Incontro a Berlino / Wolfgang Schivelbusch: Trump, Merkel e l'Italia provinciale

1 Aprile 2018

Lo scorso anno nel mese di marzo sono andato a Berlino per incontrare Wolfgang Schivelbusch, uno dei più affascinanti studiosi dell’immaginario sociale moderno. L’appuntamento era al Zentrum für Literaturforschung. Una piccola stanza che s’affaccia in un cortile interno, qui studia e scrive Schivelbusch. Lo studioso tedesco ha scritto libri straordinari come Storia dei viaggi in ferrovia (1977), dedicato cambiamento percettivo prodotto da questo mezzo di trasporto; poi Storia dei generi voluttuari (1980), dedicato a spezie, caffè, cioccolata, tabacco, alcool e al loro influsso in Europa; Luce. Storia dell’illuminazione artificiale nel secolo XIX (1983), sull’irrompere della luce nelle case e nelle strade, libro che contiene una breve e affascinante storia della vetrina. Già questi tre libri basterebbero a fare di lui un Walter Benjamin dei nostri giorni.

 

Poi ci sono opere come La cultura dei vinti (il Mulino 2001), che spazia dalla sconfitta dei Sudisti nella Guerra civile americana a quella della Germania nel 1917, oppure un volume intitolato Die Bibliotheck von Löwen (1988), non ancora tradotto nella nostra lingua, dove spiega perché i tedeschi distrussero nelle due guerre mondiali la biblioteca di Lovanio. Schivelbusch ha l’aspetto di un intellettuale tedesco del XX secolo: alto, bei capelli grigi, occhialini rotondi. Nato nel 1941, ha studiato in Germania con Peter Szondi e Hans Mayer, due grandi intellettuali della seconda metà del XX secolo, ed ha avuto come maestro Norbert Elias, lo studioso delle “buone maniere”, un vero innovatore concettuale. Le università tedesche non hanno accolto Schivelbusch nelle loro aule e neppure finanziato negli studi. Perciò è andato a New York, dove è infatti tradotto; i suoi libri hanno influenzato più il mondo anglosassone che quello tedesco.

 

La sua idea è che le scoperte tecniche influenzano profondamente il nostro immaginario sociale. Ha pubblicato da poco in Germania Das verzehrende Leben der Ding (Carl Hanser), un libro dedicato alla relazione tra l’uomo e le cose. Appena mi siedo di fronte a lui mi porge un foglio. Una frase dal "Manifesto tecnico della pittura futurista": “i nostri corpi entrano nei divani su cui sediamo e i divani entrano in noi”. Sorprendente. Come mai ha scritto un libro sui vinti, domando, ha qualcosa a che fare con il momento che stiamo vivendo? “Quando nel 1989 è caduto il Muro mi sono reso conto che bisognava evitare il trionfalismo. In Usa come in Germania c’era molta reticenza. La Germania Ovest era dalla parte dei vincitori della guerra, mentre i tedeschi della DDR erano i vinti. Ho scoperto molti tratti psicologici comuni tra i Sudisti americani e loro. Il risentimento dei tedeschi orientali derivava da una loro convinzione di superiorità morale, proprio come i Sudisti che avevano perso la Guerra civile americana. L’avevano scatenata partendo dal risentimento verso il Nord gretto e materialista. Oggi i cosiddetti vinti della modernizzazione, gli operai, i contadini, gli esclusi, hanno votato Trump; si sono identificati con un miliardario”.

