Jean-Marie Straub: il cinema tra mito e storia

22 Novembre 2022

Chi si imbatte per la prima volta nei film di Jean-Marie Straub (quasi sempre girati e montati insieme alla compagna Danièle Huillet, morta nel 2006 e a tutti gli effetti coautrice), magari ignorandone il contesto, rimane spesso un po’ interdetto da queste immagini estremamente essenziali, orlate da rari ma chirurgici tagli di montaggio, dove figure umane inquadrate con certosina cura compositiva (senza mai voler assomigliare a quadri, ma sempre in tensione organica con lo spazio fuori dall’inquadratura), volta soprattutto ad inserirle in modo visivamente coerente nell’ambiente circostante, declamano con dizione studiatissima testi scrittissimi. Non pochi, in queste immagini così rigorose, di cinematografico vedono poco o nulla.

È vero il contrario. Pochi, come Straub, hanno saputo onorare quella che è stata sovente identificata come la caratteristica fondamentale del medium cinematografico: l’oggettività. “Oggettività” non vuol dire “realismo”. Non vuol dire “riprodurre le apparenze del reale”. “Oggettività” vuol dire “cancellare le tracce di soggettività nell’oggetto”. Cosa che riesce particolarmente bene alla cinepresa, macchina che dipinge in movimento grazie a un movimento illusorio creato da un automatismo di proiezione (i famosi 24 fotogrammi fissi al secondo). Molte delle cose migliori mai viste al cinema dipendono dall’aver saputo assecondare la sua innata oggettività, in moltissimi modi diversi. Lo ha fatto a lungo, ad esempio, il cinema classico americano (le cui punte Straub conosceva bene, John Ford su tutti): tutt’altro che realista, la sua impersonalità veniva dall’aver portato nel ventesimo secolo il narratore onnisciente dei grandi romanzieri ottocenteschi.

Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (fonte: MUBI France)

 

Straub era nato nel 1933 a Metz, in quell’Alsazia contesa tra Francia e Germania soprattutto nei decenni successivi a quelli in cui romanticismo e idealismo filosofico di là dal Reno, e ciclici slanci rivoluzionari di qua, avevano gettato le basi di una nuova, utopica idea di comunità. È lì che guarda l’oggettività straubiana: quella che cancella, nell’oggetto, quelle tracce di soggettività che non si lasciano prendere nella coimplicazione con l’oggetto. La sua oggettività è il circuito idealista soggetto-oggetto portato alle estreme conseguenze: in altre parole, il materialismo marxista, per il quale il soggetto, da un lato è coimplicato nell’oggetto attraverso il lavoro, e dall’altro (e questo è il punto decisivo) non è da confondersi con l’individuo

Il suo stesso cinema, in misura quasi esclusiva e a cominciare da Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano (1968, film sulla coppia tra i più belli mai fatti), non è il cinema di Straub: è il cinema di Straub-Huillet. E nella prima delle sue non poche autobiografie mascherate, Cézanne (1990), Straub racconterà il suo cinema attraverso il pittore francese, capace di osservare per anni la stessa montagna per riuscire a vederla per davvero, per quella che è, senza le incrostazioni soggettive che si accumulano nei nostri occhi e nel nostro cervello. In voce over, come nel successivo Une visite au Louvre (2004), vengono letti dialoghi tra Cézanne e Joachim Gasquet, vere e proprie dichiarazioni di poetica: come lo stesso Straub, il pittore è romantico perché unisce l’arte alla critica d’arte, non in quanto individuo di genio. Il montaggio spazializza l’individuo Cézanne, rendendolo inseparabile da una rete di riferimenti che include non solo i luoghi della sua arte, ma soprattutto altri pionieri dell’oggettività, romanzesca (Flaubert) e cinematografica (Jean Renoir che filma Madame Bovary). 

