Spettri vegetali di Amitav Ghosh
Proviamo a immaginare un’entità non umana che nel corso di secoli o millenni accompagna la nostra specie in modo apparentemente ordinario e che in realtà determina vicende distruttive per individui e nazioni. La sua presenza è così ovvia e famigliare da sembrare una cosa tra le tante, fa così parte del paesaggio quotidiano da diventare invisibile. Eppure, nasconde storie così segrete e torbide che se fossero rivelate ci farebbero cambiare idea sulla sua natura e sul suo ruolo nei conflitti tra i popoli. Non un’entità passiva, inanimata, ma un essere dotato di agentività, una specie di genio scappato dalla lampada che si lascia usare per sopravvivere e che sopravvivendo, a volte, precipita gli umani in un pozzo di rapacità e abiezione. Questa entità è una pianta. Non ha più nulla di selvatico. Segue in simbiosi le nostre orme per propagarsi. Ci regala qualcosa ma solo per opportunismo. Ci accontenta ma, in maniera diretta o indiretta, ci può danneggiare e addirittura uccidere. Nella storia umana ha preso varie forme che i botanici hanno chiamato Coffea arabica, Nicotiana tabacum, Myristica fragrans, Camellia sinensis, Erythroxylum coca, Cannabis sativa, Lophophora williamsii, Madhuca longifolia, Papaver somniferum. Tutti vegetali che sorreggono economie della cura, del piacere, della trasgressione, tutte entità che raccontano storie spettrali. Così, dopo La maledizione della noce moscata (Neri Pozza 2022), Amitav Ghosh ricostruisce e narra le vicende segrete del tè e dell’oppio e di come due piante speciali abbiano generato e alimentato la follia coloniale.

Fumo e ceneri. Il viaggio di uno scrittore nelle storie nascoste dell’oppio (Einaudi, 2025) è un libro a più livelli: oltre a regalare al lettore una prosa saggistica avvincente come un romanzo, oltre a raccontare il suo autore nell’atto di fare ricerche e scrivere, si interroga e ci interroga su come rileggere la storia dei popoli includendo attori non umani nel grande arazzo narrativo. Tutto parte da un’intuizione. A un certo punto della vita, lavorando a un romanzo sull’oppio, Ghosh si è reso conto che la Cina era come stata espunta dal suo orizzonte mentale, dal suo e da quello di tutti gli Indiani, come se si trattasse di un grande rimosso collettivo, un continente-ombra celato da una cortina di “non vedo non sento non parlo”, un hic sunt leones, una lacuna nella mappa. Eppure, la Cina è lì, a un tiro di sasso dall’India, ed è onnipresente nella vita quotidiana degli Indiani attraverso cose che sembrano presenze laterali, mute, come può esserlo una tazza di porcellana piena di tè. Questo silenzio, questa mancanza di parole che sembra circondarle, ha però il potere di evocare connessioni storiche e culturali che termini come “colonialismo”, “Occidente”, “orientalismo” tanto care alla sociologia e alla geografia culturale tendono invece a mascherare. Infatti, secondo Ghosh, «non possediamo un vocabolario che ci permetta di pensare alla storia in modo da tenere conto dell’intenzionalità di entità non umane». Trattiamo animali, piante e cose come accessori inanimati, mentre la nuova antropologia e le epistemologie native ci dicono che dovremmo pensarle come “persone non-umane”, come personaggi attivi di storie infinitamente complesse.
Ghosh ne fa un problema di linguaggio, gli attori non umani non parlano, per capirli occorre fare un salto concettuale, «un salto particolarmente gravoso per quelli di noi a cui è stato insegnato a pensare al mondo in termini quasi esclusivamente linguistici», ma il problema non è solo linguistico, deriva anche dai nostri limiti culturali e immaginativi che ci impediscono di avere «quel tipo di umiltà a livello di specie a cui ci invita Kimmerer, ovvero uno sguardo capace di riconoscere che su questo pianeta vivono esseri ed entità in grado di amplificare le intenzioni umane e interferire con i rapporti fra le persone». Dopo testi della portata di Come pensano le foreste. Per un’antropologia oltre l’umano (Nottetempo, 2021) di Eduardo Kohn o i saggi di Eduardo Viveiros de Castro sulla svolta ontologica e il prospettivismo, anche Amitav Ghosh si interroga dunque su come scrittori e lettori debbano riposizionarsi rispetto alla storia del mondo. Non basta insomma uno sguardo spostato sull’alterità umana non occidentale, bisogna proprio cambiare soggettiva e considerare il “punto di vista” e l’agentività dei non umani. Così, «pensare alla materia botanica in questi termini significa riconoscere che, quando gli esseri umani interagiscono con certe piante, il rapporto non è unidirezionale; attraverso quel contatto anche le persone vengono modificate». E non solo persone, ma anche popoli, nazioni, continenti.
Fumo e ceneri indaga dunque queste «intenzionalità invisibili, spettrali», e ci spiega ad esempio come il tè, presenza irrinunciabile del paesaggio culturale inglese fin dal Settecento, rappresentasse una voce cruciale nelle economie dell’impero britannico. Non solo il monopolio della Compagnia delle Indie Orientali sull’importazione del tè garantì al paese una delle più importanti fonti di reddito, tanto da poter sostenere annualmente tutti gli stipendi dell’amministrazione nazionale, le spese del sistema legislativo e giudiziario, le opere pubbliche e le arti, ma i dazi sul tè finanziarono anche tutte le guerre e le azioni coloniali della Gran Bretagna: il tè pagava la guerra, la guerra garantiva il commercio del tè. Questa storia circolare è nota, ma assume una luce diversa quando si adotta la prospettiva della pianta: «certe piante sono entrate in gioco con una potenza tale da plasmare invisibilmente la cultura e la storia, non solo in Asia ma anche in Gran Bretagna e in America», e questa potenza, se si pensa in particolare all’oppio, è tale da suggerire la svolta ontologica, da sostanza inerte ad attore sociale, da oggetto passivo a personaggio di un romanzo a tinte fosche in cui la droga non è stata solo funzionale all’installarsi di un articolato sistema di potere e di conflitti nel gioco del commercio internazionale ma ha letteralmente plasmato con violenza inaudita il modello capitalista e la modernità neocoloniale.

