Raccontare i briganti

23 Giugno 2022

Il 14 settembre del 1762 il “Foglio Ordinario” di Napoli – la gazzetta autorizzata dalla monarchia borbonica – annunciò la pubblicazione nella capitale del Regno di un agile volumetto intitolato “Storia di Luigi Mandrino contrabbandiere di Francia”. Il testo composto da Joseph Terrier de Cléron riguardava un famoso malvivente condannato a morte a Valenza nel 1755, all’età di circa 30 anni. La traduzione italiana era attribuita al romanziere Pietro Chiari, ed era già apparsa a Venezia qualche tempo prima. La nuova versione napoletana era tuttavia corredata da un più ampio “Avviso” preliminare, dove si affrontavano molti problemi legati alla fruizione di testi del genere, non incentrati su storie di “Eroi”, bensì sulle peripezie “di Fuoriusciti, e di Ladri”, che spesso disorientavano il pubblico e lo inducevano a cadere in pesanti fraintendimenti. Bisognava quindi chiarire lo scopo fondamentale dell’intera operazione editoriale: “istruire” i lettori, mostrando loro la rigidità delle pene riservate ai delinquenti. 

Le vicende di Louis Mandrin (questo il nome del contrabbandiere nella versione originale) erano del resto conosciute in tutta Europa, anche grazie ai giornali che le avevano raccontate con puntualità, prestando attenzione più ai particolari divertenti che a quelli educativi. Non a caso, i “Masnadieri” come lui godevano di grande popolarità, rendendo sempre più diffuso il desiderio di seguire i loro “esempi”. Nello specifico, lo stesso Mandrin aveva risposto a sollecitazioni che gli erano arrivate dai mezzi di comunicazione, traendo ispirazione dal fuorilegge Louis Dominique Garthausen, anch’egli francese, meglio conosciuto come Cartouche (1693–1721). Era quindi ancor più necessario per l’editore napoletano chiarire che la cronaca criminale data alle stampe nel 1762 aveva un forte intento pedagogico: sia Mandrin che Cartouche erano stati condannati a morte e di certo non era conveniente cedere alla tentazione di seguire le loro orme: “Gli incendiatori, i fuoriusciti, e gli assassini hanno ordinariamente per loro fine un capestro. Né s’è veduto mai un malvagio che impunemente trionfasse a lungo de’ propri misfatti”.   

La dichiarazione di intenti contenuta nell’introduzione era dunque netta, ma il resto dell’opera non rispettava queste rigide coordinate morali. Il profilo del contrabbandiere era perturbante, capace di colpire l’immaginazione e di stimolare le fantasie del pubblico. Le sue peripezie erano narrate anche in modo buffo, con toni scherzosi, evidentemente finalizzati a suscitare risate come in una commedia. Solo nella parte finale il registro tornava a essere serio, grazie a una cupa descrizione degli ultimi momenti di vita di Mandrino. L’autore cercava infatti di trarre insegnamenti universali dalla trama, spiegando che i condannati a morte erano soliti pronunciare dei discorsi prima dell’esecuzione pubblica: “Il costume de’ delinquenti pare che da loro esiga di ragionare al Popolo spettatore, di cui sono essi lo spettacolo, e forse ancora l’esempio”. Morivano da “Oratori”, facendo uno sforzo estremo di “Cristiana eloquenza” per soddisfare il “Volgo”. E così fece Mandrino, ripetendo con gli “occhi torbidi” rivolti al cielo: “Vissi un ribaldo, e muojo un infame. Mi lordai le mani di tanto sangue innocente; e giusto è al presente che del mio si lordi un carnefice. […] Voi testimoni di vista della mia morte non imitate l’esempio mio, se non volete ancora imitarne la fine”. Con queste parole, il contrabbandiere si congedò dal suo pubblico, ringraziò il confessore e invocò Dio, “vendicatore inappellabile delle sue iniquità”. 

L’attività editoriale stimolata da figure come Mandrin permette di affrontare alcuni nodi critici e di riflettere sulle costruzioni politiche e culturali legate ai racconti criminali. Lo ha fatto di recente lo storico Giulio Tatasciore, in un corposo volume intitolato Briganti d’Italia. Storia di un immaginario romantico (Viella, 2022), sviluppando un’analisi che parte proprio dalla metà del Settecento per inoltrarsi poi nel cuore dell’età contemporanea. L’oggetto dell’indagine è “un sistema di rappresentazioni multiforme e dinamico”, nutrito “da narrazioni e stereotipi, ma anche dalle pratiche di consumo culturale, da quelle di viaggio, da quelle della repressione”. Nella tipizzazione del brigante italiano si incontrano fonti molteplici, difficili da catalogare e analizzare in maniera omogenea, ma accomunate dal loro stesso addensarsi intorno al tema della disobbedienza ai poteri costituiti: articoli giornalistici, libelli d’occasione, opere teatrali, iconografie, trattati, diari di viaggio. La mediatizzazione delle avventure dei malviventi, infatti, viveva di rapporti osmotici con le realtà sociali, stimolava rituali di interazione, si alimentava negli immaginari esistenti o contribuiva a trasformarli. Rispondeva di volta in volta agli impulsi delle imprese culturali, dei governi, delle istituzioni ecclesiastiche, o di più ristretti gruppi di potere. 

