L'oro del popolo
Questa storia dell’oro è la classica tempesta in un bicchier d’acqua. Comincerò col dire una cosa non nuova, ma necessaria: c’è una brutta abitudine nel discorso pubblico, quella di focalizzare l’attenzione sugli aspetti meno importanti di una questione, e di lasciare intoccate le corde più sensibili (ma consoliamoci, che in questo non siamo i soli, come ogni lettore smaliziato sa). Si agita infatti la domanda: “Di chi è l’oro?” (domanda che ha una risposta chiarissima, come spiegherò alla fine) e non si affronta la questione di fondo: “A che serve? Perché lo teniamo? Come lo possiamo gestire al meglio?”
Per capire la fascinazione che l’oro esercita non basta l’economia, occorre rivolgersi anche alla psicologia e alla religione. Vengono subito alla mente gli ornamenti sacri dei faraoni, il re Mida raccontatoci da Ovidio, i galeoni pieni del prezioso metallo affondati nelle Antille, i nazisti che organizzano treni blindati per Berlino negli ultimi giorni del Terzo Reich. E tutto per che cosa? Per un metallo che non serve a niente, se non a modellare anelli e pendenti, maschere funerarie, o al massimo piatti (troppo pesanti, del resto, per essere usati normalmente). E quindi? Come mai lo si accumula con tanto fervore? Come mai per averlo si muore?
Cominciamo dalle basi. Metallo “nobile”. Numero atomico 79. Chimicamente inerte. In pratica, questo significa che: Punto primo, è bellissimo, e piace a tutti. Secondo, è duttile e malleabile, come abbiamo imparato a scuola; perciò si lavora benissimo. Terzo, è (quasi) incorruttibile: non arrugginisce, non si altera. Terzo, è pesante: un decimetro cubo di oro pesa 19,3 chilogrammi; quindi è molto difficile da trovare, perché quando la Terra si è formata, cinque miliardi di anni fa, l’oro è precipitato in fondo, e solo una piccola parte, a causa di sconvolgimenti tettonici, è poi risalita in superficie. Solo per dare un’idea, le miniere più profonde del mondo sono quelle di oro: in Sud Africa ci sono miniere in cui i minatori impiegano un’ora, in ascensore, per raggiungere il posto di lavoro, che sta a 4.000 metri sottoterra. A quelle profondità la temperatura è di 55 gradi, perciò si lavora solo refrigerando le gallerie con un complesso sistema di tubi che portano acqua e ghiaccio.
In estrema sintesi, la storia dell’oro la possiamo riassumere così. La bellezza e la rarità ne fanno salire la reputazione e la domanda. L’offerta è limitata, perché oro ce n’è poco, estrarlo è molto costoso. Il prezzo è alto, ma abbastanza stabile. La relativa stabilità del prezzo dell’oro si spiega facilmente: quando il prezzo sale per effetto della domanda, i cercatori grandi e piccoli moltiplicano i loro sforzi di ricerca, così che anche l’offerta sale, e il prezzo tende a stabilizzarsi. Questo meccanismo, però, richiede anni per mettersi in moto, quindi nel breve periodo le fluttuazioni possono essere importanti. Intorno al 600 A.C. vengono coniate, in Lidia, le prime monete d’oro. Ora, in teoria, la moneta potrebbe essere fatta di qualsiasi metallo (in alcuni casi, per esempio in Svezia, si produssero pesantissime monete di rame, ci voleva un carretto per portarle), ma il vantaggio dell’oro è che il suo alto prezzo per grammo rende possibile trasferire grosse somme spostando quantità relativamente piccole di metallo. Un vantaggio aggiuntivo è che non si ossida, quindi non comporta spese di manutenzione.