In un primo tempo l’oppio servì per oliare le ruote dell’ingranaggio: Portoghesi e Olandesi lo usavano come strumento di politica diplomatica, donandolo ai regnati dei vari paesi asiatici per assicurarsi il monopolio di determinate spezie. In questo modo esportavano l’equazione dell’occidente mercantilista, per cui politica e commercio sono facce di un’unica medaglia, e quando la richiesta divenne inarrestabile, da dono regale l’oppio si trasformò in una potente valuta di scambio, diffusa in tutto l’Est asiatico, da Giava alla Cina. Le cose cambiarono ulteriormente quando una nuova tecnica di raffinazione portò alla produzione dell’oppio da fumo, che conteneva percentuali di morfina fino al 10%. La droga dilagò in Cina e Indonesia proprio come un’epidemia, rapida, contagiosa, letale, facendo il gioco degli imperi coloniali europei che avevano trovato un nuovo agente patogeno per creare sottomissione e annientamento. In questo senso l’Olanda e poi l’Inghilterra divennero degli autentici narcostati che scaricavano sulla “mollezza” dei nativi la responsabilità morale di ridurre a spettri di sé stesse intere popolazioni. E in questo quadro raccapricciante le guerre non venivano solo combattute per mantenere il monopolio ma per obbligare i nativi al consumo: vari sovrani locali provarono strenuamente a contenere l’epidemia da oppio vietandone il commercio, ma in tutta risposta l’Europa ingaggiò efferate guerre chirurgiche per rovesciare, fiaccare e ricattare i governanti orientali che si opponevano al flusso di droga.
Il paradigma forse più inquietante che Ghosh porta alla luce è la connessione diretta tra colonialismo dell’Ottocento e crisi climatica attuale, inquietante perché si tratta di una figliazione diretta: quando salì al trono, nel 1815, «Guglielmo Federico di Orange-Nassau, fondò una compagnia commerciale chiamata Koninklijke Nederlandsche Handelmaatschappij. Grazie al sostegno del monarca, la compagnia divenne così potente da assicurarsi il monopolio dell’oppio nelle Indie orientali. […] Sebbene oggi la compagnia non esista più, la sua progenie è ancora fra noi, come nel caso di molte altre imprese arricchitesi col traffico d’oppio. Fra i suoi discendenti c’è un gigante dell’energia che si è molto adoperato per promuovere il negazionismo sui combustibili fossili e il cambiamento climatico: la Royal Dutch Shell». La storia è nota. Il capitalismo mercantilista coloniale e il neoliberismo postcoloniale sono legati da una genealogia diretta, perché l’economia del narcotraffico, l’economia bellica dei metalli, della chimica e del petrolio, l’economia dei nuovi oppiodi e la novella economia del disastro climatico sono gli avatar generazionali di un’unica “famiglia” plutocratica che da secoli genera profitti sulle spalle del Terzo Mondo e del Quarto Stato. Infatti la ricorsività transtemporale di modelli distruttivi non è casuale, è piuttosto il riprodursi del più trascendente dei principi del capitalismo di rapina: i mercati non si cercano, si creano, ed è l’offerta a generare il bisogno. Lo dimostra la storia dell’oppio che ha giocato e gioca tutt’ora il ruolo del maggiordomo colpevole: insospettabile, invisibile, letale. Diffuso ovunque, è un’economia in crescita esponenziale proprio laddove è più facile ottenerlo, illegalmente, oppure legalmente travestito da farmaco.
Illustrando la palese simmetria tra il collasso economico, statale e culturale della Cina dell’Ottocento dovuto all’epidemia d’oppio e il collasso politico-sociale americano degli ultimi vent’anni messo in luce dall’epidemia degli oppioidi, in particolare OxyContin e Fentanyl, Ghosh osserva: «quando si pensa al ruolo del papavero da oppio nella storia, non si può ignorare la sensazione di un’intelligenza all’opera. Ciò emerge soprattutto dalla sua capacità di provocare il ciclico ripetersi nel corso del tempo di fenomeni analoghi. È evidente che il papavero non agisce in modo casuale; costruisce simmetrie che rimano fra loro. […] Solo riconoscendone il potere e l’intelligenza potremo cominciare a far pace col papavero da oppio. Ma per farlo dovremo rinunciare ad alcune idee da tempo egemoniche, tra cui quella secondo cui la terra è inerte e gli esseri umani sono l’unica forza motrice della storia. È chiaro che esistono invece molte altre entità e creature che hanno non solo modellato la storia ma anche usato gli esseri umani per i propri scopi. Il papavero da oppio è senza dubbio una delle più potenti, grazie alla sua impareggiabile capacità di propagarsi coalizzandosi con le più torbide inclinazioni umane». Una storia oscura, tanto che Ghosh, in profonda crisi, aveva abbandonato la scrittura di Fumo e ceneri, annullando i contratti editoriali e restituendo gli anticipi. Se si è ricreduto è per una nuova, sempre più diffusa consapevolezza: «è ormai palese che esistono molte forze diverse – biologiche, geologiche e atmosferiche – dotate di vitalità e intenzionalità proprie». La Terra, insomma, fatta di piante, animali, minerali, paesaggi ed ecosistemi in crisi sta prendendo urgentemente la parola attraverso di noi.
