Il Sapere è una jam session

21 Febbraio 2023

I tre saggi che compongono Sapere di Alessandro Carrera (Il Mulino, Bologna 2022) ruotano tutti intorno a una sola questione, la cui urgenza, prima di essere teorica, è schiettamente autobiografica. Carrera si chiede che cosa significa, oggi, essere un funzionario del sapere, un ministro della sua trasmissione, un insegnante, un divulgatore, un animatore del dibattito culturale, un promotore di idee. Carrera sta chiedendo in fondo di sé. Carrera è infatti un intellettuale poliedrico dalla impressionante capacità produttiva. Filosofo e musicologo, narratore, poeta e cronista della vita americana (risiede da anni negli Usa dove insegna all’Università di Houston in Texas), si è misurato nei più svariati campi del sapere senza che la vastità del suo sguardo abbia mai compromesso l’acutezza e la precisione delle singole analisi.

Con questo saggio si chiede che ne è di quel sapere che ha servito e che continua a servire con tanta dedizione fin dagli anni del suo apprendistato intellettuale a Milano, quando frequentava alla Statale i corsi di Carlo Sini (laureandosi con una tesi sulla dodecafonia). Dissimulata da una vena ironica e da una scrittura sempre brillante, la domanda ha un suo innegabile pathos: dopotutto chiede del senso della prassi a cui si è consacrata una intera esistenza, prima fra tutte la prassi dell’insegnante. Se lo statuto del sapere è in questione, lo è infatti a maggior ragione quella di chi è chiamato a trasmetterlo. 

Carrera avanza un’ipotesi suggestiva su “come fare” a insegnare nel momento in cui la legittimità trascendentale del sapere è messa radicalmente in crisi. Soprattutto negli Usa, ma non solo, il “canone” del sapere umanistico, con le sue gerarchie di valore, è stato violentemente contestato. Del sapere si diffida per la sua compromissione con il potere patriarcale, bianco ecc. ecc. Dietro le verità eterne, le minoranze oppresse fiutano l’ideologia del padrone. Il linguaggio viene così rettificato in funzione di una correttezza astratta e astorica.

La critica dell’universalismo, che forse Carrera aveva incontrato per la prima volta proprio sui banchi dell’Università di Milano quando alla fine degli anni 70 Sini vi aveva introdotto Nietzsche e Foucault, ha formalmente vinto la sua battaglia, anche se nei fatti le minoranze continuano ad essere oppresse. “Le università americane, scrive, sono le ultime istituzioni maoiste rimaste al mondo. Soprattutto in quelle più costose ed elitarie, gli studenti woke sorvegliano il linguaggio dei loro professori non diversamente da come una guardia rossa era sempre pronta a cogliere il proprio insegnante in flagrante deviazionismo borghese”. Ne risulta un sapere sterilizzato, formulaico e rigorosamente impersonale proprio come era il sapere professato dalle guardie rosse.

Del resto questo sapere autocontrollato è perfettamente funzionale al nuovo ordine degli studi universitari. Le carriere accademiche si costruiscono con articoli che devono passare il vaglio dei revisori. Per farlo chi scrive deve anticipatamente modellarsi sulle attese della comunità scientifica di riferimento, guardandosi da ogni originalità che possa essere censurata. Il sapere, va detto, si è sempre enunciato alla terza persona del singolare: a parlare, quando bisogna dire il vero, non è mai stato nessuno in particolare così, come tutti, cioè nessuno in particolare, ne sono i soli interlocutori. Ora però la terza persona ha per così dire gettato la maschera.

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Non è più la voce impersonale della verità, la voce di una Chiesa, di un Partito o della Scienza, ma è l’espressione di un “Altro generalizzato” che orienta l’ordine del discorso nella giusta, perché “corretta”, direzione. La tanto paventata sostituzione della intelligenza naturale con quella artificiale è già un fatto ordinario in tanti dipartimenti, soprattutto quelli in cui si pratica la filosofia analitica (che è egemone sulla scena americana). La famosissima ChatGPT potrà solo perfezionare meccanicamente, fornendo bibliografie meglio aggiornate, quello che di fatto già accade in quei dipartimenti: la produzione “sintetica” di un sapere neutro, aproblematico, totalmente prevedibile, sotto la sorveglianza arcigna di un algoritmo. 

Come professare allora il sapere? Come continuare a fare il proprio mestiere se nessun giudizio di valore è più tollerabile dagli utenti? Come mettersi in gioco alla prima persona, sperimentando, rischiando vicoli ciechi ed errori?  La risposta di Carrera è pragmatica e merita proprio per questo la massima attenzione. Invece di vestire i panni, ormai troppo logori, di chi è supposto esserne il depositario, il sapere o quello che ne resta bisogna “modularlo”. Il modello, ben noto a Carrera, che ha lungamente frequentato (teoricamente e praticamente) la scena musicale popolare, è quello del dj setting:

“Sono cinquant’anni, scrive, che ad ogni inizio di settembre mi ritrovo dietro una cattedra (…) Di fatto, da una dozzina d’anni in qua, non insegno veramente.