Tuttavia, non dobbiamo pensare che l’oro sia l’unica possibile scelta quando si tratta di coniare monete. Molti paesi, per esempio l’India, hanno storicamente preferito l’argento. Per un breve periodo storico (fine Ottocento/primi del Novecento) gran parte dei paesi industriali si convertì all’oro, perché la potentissima Gran Bretagna aveva decretato che l’oro dovesse essere la moneta internazionale. Fu l’epoca del Gold Standard, un sistema teoricamente basato sull’oro ma praticamente basato sulla sterlina, la moneta della superpotenza dell’epoca. In tale sistema, ogni moneta nazionale di carta doveva essere convertibile in un certo quantitativo di oro, e ogni paese doveva sacrificarsi fino alla morte per mantenere la convertibilità, anche a costo di atroci deflazioni.
“Barbara reliquia”. Così John Maynard Keynes definì l’oro nel 1924, quando, finita la guerra, la gran parte dei paesi voleva ristabilire la convertibilità della propria moneta in oro. Barbara perché, secondo Keynes – poi appoggiato da tutti gli economisti di buon senso – il sacrificio deflazionistico del ritorno all’oro (crisi e disoccupazione) era assolutamente sproporzionato rispetto ai vantaggi che la ripresa della convertibilità avrebbe portato con sé. Ne sappiamo qualcosa anche noi italiani, che dovemmo sopportare fallimenti e sacrifici per far raggiungere alla lira la famosa “quota novanta” nel 1927: null’altro che uno sciocco puntiglio nazionalista-identitario di Mussolini. Ma torniamo a Keynes. Che cosa aveva in mente Keynes? Come pensava di trovare un aggancio per garantire la stabilità futura delle monete? Aveva in mente le banche centrali, che avrebbero dovuto, con una politica monetaria oculata, evitare sia l’inflazione che la deflazione. E aveva in mente (questa idea gli venne vent’anni dopo, alla fine della seconda guerra mondiale) una banca centrale delle banche centrali, che avrebbe dovuto emettere una moneta internazionale (o meglio, sopranazionale). Non l’oro, troppo scarso e troppo costoso da produrre, non il dollaro o la sterlina, troppo legati alle vicende interne di singoli paesi, ma una moneta “illuminista”, governata dall’intelligenza e dal consenso dei paesi del mondo. Tale moneta, il bancor, non doveva essere coniata o stampata: era concepita come una pura unità di conto che avrebbe dovuto affiancare, non sostituire, le monete nazionali. Purtroppo non si è fatto. Il sogno di Keynes è rimasto sulla carta perché il mondo è sempre in guerra, fredda o calda, e trovare il consenso sulla gestione di una moneta sopranazionale non è stato possibile. La barbara reliquia è pertanto sempre con noi. Una barbara reliquia perfettamente adatta al barbaro mondo in cui viviamo.
In assenza del bancor e di una politica valutaria internazionale, è l’oro che serve come ultima risorsa di un paese. Come garanzia per ottenere prestiti sui mercati internazionali in caso di grave crisi. Quando non ci si fida più di nessuno, ancora ci si fida dell’oro. Paradossale ma vero. In un mondo diffidente e pieno di ostilità, l’unico oggetto che riscuote fiducia è questo metallo inutile ma prezioso. Riscuote fiducia in quanto tutti si aspettano che sia onorato. E finora lo è stato sempre.
Il prezzo di mercato dell’oro è cresciuto abbastanza costantemente nell’ultimo ventennio. Nel 2005 costava 10 euro al grammo. A febbraio 2024 era valutato 60 euro al grammo. Da allora c’è stata un’ulteriore ascesa molto marcata, durata per tutto il 2025, così che in questo momento il prezzo si aggira intorno ai 118 euro per grammo (al dettaglio). Chi lo compra? Molti privati in tutto il mondo (la catena americana di supermercati Costco sta vendendo lingotti di un’oncia ai propri clienti), ma soprattutto le banche centrali dei paesi emergenti, come Turchia e Cina. Come mai? Si percepisce instabilità nella politica mondiale. C’è paura di guerre, di sanzioni. La domanda sale e il prezzo, di conseguenza, sale. Ancora non si vedono all’orizzonte nuove miniere e nuove produzioni che facciano da calmiere.
