diventare maggioranza politica non è la sua ambizione, perché se lo divenisse la sua potenza svanirebbe. Piuttosto esso opera per disgregare le maggioranze stabilizzate, per corroderle e per far circolare aria fresca in quelle stanze buie. È la grande lezione politica del pensiero deleuziano: le minoranze, scrive, sono vitali fintantoché praticano un “divenire minore”, fino a quando vampirizzano il corpo sociale disgregandolo, contagiandolo e ricomponendolo su altre imprevedibili linee di fuga. Se c’è una utopia rivoluzionaria ancora credibile oggi, essa è fatta da un formicolare di minoranze in assenza di un principio trascendente unificante. Il lemma “Gaza” ha funzionato proprio come detonatore di questa potenza delle minoranze, tant’è che su quelle piazze hanno sfilato assieme storie e culture diversissime, LGBQT+ e ragazze che indossavano orgogliosamente il velo. Chi si meravigliava della partecipazione di massa allo sciopero per la Palestina di lunedì 22 Settembre, non notava forse, con sollievo, come in esse fossero presenti volti inattesi e non i soliti noti? C’erano anche quelli, certamente, ma come sorpresi dal fatto di non essere confermati nella loro abituale solitudine. Le destre, che sanno riconoscere immediatamente il loro avversario più pericoloso, non temono per nulla le opposizioni parlamentari, ma hanno in orrore la capacità di contagio delle minoranze, perché sono le sole in grado di produrre una reale egemonia culturale (non confondibile con la propaganda e con la promozione di amici e parenti alla direzione di istituzioni culturali).
E non è infine la pace a costituire l’orizzonte etico del soggetto geopolitico antagonista. Non perché opti per la guerra ma perché sa che la guerra è già da sempre cominciata. Chi agisce politicamente agisce in un contesto di guerra. Il carattere politico della Global Sumud Flotilla era dato dal suo obiettivo militare nient’affatto taciuto ma proclamato ai quattro venti: rompere lo stato di assedio a Gaza. Gli israeliani sono stati quindi conseguenti mandando i militari a fermarli. Si può allora convenire con Michel Foucault, che nel 1976, nella sua introduzione al corso tenuto al Collège de France, Bisogna difendere la società, provava a rispondere alla domanda “che cosa è la politica, oggi” rovesciando la celebre formulazione di Clausewitz. La politica (divenuta “geopolitica”), diceva, è la continuazione della guerra con altri mezzi. Per un soggetto antagonista, necessariamente minoritario, sprovvisto di armi che non siano la potenza delle idee, sottoposto a un controllo spietato da parte degli apparati tecnologici, diritto, democrazia e pace, lungi dall’essere dei “valori in sé”, sono allora le sole armi a disposizione con cui continuare a combattere la grande guerra mondiale.