Fantasia quota 85

20 Dicembre 2025

Fantasia, un “abuso nazista”? L’epico film di animazione fortemente voluto da Walt Disney, quello in cui compare Topolino nei panni di un apprendista stregone, sarebbe stato un Nazi Abuse? Difficile da credere. Eppure, è esattamente ciò che Dorothy Thompson – una delle più autorevoli giornaliste americane, voce tra le più prestigiose del liberalismo americano, e tra le prime a denunciare il pericolo hitleriano – scrisse in Minority Report, la sua rubrica sul Tribune, all’indomani della prima nuovaiorchese del film al Broadway Theatre (lo stesso che aveva tenuto a battesimo Topolino con Steamboat Willie dodici anni prima). Definì Fantasia un’offesa, un esperimento “sinistro”, tecnicamente prodigioso (il sonoro Fantasound, un audio sperimentale multipista, anticipava di quasi mezzo secolo il moderno surround system), ma spiritualmente corrosivo, un’opera che sembrava sfuggire a qualsiasi categoria e che, a suo giudizio, metteva in scena un immaginario totalitario mascherato da fiaba musicale.

Fantasia era infatti il primo, ambiziosissimo tentativo di Walt Disney di elevare l’animazione al rango di arte alta, non di solo intrattenimento popolare, un’opera che ambiva a superare il tempo e il cinema stesso. Ed era proprio in questa presunzione di monumentalità che, per Thompson, risiedeva il pericolo.

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«Le recensioni della Fantasia di Walt Disney e Leopold Stokowski che ho letto finora, sono piene di elogi», annotava la giornalista nell’articolo dal titolo A Nazi Abuse (nella foto). «Alcune, anzi, sono quasi isteriche nei loro elogi (...) Due grandi talenti, Disney e Stokowski, hanno preso il lavoro di altri talenti supremi – Beethoven e Bach, Čajkovskij, Stravinskij, Musorgskij, Dukas, Schubert, Ponchielli – e sono riusciti a superare il genio stesso in un supremo insulto ai compositori e a loro stessi. Il signor Stokowski, in particolare, collabora al rogo dei maestri che tanto adora con una performance di profanazione satanica, compiuta davanti al più vasto pubblico possibile: le innumerevoli moltitudini che affollano le sale cinematografiche. L’unica cosa che riuscii a dire dell’esperienza, mentre ne uscivo barcollando, fu che era “nazista”. La parola non nasceva da un’ossessione. Il nazismo è l’abuso dei migliori istinti, il genio di un popolo trasformato in distruzione magica e nera, e così è Fantasia».

Possibile? Per capire l’amarezza di quelle parole e la stroncatura al calor bianco di un film oggi considerato di culto, e che ha appena festeggiato gli 85 anni di onesto servizio cinematografico, bisogna fare un passo indietro e riavvolgere il nastro per collocare il tutto nel contesto della Grande Storia

Cartoni animati tra isolazionismo e soft power

«Era la fine degli anni Trenta. Il presidente era Franklin Delano Roosevelt. Gli Stati Uniti erano tenuti alla neutralità, niente meno che per legge. Altro che difendere la democrazia degli altri! La parola d’ordine era: America First», scrive Siegmund Ginzberg. Era chiaro che, da sempre, «agli americani, di quel che succedeva in Europa non poteva importargliene di meno. Che si arrangiassero a cavarsela da soli con le loro guerre, la loro politica incomprensibile, i loro aspiranti dittatori».

A tenere accesi i riflettori sull’Europa c’era, però, una pattuglia di corrispondenti americani, inviati da giornali e radio, pur con diverso orientamento politico, che ricordavano ai connazionali che ciò che stava accadendo in Germania (nazismo), Italia (fascismo), Spagna (franchismo) poteva accadere ovunque, persino nel loro tranquillo giardino (vedi l’odierno trumpismo). La “banalità del male” non conosce confini. Alla testa di quel drappello di “prima linea” c’era una giornalista, scrittrice e conduttrice radiofonica: Dorothy Thompson, appunto, moglie dello scrittore premio Nobel Sinclair Lewis, soprannominata “La First Lady del giornalismo americano”, alla quale Time dedicò una copertina definendola: “La seconda donna più popolare del Paese dopo Eleanor Roosevelt”.

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Dorothy era stata corrispondente dalla Germania, testimone dell’ascesa al potere del Partito nazionalsocialista e unica giornalista americana ad aver intervistato Adolf Hitler, a Monaco nel 1931 – l’anno in cui il Führer sarebbe diventato ufficialmente vegetariano su richiesta dei medici che non sapevano come curarne la fastidiosa flatulenza. L’incontro fu alla base di un suo celebre libro I Saw Hitler in cui elencava i pericoli a cui non solo l’Europa sarebbe andata incontro nel caso di una sua vittoria alle elezioni del luglio 1932.

