Carnet geoanarchico 13 / Disabitare in Appennino

20 Aprile 2019

Amandola, poco dopo le 6 del mattino, il solarium di Villa delle Rose. I pini, i tetti, le colline al di là e oltre, imminente come una mareggiata terrestre, il Crinale appenninico. Guardo la neve a lembi, il viola e il rosa dell’alba. Mi alito sulle mani infreddolite. Qualcosa nel Priore, nella Sibilla, nel Vettore trascina le idee verso una zona arcaica (le civiltà appenniniche, le spinte orogenetiche) e, nonostante il freddo mattutino, la primavera manda segnali di foglie, di frutteti in fiore. Segnali di soccorso, però, perché non riesco a non pensare che il ghiacciaio del Gran Sasso sia stato solo il primo a scomparire, che le nevi che vedo saranno un ricordo ambientale nella mia vecchiaia, nell’altrui giovinezza, e che se anche Amandola non è collassata su sé stessa per colpa dei terremoti del 2016 e 2017, anche l’anima delle cose è fessurata qui, sbrecciata dentro. Sotto la patina di bellezza c’è il sostrato del trauma, come nel luogo che mi ospita per due notti, un gioiello liberty curatissimo, elegantemente retrò, ma solo perché l’albergo di famiglia, a una cinquantina di passi, è diventato in quaranta secondi di scossa un fantasma inagibile, irreparabile.

 

 

Faccio colazione, scendo verso il centro del paese. Via degli Orti, Salita dei Vasai, Piazza Risorgimento. Sotto il loggiato del palazzo comunale, tra i tavolini di due caffè, come grossi radiolari di compensato, si innalzano due moduli cubici di architettura temporanea. Sono due prototipi realizzati da Hiroto Kobayashi della Keio University di Tokyo e da Roberto Ruggiero dell’Università di Camerino, due architetti che lavorano assiduamente a una ricerca affascinante, utilizzare l’Hi-Tech digitale con strategie ipercomplesse per ottenere sistemi abitativi così semplificati da poter essere montati e smontati da chiunque in poco tempo. Come delle grosse scatole Ikea, ma di cui si utilizza anche l’involucro e dove tutto, come nel Lego, funziona per semplice incastro. Niente viti, niente metallo, solo legno. L’idea è tipicamente giapponese, si ispira alla pratica del montaggio, smontaggio e rimontaggio dei templi shintoisti in cedro e cipresso, e Kobayashi ne è la star indiscussa, anche perché il suo impegno di architetto nei luoghi di tsunami e terremoti è un connubio irresistibile di etica e marketing. Qui ad Amandola, ad esempio, ha portato due box di componenti di compensato che in poche ore i suoi studenti meticolosi e obbedienti hanno assemblato in una sorta di stand museale itinerante.

 

 

Ruggiero e gli studenti italiani, invece, hanno realizzato con tecniche costruttive analoghe una stupenda biblioteca temporanea che si lascia abitare molto meglio rispetto al modulo giapponese. Lo dimostra la gente del posto che, senza troppa timidezza, ha cominciato a rioccupare lo spazio, scegliendo di sedersi nella biblioteca mentre si è come sentita respinta dall’omologo museale a due passi da lì. Infatti Ruggiero, con un pragmatismo utopico tipicamente partenopeo, pensa a questi esperimenti costruttivi come a primi passi per progettare case, e per questo sembra aver intercettato perfettamente quel principio che in ambito anglosassone oppone due termini complementari, house e home, la struttura abitativa e l’abitare domestico, l’architettura come tecnica e la prassi quotidiana come appropriazione emozionale e identitaria dello spazio. Non si può costruire un’abitazione senza pensare all’abitare, ma questo, purtroppo, è pratica ordinaria, con prezzi psicologici e sociali difficili da misurare appieno. A due chilometri da lì ho infatti potuto visitare un altro tipo di architettura modulare, quello fornito ai terremotati dalla protezione civile, una specie macrocontainer dove si dorme e si defeca in privato e dove si guarda la TV in comune, ma dove non è consentito cucinare. Cucinare. Quella cosa che ominidi e umani fanno da 2 milioni di anni e che è il più importante agglutinante sociale della nostra specie.