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Per identificare il “registro romantico”, bisogna tuttavia inoltrarsi in una genealogia stratificata, talvolta persino contorta. Giulio Tatasciore esplora questo territorio magmatico scegliendo come punto di partenza I masnadieri, il dramma in 5 atti di Friedrich Schiller rappresentato per la prima volta nel 1782. Raccogliendo e rielaborando molte suggestioni preesistenti, questo testo diede forma concreta ai timori (più formali che effettivi, in verità) che gli editori napoletani avevano espresso nel dare alle stampe la Storia di Mandrino, facendo cadere qualsiasi cautela preventiva: i briganti acquisirono i contorni virtuosi dei combattenti impegnati a conquistare la libertà contro l’arbitrio del dispotismo. Il successo di Schiller favorì lo sviluppo di un filone letterario, che fu rafforzato dall’esplosione di una vera e propria “banditti mania”. Il pubblico europeo si mostrò sempre più entusiasta di fronte a racconti di assassini, orchi, mostri, ma anche di ladri virtuosi, disposti a usare le loro abilità per riparare le ingiustizie perpetrate da un potere iniquo. Si delineò nello stesso periodo anche il paradigma della “classe criminale”, destinato a trasformarsi in un luogo comune: l’idea che esistesse un gruppo sociale dotato di tradizioni, codici culturali e linguaggi autonomi, tendente a radunarsi in rifugi o covi protetti, caratterizzato da un particolare modo di vestire (ben noto è il cappello a punta reso celebre da diversi ritrattisti, che campeggia anche nella copertina di Briganti d’Italia), e capace persino di sviluppare peculiari modelli organizzativi, spesso declinati in senso settario.

In buona sostanza, il brigante diventò una presenza costante nel conflitto sociale e culturale, grazie a una natura metamorfica che gli permetteva di oscillare di volta in volta dal legittimismo conservatore alle pulsioni rivoluzionarie. Rimane tuttavia difficile poter misurare la portata del fenomeno, sfuggendo a tentazioni impressionistiche che spesso possono derivare anche dall’ossequio inconsapevole a gerarchie estetico-morali precostituite. Chi intende affrontare un tema del genere deve quindi confrontarsi con fonti variegate e muoversi su territori di confine, dove si incontrano diversi linguaggi e visioni del mondo.

Un ancoraggio sicuro è l’analisi del rapporto fra la giustizia e l’opinione pubblica. Nel corso dell’antico regime, infatti, i racconti dei grandi processi erano in prevalenza finalizzati a celebrare l’efficienza dei sistemi repressivi. Attraverso la teatralizzazione delle condanne, i poteri costituiti cercavano di far arrivare i loro messaggi edificanti al pubblico: le punizioni inflitte ai criminali segnavano il trionfo dell’autorità e il ripristino dell’ordine. Questo meccanismo si incrinò proprio nel Settecento, in virtù del mutamento dei contesti socio-culturali. Non era più solo la sentenza finale a essere oggetto di messa in scena, ma l’intero iter legale, con le sue controversie e i suoi dubbi, con tesi contrapposte che dividevano il pubblico in due o più fazioni, con diatribe fra innocentisti e colpevolisti, con personaggi che diventavano veri e propri eroi, talvolta incarnando diverse visioni del mondo. 

Lo stesso operato dello Stato intorno al crimine cominciò a essere messo in discussione, sospeso sul confine labile che separava la colpa dall’innocenza. La giustizia fu proiettata in un’inedita dimensione partecipativa, che stimolò la diffusione di una pletora di “oggetti narrativi” sospesi fra la cronaca e la finzione, nascosti dietro l’anonimato, difficilmente collocabili all’interno di generi letterari formalizzati, talvolta ispirati dalla ricerca di profitto di editori e autori. Quel che conta è la capacità di questi testi di raggiungere diverse fasce sociali, oltrepassando le barriere del censo e dell’analfabetismo, e creando una piattaforma di interazione sulla quale fondare nuove idee condivise e nuovi modelli comportamentali. Intorno agli imputati si sviluppavano sentimenti di compassione o solidarietà, che favorivano nuove elaborazioni teoriche sui comportamenti umani, mettevano in discussione precetti morali largamente accettati, promuovevano spostamenti dei punti di vista, o ispiravano lo sviluppo di inedite forme di interazione intorno ai nodi irrisolti della politica, dell’economia, della cultura e della morale.  

Nella storiografia degli ultimi decenni, l’analisi dei flussi comunicativi, delle forme espressive e delle reazioni del pubblico ha giocato un ruolo importante, tanto da spingerci a intravedere nel Settecento la progressiva affermazione di una “cultura giuridica popolare”, che attraversava in maniera efficace diversi settori della società (come hanno chiarito, ad esempio, gli autori dei contributi contenuti in “Criminal Justice during the Long Eighteenth Century. Theatre, Representation, Emotion”, a cura di David Lemmings e Allison May, Routledge, 2018). I processi celebrati contro i criminali celebri – come Mandrin, Cartouche, e altri – erano circondati da rumore e disordine. I giudici erano disposti a cambiare le loro decisioni per non scuotere i sentimenti delle folle, o per evitare rivolte. E tanti gazzettieri, cronisti, romanzieri, poeti e commediografi erano smaniosi di raccontare quello che accadeva fra prigioni, piazze e tribunali. 

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