Thompson, che di nazismo se ne intendeva, associava, dunque, l’estetica di Fantasia a una forma di “manipolazione del sublime”, simile a quella che lei vedeva nella propaganda hitleriana, con Wagner come trombettiere del regime, e le mitologie germaniche travisate, presentate con un’estetica totalizzante, esaltata dalla monumentalità emotiva dei raduni di Norimberga.

Certo, non dice che Disney fosse nazista. Dice che il film operava una distorsione del bello per scopi spettacolari e irrazionali, simile a ciò che il Ministro della Propaganda del Reich, Joseph Goebbels, faceva, da par suo, con la musica e il cinema. Thompson vedeva in Fantasia il “culto dell’irrazionale”, l’utilizzo del potere emotivo della grande arte (Bach, Beethoven) per creare uno spettacolo che mirava non a persuadere o intrattenere, ma a sopraffare il giudizio critico dello spettatore.

E, nel 1940, questo suo collegamento aveva un peso drammatico: non dimentichiamo infatti che, all’epoca, Hollywood, epicentro del soft power americano, era in un momento di fragilità politico-culturale, perennemente sotto osservazione diretta dell’influente console tedesco Georg Gyssling, espressamente spedito a Los Angeles da Goebbels, su ordine del Führer, per mettere il bavaglio agli studios. L’incarico di Gyssling era quello di impedire la produzione di pellicole che presentassero la Germania sotto una luce negativa («Il mio compito è quello di combattere i numerosi attacchi calunniosi rivolti al regime hitleriano dall’ebraismo mondiale», andava dicendo alla stampa locale), minacciando di vietarne la distribuzione in Germania, un mercato redditizio, secondo solo a quello britannico. Così molte major finirono per piegarsi al ricatto economico, autocensurandosi e evitando di trattare, nei loro film, temi legati al nazismo, «insieme a tutto ciò che poteva essere visto come favorevole agli ebrei, anche il semplice riconoscimento della loro esistenza» [David Denby].

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Weimar sul Pacifico

Ironia della sorte, mentre Gyssling da “pierre” del Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei riceveva a Hollywood star del regime come Leni Riefenstahl, e sputava veleno sulla reproba Marlene Dietrich passata al nemico, Disney lavorava al suo film più ambizioso e Los Angeles stava diventando la meta di un’imponente ondata di rifugiati politici in fuga dall’Europa. Una migrazione che, in breve, trasformò la costa californiana in una sorta di Weimar am Pacific (“Weimar sul Pacifico”), destinata a lasciare un’impronta profonda nel paesaggio culturale della città. «Hollywood divenne una sorta di Atene, affollata di artisti come la Firenze rinascimentale. Fu un’epoca d’oro. Non era mai successo prima. Non succederà mai più», ebbe a commentare il commediografo S.N. Behrman.

Nella cintura verde tra i quartieri di Pacific Palisades, Santa Monica e Brentwood si stabilirono personalità di spicco come il premio Nobel Thomas Mann, lo scrittore Lion Feuchtwanger, i registi Fritz Lang e Billy Wilder, il drammaturgo Bertolt Brecht, i filosofi Theodor Adorno e Max Horkheimer, i compositori Arnold Schönberg e Erich Wolfgang Korngold. Una comunità cosmopolita, nutrita da una sofisticata cultura europea e da una radicata avversione per il nazismo, in cui si muovevano anche il pioniere dell’animazione astratta Oskar Fischinger e il compositore Igor Stravinskij: due personalità che, ciascuna a suo modo, avrebbero incrociato in modo burrascoso il percorso creativo di Fantasia.

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Il dilemma di Topolino e l’epoca del disincanto

L’idea di Fantasia ebbe origine da un problema interno alla “famiglia Disney”: l’improvvisa popolarità di Paperino che, con la sua natura di antieroe irascibile e perennemente sconfitto, stava guadagnando un favore popolare che cominciava a offuscare l’immagine del perfetto, imbattibile Topolino. «Mickey Mouse è l’eroe del New Deal, mentre Paperino ne prefigura il tramonto, l’epoca del disincanto», osserva Mariuccia Ciotta in Walt Disney: prima stella a sinistra (Bompiani, 2005).