Il soggetto si afferma non come individuo, ma annullandosi nell’oggetto e come oggetto; solo dispiegando le potenzialità autonome dell’oggetto, l’uomo può piegarle ai propri bisogni, scoprendo questi in quelle. Visione marxiana che non arriva dall’idealismo filosofico senza passare dall’amatissimo Hölderlin: nel suo La morte di Empedocle (portato sullo schermo nel 1987), al filosofo presocratico che predica invano una rivoluzione tanto politica quanto epistemologica (riconoscere uguaglianza ontologica a tutto ciò che esiste) non resta, come tentativo estremo di fusione con il divino coincidente con la natura, che gettarsi nell’Etna.

Ma è una visione che già si protende verso Bertolt Brecht, nemico giurato dello spettatore come individuo anziché come soggetto (ovvero come istanza cosciente che partecipa della analitica dissezione della società e dei suoi rapporti rappresentati sul palcoscenico, e agisce di conseguenza fuori dalla sala). L’individualità, coi suoi piccoli sentimenti e le sue piccole identificazioni immaginarie, è un cascame borghese; per emozionarsi e confermare la bontà dell’esistente in cui sguazza ha bisogno della verosimiglianza, del rivedere sulla scena la superficie della vita di tutti i giorni.

Ma verosimiglianza non è verità: appena guardiamo la realtà con il microscopio dell’oggettività, la realtà ci appare irreale. I film di Straub non ci appaiono mai “come la vita”, non solo perché rifiutano le convenzioni con cui i film “normali” cercano di assomigliare alla vita, ma perché spingono all’estremo l’oggettività del mezzo cinematografico: luci, obbiettivi, sonoro, sono maniacalmente improntati a ricreare gli automatismi attraverso cui i nostri sensi approcciano la realtà materiale. Il risultato, più vero del vero nella nitidezza di ogni filo d’erba in una foresta o di ogni ruga su un volto, è un invito ad abbracciare una modalità ricettiva verso il mondo e verso la ricchezza della sua materialità.

Ma attenzione: “ricettiva” non vuol dire “passiva”, perché non può esserci senza una mobilitazione attiva dei nostri sensi e della nostra coscienza, l’una e gli altri a tutti gli effetti parti integranti del mondo materiale. Non vuol dire nemmeno “distanziamento”, come vuole una vulgata brechtiana da cui Straub non si è mai stancato di distanziarsi: nelle interviste lo ha ripetuto di frequente, i suoi film sono fatti affinché il pubblico ne venga coinvolto emotivamente, senza quella distanza fredda troppo spesso suggerita da un’errata interpretazione del drammaturgo tedesco.

Di lui, Straub adattò Corneille-Brecht (2009), Antigone (1992) e Lezioni di Storia, in cui i tempi di Giulio Cesare rivivono direttamente nelle strade della Roma del 1972. La compresenza tra passato e presente, Mito e Storia, è un elemento forte del cinema straubiano: ad esempio in Dalla nube alla resistenza (1979), tratto da La luna e i falò e dai Dialoghi con Leucò, in Quei loro incontri (2006), dal secondo, e negli altri tratti da Cesare Pavese. Ieri come oggi, anzi adesso, sono solo forme differenti di un medesimo fronteggiarsi tra uomini e Dei: gli uomini a confronto col loro limite fuori di sé; sempre la stessa lotta per l’emancipazione dell’uomo attraverso la comunità, che è anche inseparabilmente lotta per affermare l’articolazione tra le componenti del mondo materiale su un piano egualitario, articolazione che l’uomo trova e inventa al tempo stesso. Anche quando le utopie comunitarie (la comune agraria di Operai, contadini, 2001, da Elio Vittorini) vengono represse da un capitalismo che sembra non conoscere avversari (Umiliati, 2003), la lotta amorosa tra forma e materia si ripropone in ogni istante presente.

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Christine Lang in “Cronaca di Anna Magdalena Bach”, 1968.

