Orfeo: Villoresi nel labirinto del desiderio

4 Dicembre 2025

Se state leggendo questo articolo da un telefono (ma dallo schermo di un laptop cambia comunque poco), non siete in una situazione molto diversa da quella di coloro che, nell’aldilà di questo Orfeo, stanno nel buio più pesto davanti a rettangoli luminosi grandi più o meno come uno smartphone, “a guardare attraverso piccoli finestrini un’emozione lontana”.

Eppure, quei rettangoli luminosi erano già, pari pari, nel Poema a fumetti di Dino Buzzati, nel 1969. È uno dei molti motivi visuali che da esso Virgilio Villoresi, insieme al co-sceneggiatore Alberto Fornari (e con la collaborazione di Marco Missiroli), preleva per questo nuovo Orfeo, sbarazzandosi con un paio di tocchi nei primi cinque minuti della valanga di perniciose carni femminili (ossessione tutta buzzatiana) che, lungo un bel po’ di quella graphic novel, sembravano ostruire una Milano che lo scrittore pareva voler strappare al design e all’architettura del boom di allora con le armi di taluni espressionismi pittorici, e di angoli urbani che sembravano non rassegnarsi all’obsolescenza. Certo, un accenno di stratificazione di riferimenti figurativi in Poema e fumetti c’era già, ma ancora dovevano venire (per dire) Mario Bava, il conseguente Giallo thriller alla Argento, e soprattutto quello sconfinato cimitero degli elefanti di tutte le avanguardie e tutti gli sperimentalismi che si chiama “videoclip”. Mondo, quest’ultimo, che Villoresi frequenta già da anni con molto successo, lavorando anche per Blonde Redhead, Vinicio Capossela, John Mayer… e poi tanti spot, e tanto altro.

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Virgilio Villoresi sul set del film.

Basta un’esplorazione anche sommaria del suo sito, o dei suoi canali YouTube e Vimeo, per convincersi che Villoresi è, in Italia e non solo, tra i talenti visuali maggiormente immaginifici in circolazione, per inventiva e per varietà di stili, formati, tecniche, supporti… Particolarmente evidente è il suo disinteresse per il digitale (rieccoli, i telefonini), in favore della manualità dei mondi costruiti con la materia vera, con una certa attenzione per l’oggettistica vintage e consegnati alle metamorfosi di un’animazione approcciata con non meno tattilità: poco sensato lasciarsi andare alla litania delle influenze, ma conviene ricordare (Villoresi lo fa spesso nelle interviste) quantomeno l’animazione polacca, ed Est-europea in generale, della seconda metà del secolo scorso.

Insomma: già moltissimi si sono accorti che Villoresi può fare un po’ tutto, molto bene e anche con pochi mezzi. E come sempre, per definizione, il segreto del poter fare un po’ tutto sono i limiti – inclusi e non da ultimi quelli dettati dagli imperativi commerciali. La centralità dei limiti nel poter-fare artistico l’ha dimostrata definitivamente il Jean Cocteau di Le Sang d’un poète (1930), vent’anni prima del suo Orfeo cinematografico e a quasi cento da questo nuovo, che tiene entrambi in gran conto. Anche lì, lo specchio di Narciso è un mezzo, non un fine: qualcosa che letteralmente viene attraversato. Dello specchio, rimangono i frantumi: in Poema a fumetti le cime della Grande Fermeda non lontana dalla Belluno di Buzzati; in Orfeo i filmati di repertorio in super8 della madre ballerina di Villoresi. Poi, di là dallo specchio c’è qualcosa. Ma cosa? La storia di questo musicista (Orfi) che insegue l’amata Eura in un aldilà che si spalanca da un’anonima palazzina del centro davanti a casa sua, dove imparerà a lasciare andare la sua desiderata immagine, è davvero solo uno sfoggio di sbalorditiva creatività? Solo l’ennesima rinascita della Meraviglia onirico-fantastica pescando dal grande mare (quello da cui pesca il videoclip) in cui si sono depositate avanguardie storiche e sperimentalismi vari, a furia di stop motion, di 16mm, di modellini e altri effetti analogicissimi (il glorioso “effetto Schüfftan”: uno specchio davanti all’obbiettivo per unire insieme parti di spazio distanti tra loro), di ceneri nere che volteggiano a mezz’aria su sfondo ocra verso la Stazione Centrale, di pelosi ragni giganti semi-meccanici che ghermiscono fanciulle indifese, di un pianeta Terra dimezzato (solo l’emisfero nord!) che si liquefa (“e si sta afflosciando sulle ginocchia di Dio”), di bellicosi scheletri in divisa e colbacco? Oppure Orfeo è il segno di qualcosa di più? “L’assurdo e la Grazia sono testa e croce di una stessa moneta che il poeta lancia nella sua notte e ricade nelle nostre tenebre”, scriveva Jacques Rivette all’indomani di Il testamento di Orfeo (Jean Cocteau, 1960). Se guardiamo allora a quella moneta nelle nostre tenebre del 2025, cosa troviamo di diverso rispetto a quello che avremmo trovato nel 1930, nel 1950, nel 1960?