Come restituire, dunque, nuovo vigore all’icona Topolino? A questa domanda Disney cominciò a rispondere nel 1937, verso la fine della produzione di Biancaneve e i sette nani, lavorando a un corto ispirato al poema sinfonico L’apprendista stregone di Paul Dukas, tratto dalla ballata goethiana Der Zauberlehrling, scritta esattamente un secolo prima. Mickey avrebbe interpretato l’apprendista, mentre lo stregone Yen Sid – Disney scritto al contrario – avrebbe completato il quadro.

Ma i costi del corto, che prevedeva, tra l’altro, la partecipazione della filarmonica di Filadelfia, stavano lievitando a tal punto da rendere evidente a Disney che l’investimento aveva bisogno di un contenitore più ampio. Così nacque l’idea di un lungometraggio – Concert Feature, presto ribattezzato Fantasia, titolo più adatto a essere esportato ovunque senza problemi di lingua – che avrebbe unito celeberrimi brani musicali a sequenze d’animazione.

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L’educazione estetica delle masse

Il risultato fu un’opera monumentale, supervisionata da un team di registi, composta da otto segmenti animati, ciascuno associato a altrettanti brani di musica classica diretti da Leopold Stokowski, braccio destro di Disney nel progetto. Sette di essi furono eseguiti dalla Philadelphia Orchestra, mentre l’ottavo – L’Ave Maria di Schubert, nell’arrangiamento di Stokowski – venne registrato da un coro appositamente riunito per l’occasione. A introdurre ogni segmento fu il critico musicale e compositore Deems Taylor. Insomma un’antologia “alta” che rompeva con ogni tradizione dell’animazione commerciale.

Non sorprende, allora, che Fantasia apparisse difficile da classificare. Non era un film per bambini, non era un esercizio d’avanguardia pura, ma nemmeno un prodotto commerciale convenzionale. Insomma, era un’ambiguità strutturale che permise letture molto diverse. C’era chi vedeva in Disney un nuovo promotore dell’educazione estetica delle masse e chi, come Thompson, scorgeva, nell’eccesso sensoriale e nella monumentalità del progetto, il fantasma di un’estetica autoritaria.

Ciò che è certo è che Fantasia fu un film enorme, rischioso, costoso – e inizialmente un fallimento economico: il budget complessivo raggiunse l’astronomica cifra di ben oltre i due milioni di dollari. All’uscita in tredici città statunitensi, il film oltre a essere accompagnato da reazioni contrastanti non riuscì a generare profitti immediati, complice la guerra che aveva tagliato fuori il mercato europeo e l’enorme investimento necessario per installare, nelle sale dove si proiettava il film, il sistema Fantasound. Anche una buona parte del pubblico, poco incline a un Disney “intellettuale”, reagì con freddezza. Ciononostante Fantasia avrebbe conosciuto una fortunata lunga vita di riedizioni e restauri, spesso con variazioni in audio e montaggio e un sempre maggior interesse da parte del pubblico. Ma proprio questa sproporzione tra ambizione e risultato sembra riassumere il film meglio di ogni interpretazione ideologica: un’opera in anticipo sui tempi, concepita come un’esperienza sinestetica totale, che poteva essere letta sia come un’apertura verso il futuro che come una manipolazione sensoriale su cui il giudizio è ancor oggi sospeso.

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Mitologie reinventate, ippopotami danzanti e dinosauri

Il film alterna celebrazioni della natura (la Suite da Lo Schiaccianoci di Čajkovskij); mitologie reinventate (la Pastorale di Beethoven); parodie coreografiche del balletto classico eseguite da struzzi, elefanti, ippopotami e alligatori (la Danza delle ore di Ponchielli); esercizi di astrazione visiva (la Toccata e fuga in re minore di Bach originariamente pensata per essere illustrata dai geometrici mandala di Oskar Fischinger); e momenti narrativi fortissimi, come il segmento L’apprendista stregone di cui accennavamo poc’anzi, destinato a diventare nel 1953 anche una celebre storia a fumetti disegnata da Paul Murry, e oggi riproposta nel libretto omaggio al film (Fantasia, 85 anni di un capolavoro) che Panini Comics ha appena mandato in edicola. Senza dimenticare l’imponenza della Sagra della primavera di Stravinskij, che accompagna la storia geologica e biologica della Terra fino all’estinzione dei dinosauri.

Stravinskij era l’unico compositore vivente tra quelli presenti in Fantasia che dopo aver incontrato personalmente Walt Disney e aver ceduto i diritti dell’opera, si aspettava che la sua composizione rivoluzionaria fosse trattata con rispetto. Quando scoprì che Leopold Stokowski, con il pieno benestare dello studio, aveva operato sostanziali tagli alla Sagra – comunque non l’unico brano a essere ridimensionato per motivi di minutaggio – e proceduto a una riorchestrazione per esaltarne l’effetto drammatico e adattare il suono al sistema Fantasound, si infuriò.