Faccio il dj. Quando il mio corso è su Dante, metto sul piatto Dante (…) Ho imparato a tagliare, mischiare, campionare e sequenziare (…) Imposto le frequenze, passo da una playlist all’altra in dissolvenza incrociata e ci faccio sopra qualche rap”. E a proposito del nesso insegnamento-apprendimento, punto nevralgico di ogni seria pedagogia, conclude: “io sono quello che gli mette su la musica. Loro sono lì per ballare”. 

 

Carrera sta forse qui svilendo il sapere riducendolo a mero consumo? Sta facendo della scuola l’appendice di una discoteca? Si sta adeguando opportunisticamente alla “mutazione antropologica” intervenuta dopo la “scomparsa delle lucciole”? Nient’affatto. Nella sua sensibilità, maturatasi nel corso di una vita difficile, non c’è spazio per il pasolinismo di maniera (o, forse, per Pasolini tout court…) e di questo bisogna rendergliene onore. E infatti aggiunge: “Non posso negare che mi sto divertendo moltissimo. Mi piace fare il dj della cultura”. È una dichiarazione, questa, che la dice lunga sulla sua frenetica e incessante attività intellettuale. Ed è una dichiarazione “onesta” non perché confessi un difetto, ma, al contrario, perché enuncia un metodo.

Se infatti il sapere cessa di essere lo specchio di una verità data e presupposta, se dalla critica è stato spogliato della sua aura di sacralità, se è stato riportato in terra e contaminato con la politica, il sesso, il godimento, se, infine, come dicono i filosofi della mente esternalisti, dal “dentro” della testa del suo supposto titolare (il professore, l’istituzione, il padrone) il sapere si è diffuso “fuori”, in una molteplicità di supporti tecnologici e di memorie artificiali a disposizione, allora la sua trasmissione non può più avere la forma classica dell’“imbuto di Norimberga” (il Nürnberger Trichter, recita Wikipedia, “è una descrizione giocosa di un modo meccanico di apprendimento ed insegnamento.

Da un lato, evoca l'immagine di uno studente che impara le sue lezioni con questo tipo di metodo di insegnamento quasi senza sforzo e, dall'altro lato, un insegnante che insegna tutto persino agli allievi più ‘stupidi’”). Il sapere assomiglierà piuttosto a una jam session retta dalla logica della improvvisazione: non qualcosa che si esegue seguendo un copione prefissato, ma qualcosa che si fa nel tempo in cui si sta facendo.  A chi gli chiedeva di definire in 15 secondi la differenza fra composizione e improvvisazione, Steve Lacy rispose: “In quindici secondi la differenza fra composizione e improvvisazione è che quando componi hai tutto il tempo che vuoi per decidere cosa dire in quei quindici secondi, mentre quando improvvisi hai solo quindici secondi”. Il che non significa affatto immediatezza e assenza di competenza, ma al contrario una padronanza superiore, che si misura con la circostanza in cui è prodotta, un sapere che non cessa mai di cominciare o meglio di “ricominciare” “qui e ora”. 

Questa immagine del sapere è in realtà assai antica. La formula Platone per controbattere alla supponenza del tiranno siracusano che credeva di sapere perché aveva letto i libri del filosofo. Un libro, dopotutto, non è nient’altro che un prodotto di sintesi reso possibile dall’algoritmo alfabetico. Platone lo stigmatizza come una sorta di macchina astratta del ricordo che bypassa l’esperienza alla prima persona, senza la quale non vi è vero sapere. Nessun sapere, infatti, senza synousia, nessun sapere senza eros, nessun sapere senza il brivido della presenza e senza il rischio sempre incombente del fallimento.

Come ChatGPT, la tecnologia alfabetica genera invece il mostro di un sapere interamente formalizzato alla terza persona che è a priori immune da queste avventure. Ma questa immagine del sapere la si ritrova anche dove meno ce la si aspetta. Quale filosofo è apparentemente più istituzionale, più retore, più  autoritario, del convinto fascista Giovanni Gentile? Fare anche di lui un dj della cultura sembra solo una provocazione. Eppure dalla sua radicale avversione per la “didattica” c’è ancora molto da imparare. A chi gli chiedeva quale era il criterio per riconoscere una buona lezione, rispondeva che una lezione riuscita è solo quella al termine della quale non solo gli alunni ma anche (e soprattutto) il maestro ha imparato qualcosa che prima di entrare in aula non sapeva. Il sapere è un evento trasformativo prima di essere un significato condiviso e trasmesso. Il sapere è una durata creatrice oppure è solo l’esecuzione di un programma. Tener ferma questa differenza nell’implicazione reciproca è tutta l’arte di un dj della cultura e, forse, anche una possibile definizione della saggezza pratica.

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