Intonazioni eccessivamente filosofiche, tuttavia, sarebbero fuori luogo. Romanticismo e idealismo tedesco (e quindi marxismo) vengono, in fondo, da Johann Sebastian Bach (oggetto della Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1968), il quale a propria volta (è una delle cose che Straub amava ripetere) è il frutto di secoli di civiltà contadina. Il celeste, geometrico artigianato del compositore si comprende solo alla luce del paziente lavorio della terra: la materia si lascia scolpire solo ascoltandola. Come del resto la lingua dell’uomo, che hölderlinianamente non appartiene all’uomo ma alla terra, che con essa chiede di essere abitata attraverso il formarsi di una comunità che vi si stringa intorno. Come le opere teatrali e letterarie messe sullo schermo, la parola e la voce non sono veicoli per esprimere ciò che un individuo ha astrattamente nella testa: sono invece, a tutti gli effetti, pezzi di mondo, con una loro stratificazione e un loro ventaglio di potenzialità, da disvelare articolando ogni parola, ogni frase, ogni respiro, ogni pausa, in senso musicale e scultoreo a un tempo.

Ogni gesto (raro ma incisivo, in attori spesso immobili), ogni elemento ambientale, così come ogni inquadratura e ogni sequenza è un blocco, ognuno composto al proprio interno di altri blocchi, ognuno con un’autonomia che ne fa una totalità a sé stante, che non si compenetra con le altre ma si combina con loro senza che la scultorea indipendenza di ognuna venga meno anche quando, insieme, la loro alternanza ritmica forma un’armonia plastico-musicale che si dischiude a chiunque sappia ascoltare anche con gli occhi, non solo con le orecchie. Così, il montaggio non fonde mai le inquadrature in una continuità, ma in un combinarsi di blocchi la cui fluidità, musicalmente, dipende strettamente dalle interruzioni che li separano.

Negli anni Sessanta in cui emersero quelle nouvelles vagues con cui, così si dice (alquanto imprecisamente), nacque un cinema più soggettivo, Straub, sensibile all’antica tensione tra cultura tedesca e spinta francese all’autodeterminazione rivoluzionaria, si votò all’oggettività. E ai Cahiers du Cinéma a cui lui stesso fu inizialmente legato, e che furono la culla delle nouvelles vagues, scrisse una lettera il compositore Karlheinz Stockhausen, per elogiare la precisione e l’efficacia del ritmo di Machorka-Muff (1962), esordio straubiano (da Heinrich Böll) sulle continuità tra Germania postbellica e nazismo. La strada dell’oggettività si percorre solo a caro prezzo, con il soggetto e contro l’individuo, dunque anche contro se stessi.

Esserle fedeli significa non cedere ai compromessi, accettare l’esilio (fu bandito dalla Francia per avere rifiutato di arruolarsi nella guerra di Algeria), e la marginalità: ad eccezione di quando la televisione (con cui collaborò con una certa frequenza) fu particolarmente munifica (Mosé e Aronne, 1975), lavorò sempre a budget ridottissimo per poter esercitare il massimo controllo sui propri materiali, ed è leggendaria la sua cura per ogni inquadratura come l’estenuante labor limae sulla recitazione. 

La sua radicalità ha tanto da insegnarci anche oggi. Ad esempio che le infinite, sterili lotte per il potere in ambiente corporate su cui si incentra, allegoricamente o meno, la stragrande maggioranza della narrativa targata Netflix, era roba già vecchia nel diciassettesimo secolo di Pierre Corneille (Othon, 1970): facciamo torto alla nostra natura di uomini (e cioè di una delle cose del mondo) se ci perdiamo in narcisisti arrivismi anziché aprirci verso il mondo, guardandolo con oggettività affinché la sua materialità, la sua stratificazione e dunque le possibilità di trasformazione virtuosa in cui siamo coimplicati si dischiudano. Ma anche che essere veri Kommunisten (2013, altra autobiografia mascherata) è un conto; tutt’altro è indulgere nei settarismi di sinistra come in quelli di destra per compiacerci dei nostri sterili narcisismi identitari. Straub non ha esitato a ricorrere ad opere di scrittori apertamente reazionari, come Maurice Barrès in Lothringen! (1994) o Georges Bernanos in Dialoghi d’ombre (2013) e in quel La Francia contro i robot (2020) che, in piena pandemia, ci ha ricordato che il nemico dell’uomo, oggi, è la tecnocrazia. “Un mondo vinto per la tecnica è perso per la libertà”. 

L’immagine di copertina è tratta dal video di Armando Ceste Jean-Marie Straub. Lezione di cinema (1998).

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