Per Stravinskij quegli interventi erano uno schiaffo artistico, un tradimento inaccettabile. La sua musica, pensata come un’unità strutturale, drammatica e rigorosa, era stata smembrata, alterata e usata come colonna sonora per dinosauri animati. Dapprima minacciò di ritirare le sue musiche, ma una clausola del contratto sui diritti d’autore – che lo avrebbe penalizzato – lo convinse a desistere, complice anche un lauto assegno di cinquemila dollari.

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Le pene artistiche del cineasta astrattista

Tra gli espatriati tedeschi che erano approdati a Los Angeles – esodo reso possibile dall’industria del cinema, fino ad allora snobbata da quasi tutti loro, ma disposta a firmare contratti di lavoro che ne permettessero l’ingresso legale negli Stati Uniti – oltre a letterati, filosofi, musicisti e cineasti come i già citati Fritz Lang o Billy Wilder che, da subito, riuscirono a integrarsi senza problemi nel meccanismo produttivo dello show business hollywoodiano, spicca l’animatore Oskar Fischinger per il quale fu invece molto difficile adattarsi. Fischinger aveva cominciato la sua carriera artistica nella Germania di Weimar, nei primi anni Venti, e si era fatto un nome a Berlino come “cineasta astrattista” grazie alle geometrie dei suoi straordinari mandala animati che risentivano delle influenze del buddhismo tibetano e della pittura astratta di Vassily Kandinsky.

Arrivato a Los Angeles prima della grande ondata di connazionali – il suo visto era stato sponsorizzato dalla Paramount per cui avrebbe realizzato il corto Allegretto – fu accolto a braccia aperte finendo per trovare lavoro come “animatore di effetti” presso gli studi Disney che stavano, appunto, producendo Fantasia. Fischinger si sarebbe dovuto occupare del frammento legato alla Toccata e fuga in re minore di Johann Sebastian Bach, l’unico in cui erano previste immagini astratte.

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Ma dopo nove mesi di story sessions in cui il suo lavoro veniva spesso cambiato, scartato o rielaborato (come del resto avveniva per tutti gli animatori, nessuno escluso), Walt in persona gli spiegò che, seppure Fantasia fosse un prodotto di livello più alto rispetto ai canoni dei cartoni animati commerciali, le proposte presentate erano troppo intellettuali e rarefatte, e non si adattavano al progetto. Fischinger ebbe la classica reazione dell’artista offeso: piantò in asso studio film. Solo una minima parte delle sue animazioni restò nella versione finale, ma senza che gli fossero riconosciuti i crediti.

E dire che i lavori avanguardistici di Fishinger annunciavano, con decenni di anticipo, lo stile che sarebbe diventato tipico della motion graphics e degli odierni video musicali, e avrebbe influenzato una generazione di artisti e cineasti sperimentali come James e John Whitney, pionieri dell’animazione computerizzata, o come il grafico Saul Bass, le cui innovative soluzioni pop si sarebbero elevate a una vera e propria forma d’arte adottata in numerosi titoli di testa di film di grande successo e nei relativi poster: dalla famosa sequenza d’apertura di La donna che visse due volte (“Vertigo”), di Alfred Hitchcock a Psycho; da The Blues Brothers, a Rocky, fino a 2001, Odissea nello spazio.

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La redenzione di un paradosso irrisolto

Alla fine Fantasia rimane un paradosso irrisolto: un’opera nata dall’ambizione di democratizzare l’alta cultura che finì per alienare tanto i puristi quanto il pubblico popolare. Ma poi la storia ha dato ragione a tutti e a nessuno. Fantasia non è diventata né l’evento ricorrente che Disney immaginava né la minaccia totalitaria che Thompson paventava. È diventata altro: un cult, un oggetto di nostalgia, un esperimento che generazioni successive avrebbero saccheggiato a piacimento. Gli hippies degli anni Sessanta lo riscoprirono come esperienza psichedelica; i cinefili continuano a celebrarne l’audacia formale; i bambini continuano a ridere davanti alle gag dell’apprendista stregone e degli ippopotami che danzano, ignorando Bach e le sue fughe.

Forse è proprio in questa frammentazione postuma che Fantasia trova la sua redenzione: incapace di imporre un’unica lettura monumentale, si è lasciata smontare, riappropriare, tradire a sua volta. Disney voleva creare un tempio dell’arte totale; ha costruito, senza saperlo, un parco giochi. E in questo fallimento c’è qualcosa di profondamente, involontariamente democratico.

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