Timothy Morton: come piedi nella melma
Come si può vivere sapendo già di essere dannati? Questa è la posta in gioco nell’ultimo libro di Timothy Morton, Inferno. William Blake e la ricerca di un’ecologia cristiana, recentemente tradotto dalla casa editrice Timeo. Per seguire l’intricato, a tratti mistico, pensiero ecologico di Morton, si potrebbe partire dai suoi margini concettuali, senza riuscire comunque a incapsularne appieno la potenza letteraria. Vale la pena iniziare allora ricordando un breve articolo del 1929 apparso su «Documents», Le gros orteil – divenuto velocemente molto noto, in cui Georges Bataille dedica delle profonde pagine ai piedi umani, o meglio, a ciò che di più basso si situa nel piede, l’alluce. L’estrema periferia rispetto all’altezza del corpo, della mente. L’alluce è nascosto, fasciato, vituperato. È grezzo e sporco. Ma è la leva silenziosa su cui poggia tutto il peso della nostra vita. Frammezzo intimo e necessario con la Terra e il mondo, l’alluce è uno scandalo, un’abiezione all’interno, in fondo, di quell’altra abiezione che è il piede, specialmente il piede femminile. Eppure, questo depositario del più «basso materialismo», Bataille non lo vede – per usare un cattivo calembour – che da in piedi. L’assialità della censura è infatti sempre verticalista. Ma anche un corpo riverso, steso, allunga gli arti: si distende creando un’altra verticalità inerte, quella di un corpo che si arrende, per inerzia appunto, all’azione della Terra e dei suoi agenti degradanti. Batteri, insetti, belve, ma anche la pioggia, il freddo, e la forza della massima altezza, quella dei raggi del Sole. L’alluce di quel corpo inerte e supino, ancora una volta, è eretto, e punta verso l’alto: indica un desiderio, il desiderio abietto di una redenzione. Ma, guardando verso il Cielo, qualcosa di malvagio si rivela in quel corpo supino, nella sua erettilità, nel suo rigor mortis metafisico. Quello che più sembrava prossimo alla Terra, d’un tratto si rivela suo dispregiatore, in attrazione oppositiva, ricamando il vecchio motto eracliteo. Quell’alluce del corpo steso, forse morto, e puntato verso l’alto, si rivela apodittico e rancoroso.
Si tratta, sembrerebbe, di un’ambizione emancipativa, quella dell’alluce teso; qualcosa di tremendo o addirittura perfido, una denegazione delle radici, un “no” alla Terra che, come ogni rimosso, torna come un grande sì: al Cielo, alle sue altezze diafane e pulite, da cui guardare con scherno la melma da cui ci si è finalmente alzati, ascesi. E questa perfidia non è forse uno sfogo, il sadico godimento di chi “ce l’ha fatta”? Di chi ora sa, e che questo sapere lo possiede e ne gode legalmente: può condividerlo, ma può anche trattenerlo, accumularlo. Riscattarlo contro le beffe della vita e del passato, di chi ancora non sa quanta fatica serve per saper morire e alzare gli alluci.

Non si tratta allora, in fondo, di una vendetta? «Una lezione che non si può imparare»: il grande paradosso di ogni suicidio, suggerisce Morton. Un paradosso grande tanto quanto il corpo suicidario specifico: infinitesimo, come un mistero, quando si tratta dell’individuale, e sempre più evidente, fino alla logica della guerra e dei suoi eserciti, o allo stato di crisi permanente della catastrofe climatica. Suicidio che è già un assassinio, magari di tipo vicario. Si tratta di una passione forse specificatamente giudaico-cristiana, quella della vendetta, delle crociate per un sadico assalto al Cielo. O questa è stata una sua specifica lettura politica, una tematizzazione tutta politica della vendetta, fatta per tramite della religione. La politica è qui un’insidia, un «religionismo» come un altro, termine categoriale, tassonomico, per una specie velenosa. Per indicare questa postura poliziesca e dogmatica, Nietzsche preferì usare un’immagine più evocativa e teriomorfa, quella della tarantola – che dove morde, lascia una cancrena. E che con quel morso fa anche «girare le anime», le muove alla danza, ai riti infiniti della purga. È questo, se così si può dire, il sintomo del veleno della vendetta, questo rimettere tutto in uno stato di febbricitante erezione, ripristinare un ordine di salute, una giustizia fisiologica e spirituale. Il veleno allora è l’«ontoteologia», che riconduce ogni esistente a un’esistenza superiore, quella dei filosofi, dei predicatori, di quelli che Foucault avrebbe chiamato “pastori”. Si tratta in effetti di una chiamata a Dio, a un Dio non affatto dissimile dal Super-Io, e per altri versi molto più esplicito del Super-Io: la legge, la città, l’Agenda 2030 o ancora, i caschi blu, i discorsi dell’OMS e dell’ONU, tra i molti discorsi citabili. Si tratta di un Dio che risponde, ma non interrogabile, che redime, ma senza prendersi la briga di stendere le sue braccia fino a Terra, per pulirci dal fango o per salvare il Suo Figlio dalla croce.
Eppure Gesù, Cristo, non è a Lui che si rivolge, a quel Dio silente, verticale, eretto e autoreferenziale a cui e di cui parla. William Blake lo chiama «Padreserto», «Nobodaddy», il Padre di Nessuno, quel Dio pulito e autocratico che risponde senza ascoltare alcuna domanda. Per Blake, quel Dio, il Padreserto, è l’emblema di ogni forma di potere autoritario, dogmatico e oppressivo. Quello che per Kant è appunto l’oggetto del problema fondamentale del deismo, che il suo progetto critico intende scardinare. Ma il Padreserto, ciò nonostante, non è serio, o perlomeno non lo è come i suoi seguaci: i bigotti della giustizia – sociale, ecologica, morale. Il Padreserto è cinico e canzonatorio, cerca il plauso, si nutre della rabbia che germina in quei corpi che ha morso e iniettato di vendetta. C’è comunque un altro silenzio, che non è quello del Padreserto, bensì quello di chi resiste alla sua ammaliante presenza-assenza. In un altro scritto, nei suoi Proverbi, Blake sembra avere un esempio – antieroe delle anime belle – quantomeno iconico: il verme. «Il verme tagliato perdona l’aratro». E lo perdona, lo può perdonare, proprio perché non si aspetta di poterlo accusare in primo luogo, e di non poterlo accusare da alcun “alto dei Cieli”. Entrambi, il verme tagliato e l’aratro, appartengono alla Terra in egual modo. E di più, proprio quel taglio, forse fatale, potrebbe raddoppiarne la vita e divenire segno di un sodalizio. A patto di accettare il rischio di rimanere a Terra, il rischio ben concreto di potersi invece decomporre, divenire un nulla, dissolto, compostabile nel suolo e col suolo.