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Luca Vergoni (foto di Sara Costantini).

Mentre ciò che designa nella realtà socioeconomica scompare con scioccante rapidità, la parola “artigianato”, nell’Italia di oggi, vuol dire tutto e non vuol dire più niente. Vale per Simone Massi come per Ficarra e Picone, per Grom e per la Fiom. Questo film invece, prova a mettere dei paletti: ci invita cioè a prendere sul serio la tradizione che per secoli si è innestata sul mitologema “Orfeo”, per ricordarci che quando si lavora con la materia si ha sempre a che fare con i fantasmi. Lavorare con la materia vuol dire affrontare le infinite statue del blocco di marmo prima che diventino una; vuol dire familiarizzarsi con i punti in cui i fantasmi cominciano e quelli in cui finiscono, rifiutando il potere dell’immagine astratta di fare di tutto un Uno (è lo stesso potere che ha il digitale di incatenarci), come pure rifiutando i sensi e la loro sregolata frammentazione (le menadi che tentano Orfi). Vuol dire fare un leitmotiv del modo in cui la luce penetra negli interni – magari uno alla Piero Portaluppi (anche lui ricorrente nelle interviste) da un finestrone art nouveau giallo e blu. Vuol dire sentire quando il racconto deve respirare e guardarsi intorno (le soglie dell’aldilà, tra gli alberi morti, come palese “camera di decompressione” narrativa). Vuol dire creare una geografia immaginaria ma coerente, omogenea, da frastagliare poi con gli spericolati, studiatamente cangianti cromatismi delle scenografie.

È soprattutto, in effetti, nella costruzione di uno spazio prettamente cinematografico che Orfeo diverge da Poema a fumetti. Nonostante il cha cha cha e i fotoromanzi appesi alle pareti, o i colonnati alla de Chirico, in Villoresi l’ambientazione è sostanzialmente atemporale, e con la zavorra dell’attualizzazione (il cantautore pop-rock di Buzzati diventa un pianista classico), se ne vanno anche i feticci letterari (la frammentarietà ellittica, spesso aforistica dell’originale). Supporto ordinario di un’azione tutto sommato lineare da un lato, dall’altro lo spazio è percorso da una costante tensione tra profondità e bidimensionalità. È un gioco di zoom e movimenti di macchina che stringe a vicenda Orfi ed Eura, la sera del loro colpo di fulmine al “Polypus” (il locale dove il primo si esibisce); ritrovata Eura un’ultima volta alla stazione centrale, è in profondità di campo che Orfi verrà risucchiato. Difficile però, se non impossibile, districare il groviglio tra le due e le tre dimensioni, tra il mondo delle immagini (o fantasmi) e il nostro, perché in mezzo può esserci solo quel labirinto in cui ci auto-imprigioniamo, chiamato “desiderio”.

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