Bellocchio. Fai bei sogni / Sbatti il “Buongiorno” in prima pagina

18 Novembre 2016

In Episodio II – L'attacco dei cloni (2002), secondo capitolo della trilogia-prequel di Guerre Stellari, George Lucas ci mostra come il giovane jedi Anakin Skywalker sia diventato l'arcicattivo Darth Vader. La spiegazione sa di freudismo d'accatto: da quando gli è morta la mamma, il promettente cavaliere ha cominciato a diventare un adolescente problematico in guerra col mondo, e da lì non si è mai più rimesso.

 

Non c'è bisogno di mobilitare i fasti della Hollywood classica per ricordare che dallo pseudo-Freud di paccottiglia possono nascere fior di meraviglie cinematografiche. La carriera di Bellocchio è lì per dimostrarlo, come del resto quella del suo “vicino di casa” Bernardo Bertolucci.  Non sarà un sottovalutatissimo capolavoro assoluto come Sangue del mio sangue – probabilmente il film più bello e importante mai realizzato sull'Italia post-1989 (o, a seconda dei gusti, post-1992) – eppure Fai bei sogni (2016) conferma l'abilità di Bellocchio di partire da premesse francamente sconfortanti per trasfigurarle in qualcosa di molto, molto prezioso, a cui vale la pena avvicinarsi con attenzione.

 

Marco Bellocchio. 

 

A tutt'oggi, due sono i cardini principali del cinema di Bellocchio. Uno, fin dai suoi esordi, è la convinzione che la figura della Madre informi gran parte dell'inconscio collettivo italiano, qualunque cosa esso sia. L'altro, aggiuntosi per la verità solo negli ultimi vent'anni, dopo la controversa parentesi umana e cinematografica fortemente influenzata dallo psicanalista Massimo Fagioli, consiste nell'ipotesi che da qualche decennio in qua l'Italia abbia smesso di vivere (e cioè di partecipare alla Storia) per rifugiarsi nel mondo “laterale” dell'immagine mediatica. Buongiorno, notte (2003), ad esempio, metteva in scena l'omicidio di Aldo Moro come momento chiave in cui l'Italia voltò le spalle all'ancora vitale subbuglio sociale degli anni '70 per rinchiudersi dentro a uno schermo televisivo. Vincere (2009) mostrava un Mussolini che scelse di sparire, letteralmente, dalla Storia non appena rinunciò alle utopie socialiste, per confinarsi invece nelle immagini dei cinegiornali, a propria volta scimmiottate da una nazione intera (che nel film viene rappresentata metonimicamente dal figlio pazzo che il dittatore disconobbe).

 

Nessuna di queste premesse è granché originale, e anzi sono entrambe piuttosto stucchevoli. Il miracolo del cinema di Bellocchio sta appunto nel riuscire a combinarle e articolarle insieme in modo che, sullo schermo, perdano per strada la loro rispettiva improbabilità, prendano vita e comincino a camminare con le proprie gambe in maniera estremamente convincente.

Possiamo solo immaginare l'«Eureka!» del regista nell'imbattersi nel romanzo autobiografico di Massimo Gramellini da cui Fai bei sogni è stato tratto. In esso, uno dei massimi rappresentanti (insieme al sodale Fabio Fazio) della melassa politicamente corretta che oggi, a tramonto del berlusconismo ormai consumato, è la peggiore, più in voga e più pericolosa delle ideologie, confessa che c'è un filo diretto tra la perdita della madre ad appena nove anni e il successivo “rifugio” nel giornalismo. Insomma: un po' come nel caso di Anakin Skywalker, è stato quell'evento traumatico a farlo passare al Lato Oscuro.