 

 

Schivelbusch ha vissuto in Italia, in Umbria, dove ha posseduto sino a qualche tempo fa una casa. “L’Italia è un paese pionieristico, un laboratorio. Mussolini ha anticipato Hitler e Berlusconi Trump. Non sappiamo ancora chi anticipa Grillo”. Nel suo libro 3 New Deal (il Saggiatore) lei ha stabilito dei parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler tra il 1933 e il 1939, perché? “Hitler ammirava e imitava Roosevelt. C’è anche un parallelo molto forte tra Roosevelt e Trump. Il discorso inaugurale del neopresidente americano è dello stesso livello di quello di Roosevelt. Ha parlato del 'popolo' e della 'nazione', come il suo antecedente, che da parte sua aveva spianato il parlamento americano, anche se oggi nessuno se ne ricorda più. Roosevelt parlava di un paese, l’America, occupato da un’armata straniera: l’economia, che è contro di noi, diceva. Non era da meno di Hitler nel gestire il rapporto diretto con le masse”. Trump somiglia a Hitler? “Ha tre cose in comune con il capo nazista: personalizza i suoi nemici, come ha fatto con la Clinton, usa una retorica simile, e parla della sofferenza del popolo. Penso che Trump, come prodotto della scuola elementare americana, abbia assimilato molto materiale democratico degli Stati Uniti. Inoltre, dice una cosa, e poi due giorni dopo, senza nessuna difficoltà, si smentisce, torna indietro. Non è detto che riesca a concludere il mandato: o getta la spugna o ci sarà un impeachment”.

 

E la democrazia che fine farà? “Studiando i tre regimi politici, mi sono reso conto che esiste un totalitarismo diverso da quello classico, il totalitarismo democratico. Tuttavia sono ottimista. Come aveva capito Tocqueville, la democrazia in America non esiste come un ideale, bensì come una realtà: è un fatto pratico. Il fascismo non può vincere con la democrazia, se c’è davvero. In Europa la democrazia è invece un animale piccolo, non evoca un vero interesse tra le masse, è un ideale per gli intellettuali, a partire dai rivoluzionari francesi. Sarà sempre difesa da una minoranza”. Questi capi come Trump sono dei leader carismatici? “Il leader carismatico è un uomo che si pone al di sopra della politica di parte, qualora provenga sia dall’anonimato delle masse, sia dalle classi dominanti, uscendo attraverso una rottura. Hitler, un soldato semplice, e Roosevelt, un patrizio, erano degli outsider; entrambi hanno usato la radio per il loro consenso. Leader simili si affermano in situazioni di crisi, quando la rappresentanza politica non funziona più. In termini sociologici è il legame diretto e plebiscitario tra il leader e il suo popolo; psicologicamente è la convergenza tra le masse e il leader nella comune lotta contro il vecchio sistema”. E la Germania attuale che situazione vive? “Tutto oggi qui è basato sul benessere. Non so cosa succederebbe se questo benessere venisse meno. Mi domando quali paesi in Europa rimarrebbero stabili. Siamo in una situazione simile a quella attraversata da paesi come la Francia e l’Inghilterra negli anni Trenta. Tenga conto che negli anni della Repubblica di Weimar, il motivo portante della propaganda tedesca non era l’antisemitismo, come si è soliti pensare, bensì la sofferenza del popolo. Hitler parlava di questo”.

 

La cancelliera tedesca, Angela Merkel, come le appare? “Il fenomeno-Merkel suggerisce qualcosa a una generazione come la mia, a chi pensava al genio del popolo tedesco. Si tratta di un ritorno alla Germania pre-Bismarck”. Lei è vissuto in Italia, come appare a uno storico delle idee? “L’Italia è un paese provinciale, dove le singole province hanno una grande dignità. Qualcosa del genere in Germania c’è solo in Baviera. Gli italiani nutrono uno strano sentimento d’inferiorità rispetto al resto dell’Europa. Il paese resta ancora cattolico e medievale; è un paese eterno, per noi tedeschi appare ancora oggi un paese magico”. Nella stanza di Schivelbusch nella parete di fronte alla libreria sono appese una serie di fotografie. In una i cavalli di San Marco a Venezia vengono calati a terra, per essere messi al riparo durante la Prima guerra mondiale. L’ha trovata, mi dice, tra le carte dell’architetto che ha ricostruito la biblioteca di Lovanio. Un monito per noi?         

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