1925-2019 / Andrea Camilleri: un arcitaliano

18 Luglio 2019

L’Italia è un’ultra-nazione o, in altri termini, una nazione di varietà. La nazione italiana è varia in tutto, perché è anzitutto varia la sua espressione. E c’è niente che dica meglio cosa si è del modo con cui ci si esprime? Si apre bocca e il gioco è fatto: funzione emotiva, la chiamò Roman Jakobson, e non perché avesse a che fare (principalmente) con le emozioni, ma perché chi emette parola, non fa in tempo a emetterla che ha già detto di sé (e anche per tale ragione l’analisi dell’espressione, per chi sa farla, è ovunque uno spasso: in Italia, inenarrabile).
C’è (stato) qualcuno che si è illuso di farla una, l’Italia. Non c’è riuscito, ovviamente, ma, ci fosse riuscito, avrebbe ipso facto decretato la fine dell’Italia che o è varia o non è e, se talvolta è parsa o pare una, è perché ci ha fatto e ci fa (altro tratto italiano caratteristico).


Sulla scorta, c’è (stato) anche qualcuno che si è illuso d’essere (o di rappresentare) l’arcitaliano, pensando di riassumere in sé tutti i tratti dell’essere italiani. Ha così mancato di cogliere il pertinente, perché l’arcitaliano non c’è (stato) mai e di arcitaliani ce ne sono (stati) sempre numerosi e vari.
Uno di questi è stato Andrea Camilleri, scomparso ieri: lutto da cui la nazione italiana è appunto profondamente e giustamente ferita. Per la nazione della varietà, privarsi di un campione come Camilleri non è perdita da poco: anche per sue partigiane (quindi, appunto, arcitaliane) e spesso condivisibili sortite sociali e politiche e per l’arcitalianissimo ruolo da grande e vecchio saggio che, con la sua attiva collaborazione, l’opinione pubblica nazionale gli aveva attribuito negli ultimi lustri. Stucchevolmente, bisogna che si dica: ma l’italiana è una nazione cattolica e senza il culto di qualche santo non riesce non solo genericamente a vivere, ma nemmeno particolarmente a pensare.


A cavaliere tra il secolo ventesimo e il ventunesimo, Andrea Camilleri ha del resto restituito alla nazione italiana una sua precipua immagine espressiva. Seguito con dedizione ammirata da milioni di connazionali dal Gottardo a Lampedusa (com’è giusto che sia, qui il discorso verte sulla nazione linguistica, non sulla politica), Camilleri ha concepito e scritto migliaia di pagine in una forma che è in superficie tanto lontana da un’alta lingua letteraria, quanto prossima a essa nello spirito. Una lingua tanto geograficamente connotata, quanto riconoscibile come nazionale. Una lingua tanto pronta a essere additata da ognuno (anche dai Siciliani medesimi) come esotica, altra, particolare, quanto disponibile a essere percepita sentimentalmente come cosa nostra. Sì, cosa nostra: italiana e basta.
Altrove, inimitabile. Altrove, irriproducibile, la lingua di Camilleri. E non per gli eventuali birignao fattisi tormentoni: così quel cabasisi che in ogni contrada del Bel paese ormai e giustamente spesseggia. Si tratta evidentemente di bandiera di altro, diffuso tratto nazionale. Non per i birignao, allora, inimitabile, irriproducibile, ma per la sua Innere Sprachform, in altre parole, per ciò che la anima, che le dà spessore comunicativo, che la rende saporita: un piatto tipico di una delle mille cucine locali che, proprio per la sua località, trova ragione d’essere gustato come proprio dall’intera nazione.  


Scrivere come ha fatto Camilleri è stato possibile solo in una nazione assuefatta da secoli alla varietà di espressione: una nazione comunicativamente tollerante, abituata a vivere magari con acceso campanilismo le differenze, ma a non farle mai diventare motivo di incomprensione, di incomunicabilità, caratteri estranei alla prosa dell’autore di Porto Empedocle, che, se di qualcosa potrebbe essere accusata, è di parere e d’essere al contrario piaciona, nei confronti di chi le si accosta, di volerlo blandire e sedurre, di provare a farlo suo, facendogli provare il brivido della complicità.


Ci si pensi. Francese, tedesco, inglese, spagnolo: nessuna delle grandi lingue europee avrebbe mai potuto partorire un fenomeno letterario, culturale, sociale come Andrea Camilleri né mai, c’è da scommettere, lo partorirà. Da secoli, le letterature in quelle lingue si esprimono secondo canoni linguistici consolidati, non, come la letteratura italiana, per continui esperimenti, per approssimazioni, per prove. Cominciò così Dante e da allora, tranne gli insipienti (qualcuno, anche la nazione italiana lo ha albergato e lo alberga), non ce n’è stato uno che non si sia chiesto “E adesso, come scrivo?”. O si dovranno ricordare i casi di Manzoni, di Verga, di Gadda, di Pasolini e dei tanti altri italiani che, davanti alla pagina bianca, prima ancora di chiedersi cosa scrivere, si sono dovuti o voluti interrogare sulla lingua nella quale farlo appunto diventare scrittura? L’avventura che ha raccontato la letteratura italiana è anzitutto quella delle sue tante espressioni, delle sue tante lingue. Ancora tre decenni fa, così Andrea Camilleri: un arcitaliano, appunto, anche per via della storia che, a scrivere in un italiano piano ciò che aveva da scrivere, le sue pagine non avrebbero avuto sugo (né forse c’era e c’è da dargli torto: in genere, i temi sono parsi pericolosamente prossimi a luoghi comuni).  


Sarà il tempo a incaricarsi di dare all’opera di Camilleri il suo vero valore: qui e oggi, dire qualcosa in proposito sarebbe segno di umana sciocchezza ancora più che di vanagloria critica. L’opera di Camilleri resta in ogni caso come testimonianza del modo con cui la varietà espressiva, un tratto di lunga durata, se non permanente della nazione italiana, si è manifestata oltre la modernità e la sua figura, quella di una nobile varietà di arcitaliano.

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