 

 

D'altro canto, le differenze non possono non saltare agli occhi. Darth Vader è un pressoché onnipotente genio del male larger than life, e allo stesso tempo è uno zombi strappato alla bell'e meglio dalla morte. Il protagonista di Fai bei sogni, invece, a dispetto dell'effettivo potere mediatico di cui gode oggigiorno, è solo uno zombi. Per questo Bellocchio sceglie Valerio Mastandrea, che con quella sua aria bonariamente spenta e mezza addormentata è con ogni evidenza l'attore più “zombesco” attivo in Italia da un bel po' di tempo a questa parte. Poco male se, in questo modo, una vicenda inchiodata all'assai preciso contesto geografico torinese (dalla finestra di casa Gramellini si vede lo stadio Comunale) viene contaminata dall'interprete che più “romanesco” non si può: ciò che è e rimane fondamentale è che il protagonista sia uno zombi.

 

A ben guardare, tuttavia, è il film stesso nel suo complesso ad essere uno zombi. Lo si capisce meglio se lo paragoniamo al resto della filmografia di Bellocchio, e soprattutto allo stile che la caratterizza. Quando si pensa al cinema del maestro piacentino, la prima cosa che viene in mente è un eccesso espressivo che rimane incollato alle immagini, spesso non senza una qualche teatralità. L'incedere nervoso di Castellitto di spalle nei corridoi in penombra de L'ora di religione; una fiaccolata fuori fuoco in profondità di campo che lentamente, avvicinandosi all'obbiettivo, acquisisce visibilità ne Il principe di Homburg; le danze intorno ai falò de La visione del sabba... Insomma: Bellocchio cerca ad ogni piè sospinto una palpabile instabilità più o meno sottile, ma sempre potenzialmente esplosiva. Ed essendo i cascami freudiani mai troppo lontani nel suo cinema, verrebbe da dire che la dimensione visiva dei suoi film fa di tutto per materializzare una qualche energia repressa che preme per riguadagnare la superficie. In Fai bei sogni, è l'esatto contrario. L'eccesso, qui, lascia il posto al difetto. Intendiamoci: non si tratta affatto del troppo liscio “grado zero della messinscena” delle fiction o dei film di Marco Tullio Giordana. Si tratta invece di una regia e di un'atmosfera stranamente ma sistematicamente devitalizzate. Al posto del “di più” espressivo costantemente ricercato da Bellocchio, non uno zero, ma un sottozero. È in fondo sempre lo stesso cinema, sempre lo stesso stile, però con il segno “–” al posto del “+”, davanti a una cifra che rimane comunque molto alta.

 

 

Per la verità, non è l'intero film ad essere così sinistramente disforico. Fai bei sogni comincia anzi sotto il segno dell'euforia: i primi minuti indugiano su una sorta di idilliaca e perfetta simbiosi fusionale tra madre e figlio dentro le quattro mura di un appartamento piccolo borghese. Poi, l'inversione a “U” a seguito della morte della madre. Il piccolo Massimo tenta di reagire rifugiandosi non già in Darth Vader, che allora ancora non esisteva, ma in una figura prelevata da quel medesimo calderone di cultura popolare da cui Lucas stesso attingerà a piene mani per tratteggiare il suo villain: Belfagor. Costretto ad abbandonarlo per far fronte agli imperativi della crescita, il protagonista si volge allora già in tenerissima età al giornalismo sportivo. E vedendolo esagitarsi e dare in escandescenze davanti a un finto microfono mentre si esibisce in un'improvvisata telecronaca calcistica, capiamo già che il bambino scivola subito verso il più tipico degli investimenti malinconici: prende un feticcio (il giornalismo), e lo carica della vita che il suo oggetto amato non ha più. Alimentando quell'assenza di vita che è la “mediasfera” nella quale Massimo passa in pochi anni da comprimario a protagonista, la madre continua a vivere in lui. 