Quattro o cinque anni fa ero convinto che le riserve italiane fossero eccessive, e avrei accettato di buon grado una limitata vendita di oro (come del resto fece la Francia, con Sarkozy ministro dell’Economia, nel 2004). Ora è evidente che il mondo è cambiato, è diventato instabile. Peggio, imprevedibile, soprattutto a causa di una amministrazione americana che sembra agire senza bussola, e che ogni giorno insulta e minaccia paesi che erano suoi alleati fino a un anno fa (e che teoricamente lo sarebbero ancora).
Perciò credo che un governo e una banca centrale lungimiranti dovrebbero fare due cose. Primo, mantenere e prudentemente accrescere le riserve di oro. Secondo, assicurarsi che la sua collocazione fisica garantisca sicurezza e pronta accessibilità.
Durante gli anni Sessanta del Novecento, quando la Banca d’Italia, con il consenso dello Stato, accrebbe le riserve auree del Paese, una buona parte degli acquisti fu collocata a New York, in una delle sedi della Federal Reserve. I motivi sono facili da intuire. Gli Stati Uniti erano la maggiore potenza mondiale, erano il nostro alleato principale, ed erano anche geograficamente lontani dal teatro europeo, dove sia erano svolte le due precedenti guerre mondiali, con conseguenti ruberie di oro da parte della Germania nazista. Altri paesi avevano fatto questa scelta, e pertanto gli eventuali compravendite di oro fra alleati potevano avvenire senza alcun movimento fisico: bastava cambiare etichetta sopra un mucchio di lingotti in un deposito blindato della Fed.
In un quadro geopolitico profondamente mutato, occorre ripensare questa scelta. Non possiamo permettere che le nostre riserve divengano ostaggio di una amministrazione aggressiva e imprevedibile. L’oro deve tornare in Europa. In parte in Italia (per esempio in una caverna scavata sotto il Gran Sasso, accanto ai laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare: si tratterebbe di una modestissima addizione a quella immensa struttura già esistente e perfettamente funzionante) o in qualsiasi altro posto sicuro. In parte forse in un paese alleato, come la Francia o il Regno Unito, dove già ne teniamo una piccola quota.
Ora fatemi tornare un momento alla questione da cui eravamo partiti. Di chi è l’oro depositato nei forzieri di Via Nazionale e in quelli di New York, nonché iscritto all’attivo nel bilancio della Banca d’Italia? È del popolo italiano. La cosa è chiara, e non da oggi. È chiara da più di un secolo. Nel 1915 l’Italia, in preparazione dell’entrata in guerra, ottenne un prestito di 60 milioni di sterline dalla Gran Bretagna. Il prestito fu garantito, per un sesto del suo valore complessivo, da oro italiano, che fu trasportato, via nave, a Londra. Era l’oro della riserva della Banca d’Italia. E fu usato per ottenere un prestito dello Stato italiano, del popolo italiano. E ancora quando, nel 1974, ottenemmo un grosso prestito dalla Germania (due miliardi di dollari), fu ancora una volta l’oro “della Banca d’Italia” a essere dato in garanzia, anche se in quell’occasione non fu spostato fisicamente dal caveau di Via Nazionale. Quindi si vede bene che le polemiche sulle possibili destinazioni “speculative” dell’oro sono basate su niente. La Banca d’Italia, da quando è nata e fino ad oggi, ha sempre gestito l’oro a vantaggio della nazione, a vantaggio del popolo. Cambiare la definizione – anche se per dire una cosa esatta – ha l’inevitabile conseguenza di mandare il messaggio che si vuole utilizzare l’oro per un piccolo vantaggio di breve periodo, per “fare una finanziaria” (l’11 dicembre è uscito su Domani un ponderato articolo di Sandro Trento sulla politica di questo ventilato cambio di parole). Non è necessario alcun cambiamento di definizione. L’oro è già del popolo. Ciò che serve è trovargli un luogo sicuro, in cui possa rimanere a disposizione del popolo.
In copertina, foto di Katie Harp.