 

La mattinata ad Amandola la trascorriamo al chiuso, ascoltando relazioni, guardando powerpoint, prendendo appunti. A metà giornata è il turno di Lorena Alessio che assieme a Kobayashi ha progettato e realizzato una struttura in compensato autoportante per la località terremotata di Accumoli. Doveva essere un centro aggregativo. Doveva, perché lo spazio è stato chiuso. La Alessio, discretamente, non spiega perché, ma appena fuori vengo a sapere che qualcuno del posto voleva farci un ristorante privato e allora si fa come i bambini no? non posso farlo? benissimo, con questa cosa non ci gioca più nessuno… Lo racconto non per fare il solito italian gossip, ma perché l’episodio ci porta al cuore di una rete di problemi. Che cosa significa abitare? Siamo sicuri che a parte i soliti casi di corruzione, infiltrazioni mafiose, sgambetti politici, la casa non sia già di per sé una realtà ambigua? Non potrebbe essere anche uno strumento di conformismo, di dipendenza, di controllo? Le popolazioni che hanno subito il sisma hanno imparato sulla propria pelle che cosa significa lo stato di eccezione, la stretta autoritaria, il ricatto sociale, la biopolitica. E questa esperienza, neanche a dirlo, è passata soprattutto attraverso le case. Quelle che non potevi più visitare, sgomberare, aggiustare. Quelle che non puoi autocostruirti. Quelle che ti danno dall’alto, ma che se ci sono dei problemi di decoro e di salubrità importanti devi startene zitto, per non perdere un contributo anche solo promesso, per non sembrare ingrato. 

 

 

L’utopia del worshop e del convegno di Amandola ha a che fare anche con questo, e può riassumersi in una frase-guida: abitare di meno, cioè abitare più leggeri, più temporanei, più liberi. Ne parlavamo con Ruggiero. Il verbo “disabitare” è una parola bifronte, evoca l’abbandono (ad esempio quello di interi paesi diventati inagibili dopo il terremoto) ma può additare anche un’occasione, quella di ripensare l’abitare in forme alternative rispetto allo standard culturale, economico, politico. Al convegno si sono sentite le voci di AutoRicostruzione nel cratere, di Terre Alt(r)e, di EcCOItaly, e questo è appunto servito a far capire che sono molte le persone che pensano che la ricostruzione sia antropologica ancor prima che architettonica. Probabilmente il modello giapponese di Kobayashi sta a quello appenninico tradizionale come l’origami sta al muro di pietra, ma è solo la circolazione di idee e l’ascolto delle persone che vivono sul posto che può portare a una sintesi creativa, non la dilatazione dell’emergenza, l’ingegneria sociale del campo profughi o la politica di polizia. 

 

Il giorno prima del convegno ero ad Ascoli. Nel Palazzo dei Capitani inaugurava una ricca antologica di Tullio Pericoli, Forme del paesaggio 1970-2018, 165 opere luminose, molte delle quali meriterebbero uno sforzo di scrittura a parte. Erano in ogni caso i paesaggi appenninici che avevo visto dal treno venendo da San Benedetto del Tronto, quelli attorno ad Ascoli, e quelli su cui guarda Amandola. In una perfetta indecisione tra segno cartografico e veduta aerea, tra mappa delle forme e forme della mappa, i paesaggi di Pericoli mi hanno sempre fatto pensare a una terra che si sbuccia e s’incurva verso l’osservatore. Questa verticalizzazione dell’orizzonte crea un disequilibrio, perché da un lato ti senti al riparo con gli occhi, come un uccello o un pilota, ma al tempo stesso il terreno sotto le scarpe viene a mancarti e la vertigine raddoppia. Insomma, è come provare a stare in piedi su una parete. Per quanto mai alieni, cioè, per quanto dipinti con colori amici, i paesaggi di Pericoli non sono fatti per essere abitati come siamo abituati a fare, ci accolgono di passaggio, in modo temporaneo, ci danno anche loro una lezione fondamentale sul disabitare: esistono luoghi-per-sempre ed esistono fast places, nei primi la nostra mente prova a fermarsi, nei secondi si ricorda che è impossibile.

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