 

Da lì in poi, il film si trascinerà con l'ondivaga abulia del malinconico tra passato (la vita di Massimo, dall'infanzia fino ai giorni nostri) e presente (un Massimo di mezza età che visita l'appartamento dei genitori) – nonché, letteralmente, tra un'epifania e l'altra. Che sia un prete, che sia un miliardario rovinato da tangentopoli, o meglio ancora che sia un abbastanza spensierato bambino jugoslavo alle prese con un videogioco nei primi anni Novanta, piazzato da un fotografo di fianco a una donna morta nel conflitto per aggiungere giusto un po' di sensazionalismo gratuito, tutto, in qualche modo, parla del trauma di Massimo. La verità su se stesso, insomma, è davanti ai suoi occhi lungo tutto il film, ma la riconoscerà solo quando, con geniale ironia, sarà proprio un pezzo di giornale a rivelargliela. Da esso emergerà, infatti, che la madre ha scelto volontariamente di morire anziché di poterlo crescere, e che dunque non l'ha mai veramente amato; Massimo dunque scopre di aver scelto, lungo tutta una vita, di non vivere, in modo da tenere in vita il fantasma completamente immaginario e privo di fondamento di un amore materno tanto inglobante e assoluto quanto, in realtà, inesistente.

 

 

È qui che la diagnosi psicanalitica e quella sociologica si saldano insieme, ed è una diagnosi a cui il cinema di Bellocchio ci ha già da tempo abituato. Secondo essa, l'immaginario collettivo italiano sarebbe incapace di liberarsi della dimensione del Mito, proprio perché quest'ultima viene vampirizzata dalla alternativa secca e “materna” dell'“io ti faccio e io ti disfo”, e cioè tra un appiccicoso “tutto pieno” emozionale e la negazione più totale; innanzi ad essa, l'autorità paterna (quella della Legge e del Linguaggio) non può nulla. Non è un caso se Massimo e il padre si ritrovano all'anniversario della strage di Superga, perché Superga è forse l'epitome perfetta di quello che è il Mito secondo Bellocchio: celebrazione della coincidenza micidiale tra la morte e l'immaginario. Il Grande Torino è grande perché sono tutti morti. È probabilmente questo che pensava Orazio Smamma, il cineasta “pupiavatiano” che ne Il regista di matrimoni (2006) simulava la propria dipartita solo per vincere un David postumo, sentenziando: «In Italia comandano i morti». La mediasfera in cui tutti ci tuffiamo quotidianamente, insomma, è costante celebrazione dell'immaginario in quanto assente, in quanto relegato a una pienezza mitica che possiamo continuare a presumere tale solo nella misura in cui essa sta “là” dove non stiamo noi. In questo senso, l'intera carriera di Massimo (cominciata non a caso con l'avvento della Seconda Repubblica), esaudirà il desiderio del tycoon che si suicida appena raggiunto da Mani Pulite, subito dopo una sua intervista: «Sarebbe bello che lei fosse il ghost writer della mia autobiografia». 

 

La Seconda Repubblica, compimento definitivo della società italiana in quanto spettacolo, non è altro che l'infinito funerale in cui la Prima viene messa sì a distanza, ma su un piedistallo rigorosamente irraggiungibile. (Questo punto, aveva provato ad articolarlo anche Daniele Ciprì, qui direttore della fotografia, nel suo sottovalutato esordio registico È stato il figlio). E se a rimanere schiacciato in questa tremenda tenaglia ideologica risulta soprattutto il Racconto (emanazione dell'autorità paterna), è anche il Sogno a trovarsi con le mani legate, proprio perché esso è un tentativo di ripetere il trauma attraverso la mediazione di un seppur distorto racconto. L'augurio «fai bei sogni» che la madre rivolge a Massimo prima di uccidersi, si rivelerà solo il beffardo sigillo all'impossibilità di sognare, o di redimere in sogno la propria non-vita. C'è infatti una sola parentesi onirica in Fai bei sogni, quella del ricevimento nella villa sontuosa e isolata, strettamente collegata al personaggio della dottoressa di cui Massimo si innamora, e che sembrerebbe per un po' una “seconda madre” che possa aiutarlo a risolvere il trauma ripetendolo. Speranza che si rivelerà vana.