A questo punto possiamo forse capire l’invito che ci rivolge Timothy Morton nel suo libro, quando ci sollecita, seguendo Blake, ma anche Freud e tanti altri, a ripensare il sacro. E ritrovarlo non tanto nel biologico come «mera esistenza fisica», quanto nel suo stato fondamentale, quello del verme tagliato, in quei suoi momenti fatidici, gli ultimi, forse, in cui può ancora perdonare. E in effetti, «stato fondamentale» non equivale a stato di morte, come non lo fa il sogno, e come non lo fa la biosfera, che non attende certo un nostro salvataggio per continuare a fare rumore, vibrare, vivere. Allora vuol dire che quella dell’ecologia non è una sfida per salvare o riconquistare un Paradiso perduto, bensì dovrebbe essere qualcosa di meno serio, e di ben più cinico del Padreserto. Si tratta di vederci già all’Inferno, e fare di tutto per vivere all’Inferno senza smettere di credere a Cristo e alla Sua gioia. Come dice Blake, «tutto ride», e quando qualcosa ride, quando una vita ride, aggiunge Morton, ci mostra il suo stato fondamentale, la sua «pura esistenza non meccanica», non riconducibile a una crociata per il Cielo. Ed è in tale stato che ogni cosa rivela la propria innocenza blakeiana: tanto il verme, quanto l’aratro. Entrambi sono uniti, alleati infernali, nel grande Inferno di cui sono parti in quanto concreti enti fisici in gioco con la vita.
Concreti enti fisici, per Morton, quanto lo sono tutti gli enti anche non umani, passando per la vastissima raccolta musicale che accompagna le pagine, così come le droghe e i loro effetti, i segni degli abusi, ma anche le estasi orgasmiche e le carezze. Così come lo sono quelli che, tempo fa, aveva battezzato “iperoggetti”: tanto ampi, viscosi e quotidiani da sembrare invisibili o inconsistenti. Uno di questi iperoggetti, ancora una volta, è la biosfera. E di questa biosfera facciamo tutti parte, in quella che secondo Morton, Gesù chiamerebbe una «differenza-eppure-uguaglianza» di tutti gli enti, degli abitanti dell’Inferno in cui siamo. O ancora, di più, «se Gesù fosse Heidegger proclamerebbe che “il Regno dei Cieli” è a portata di mano», ma non per essere ergonomico, con buona pace del Padreserto e di ogni politica genealogica-psicotica. Morton ci porta piuttosto in una sacralità della paranoia, ci riporta per Terra, per «spezzare il ciclo della vendetta» che assalta il Cielo. Allora, per tornare alla bassezza dei piedi, vale quello che Morton riprende e ripete più volte sulla relazione tra le parti dell’Inferno – seguendo sempre la parola di Gesù. Tutti, infatti, sono in qualche modo vicini, iperoggetti di altri: «più prossimi di mani e piedi» diventa così un piccolo manifesto ecologico.

Contro la disperazione per un Cielo che sembra essere denegato, l’ecologismo – come pure ogni forma di politica che ambisce a essere altra, non dogmatica – dovrebbe insistere su questa prossimità. L’alluce quindi, quello di Bataille per primo, non è più un dito come un altro, che ambisce a essere apodittico, un indice. Nella sua bassezza, fa vera prova che siamo dannati alla sacralità della Terra, e che possiamo camminarvi senza puntare a un Cielo che vorremmo pulito. Rimanere invischiati con la melma, e amarla, è forse l’atto più cristiano che possiamo ancora compiere.
La vita muore, alla fine, il mondo ha pietà della pietà: non sarebbe terribile se la sua misericordia fosse una vendetta sotto mentite spoglie, come quella di chi vuole vivere per sempre? Ibernato alle spese di tutto e di tutti? Gli esseri umani sono esempio di ciò che significa “vivo” e Cristo è esempio di ciò che significa “umano” – uno stupido errore nel perfetto funzionamento dei cicli di vendetta. Per cui la cristianità è la posizione più ecologica possibile. La biosfera è il corpo di Cristo. Can I get a witness? (Morton, 2025, p. 57)