 

 

Altrettanto vana è l'illusione che serva a qualcosa “comprendere” (e dunque “raccontare”) la fondamentale inconsistenza del proprio trauma. Il fatale ritaglio di giornale su cui scopre che la sua in realtà è una falsa perdita, Massimo lo incontra proprio nel punto appena precedente la parte finale, quello che nei film viene tipicamente riservato alle risoluzioni decisive. Peccato però che questa rivelazione non cambi nulla, e che la quieta disperazione del film prosegua assolutamente imperturbata fino ai titoli di coda. E mentre avviene, non assistiamo a nulla che ricordi anche vagamente il rilascio di pathos che in genere accompagna questi “colpi di scena”: tutto risulta immerso in un'afasica e attonita catatonia. 

 

Una bizzarra struttura narrativa, non c'è che dire. Soprattutto alla luce dell'ultima scena, che ci riporta con un imprevedibile flashback ai giorni dell'idillio infantile: giocando a nascondino con la madre, il piccolo Massimo si nasconde, fin troppo efficacemente, dentro a uno scatolone. Fine. Mossa enigmatica, che però finalmente chiarisce il modo giusto di guardare Fai bei sogni. Considerarlo soprattutto un racconto (dimensione di cui il film attesta il discredito) sarebbe un controsenso. Per strano che possa sembrare, Fai bei sogni è invece, sostanzialmente, uno zoom in avanti. Parte da un'atmosfera, ovvero dalla depressione collettiva di questi anni, depressione che oltre che materiale è indubbiamente anche morale e spirituale. Si avvicina ad essa sempre di più, quasi fino a metterla sotto la lente di un microscopio, e scopre che ogni istante che compone questa triste non-vita è in realtà una scelta del soggetto, la scelta di ogni momento di ritrarsi, e di rinunciare alla vita per tenere in vita il fantasma di un'illusoria, inesistente pienezza originaria. Nei primissimi minuti, lo spettatore, testimone di un perfetto idillio domestico madre-figlio, viene risucchiato nell'illusione di questa pienezza, ma solo affinché il resto del film la destituisca di fondamento. Né per il protagonista né per lo spettatore si tratta di “comprendere” questa dinamica, ma di sbattere la faccia contro la libera scelta, tanto deliberata quanto segreta e inconfessata, che operiamo senza rendercene conto in ogni momento in cui ci rifugiamo in questa vita grama perennemente schermata dalle mediazioni.

 

Lo stesso Massimo infatti non ha alcun bisogno di rendersi conto di quanto inconsistente sia il suo trauma (perché nulla, in fondo, è stato perso) per serbare, di questa inconsistenza, un'intima familiarità. Giovane redattore de La Stampa, messo davanti alla richiesta di rispondere a un lettore aspirante matricida egli scribacchia in pochi minuti una vuota articolessa su quanto sia preziosa la mamma – testo che lui stesso confermerà essere composto allo 0% di sentimento, e al 100% di retorica. La sua risposta, tutta di superficie, riceve un'accoglienza trionfale, e Massimo viene travolto dal successo professionale suo malgrado. È importante che Bellocchio sottolinei come non ci sia la minima malafede personale in tutto questo: il punto è, piuttosto, che l'immaginario “malato” del nostro paese consista in questa superficie liscia investita di valore proprio perché separata da una materia che ci piace immaginare bruciante solo perché, appunto, separata. 

 

È la stessa dinamica che informa il famigerato “politicamente corretto”. I conflitti sono confinati altrove, fuori dal radar, e non è loro minimamente concesso di intaccare la superficie liscia della rappresentazione. Parafrasando il titolo di un vecchio film di Bellocchio, potremmo concludere avanzando l'ipotesi che non ci vorrà un genio del male per sbattere, ogni giorno, un Buongiorno in prima pagina, ma ciò non rende la cosa meno mostruosa.

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