Conversazione tra Machiel Botman e Rinko Kawauchi

16 Dicembre 2011

In occasione dell’apertura del workshop La costruzione del libro fotografico (ISFCI, Roma 19-23 maggio 2010), Machiel Botman ha intervistato Rinko Kawauchi in un incontro aperto al pubblico, qui trascritto. Questa conversazione è stata pubblicata nel catalogo della mostra Mizu no Oto – Sound of Water, a cura di 3/3 (FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma, 23 settembre – 23 ottobre 2011), insieme a interviste alle altre autrici presenti in mostra: Asako Narahashi, Lieko Shiga, Mayumi Hosokura e Yumiko Utsu.

 

 

M.B.: Chiedere proprio a me, fra tutte le persone possibili, di intervistare Rinko, è una cosa piuttosto insolita, perchè non ho mai avuto molto da dire sulla fotografia. Per fortuna, la situazione migliora quando si tratta del lavoro di altri.

A volte sono stato presentato come un esperto di fotografia giapponese, e non è assolutamente vero. Ma ho molte domande. Rinko, penso che tu sia una fotografa in grado di trasformare le cose in oro. La mia prima domanda è: se potessi scegliere di essere un animale, che animale saresti?

 

R.K.: Forse un uccello.

 

M.B.: Che tipo di uccello?

 

R.K.: Un passerotto...

 

M.B.: E questo passerotto andrebbe in giro a fare foto con una Rolleiflex?

 

R.K.: Penso di si! Afferrando cose...

 

M.B.: Da qualche parte hai detto che per un fotografo è necessario fotografare con magia e anche gli incidenti sono una cosa necessaria. Vorrei parlarne un po’.

Quando parli così, non credo tu stia facendo riferimento a certe capacità tecniche, ma forse piuttosto alla condizione fluttuante in cui si può porre un fotografo. Penso anche che tu non parli semplicemente di fotografare qualcosa di magico, penso tu stia parlando di come un fotografo possa contribuire alla creazione di qualcosa di magico, come un mago appunto, no?

 

R.K.: Di certo questo non è un discorso limitato solo alla fotografia, ma nel momento in cui stai per produrre qualcosa, per creare qualcosa, se non c’è una certa percentuale di magia non puoi creare niente.

 

M.B.: La domanda è questa: è più un fatto legato all’essere all’interno di un’emozione che di un pensiero?

 

R.K: Penso sia entrambi. Io semplicemente mi concentro nel mio lavoro, così che le cose possano succedere. Vi faccio vedere un’immagine dal mio lavoro Aila. L’albero e la nuvola hanno la stessa forma. Non ho ritoccato nulla. È venuto tutto in modo naturale. Ho scattato solo una volta e poi l’immagine è scomparsa. E questo è qualcosa di magico.

 

M.B.: E sono sicuro che la cosa ti ha reso molto felice.

 

R.K: Si. Quando ho fatto quella foto mi sono sentita veramente una maga.

 

M.B.: Ma ciò che stavi vedendo ti toccava veramente?

 

R.K: Penso di si, sai, non sappiamo mai per quale motivo stiamo vivendo. È una specie di mistero. Ma a volte possiamo come toccare questa specie di mistero, e quella è la magia.

 

M.B.: Come se diventata così? Capace di riconoscere la magia…Dipende dalla tua famiglia? Da tuo padre, tua madre?

 

R.K.: Non credo, penso provenga dalle fotografie.

 

M.B.: Hai anche detto che gli incidenti sono necessari, che sono i benvenuti. Qual è il tuo migliore incidente in fotografia?

 

R.K.: Veramente non saprei dire quale sia il migliore, ma questo è un buon esempio. Ho molte fotografie…

 

M.B.: Quindi la domanda più importante da fare è: fai in modo che gli incidenti accadano?

 

R.K.:Non lo so, è una cosa che succede e basta. Forse credo che se proprio mi concentro su un soggetto, allora succede.

 

M.B.: Hai avuto quest’esperienza?

 

R.K.: Si.

 

M.B.: Imparare che gli incidenti possono essere una bella cosa, ti rende più sicura di te stessa nella vita? Meno spaventata di fare errori con le persone, con te stessa?

 

R.K.: Qualcosa del genere...ma non dura per sempre. Per questo continuo a fotografare

 

M.B.: Perché la fotografia ti aiuta?

 

R.K.: Sì.

 

M.B.: Puoi farci un altro esempio?

 

R.K.: Quando fotografo, sento veramente di trarre energia dal soggetto.

 

M.B.: Dall’attimo del fotografare?

 

R.K.: Sì ma anche dal soggetto. Mi sembra come se ci fosse un momento di condivisione fra me e il soggetto.

 

M.B.: Il soggetto può essere una pietra?

 

R.K.: Sì.

 

 

M.B.: Ma tutto ciò ha a che fare con la concentrazione. Col focalizzare. Vorrei sapere come funziona veramente. Cosa succede? È una cosa immediata o passa attraverso delle fasi?

 

R.K.: Non ho bisogno di passare attraverso delle fasi, solo di concentrarmi.

 

M.B: Tu lavori in pellicola. Dimentichi l’immagine nel tempo che passa fra la fotografia e lo sviluppo della pellicola?

 

R.K.: A volte la ricordo, a volte la dimentico. Dipende dalla situazione.

 

M.B.: Sono sicuro che ricordi sempre il momento in cui ti focalizzi sulla cosa, l’atmosfera in cui hai realizzato la fotografia.

 

R.K.: Non tutto, a volte mi dimentico, come quando sono ubriaca...

 

M.B.: Conosco la sensazione! Cosa riesci a sentire, ad ascoltare, quando fotografi? Puoi sentire una voce? Della musica? Puoi sentire il silenzio?

 

R.K: Se sono veramente concentrata e in una situazione veramente bella, non sento niente.

 

M.B.: Hai dei momenti così, come quando non senti niente, anche nella vita quando non fotografi?

 

R.K.: Quando sono un po’ nervosa, come prima di una presentazione. Non in questo caso! Questa volta sono veramente a mio agio!

 

M.B.: Proprio prima di fotografare, trattieni il respiro?

 

R.K.: A volte.

 

M.B.: E poi ho letto che fotografare risponde al tuo istinto di caccia, Moriyama nel suo famoso libro Hunter, uno dei suoi primi libri, andava a caccia delle vie della città. Tu cosa cacci?

 

R.K.:  Sono completamente d’accordo. Quando fotografo sono proprio come una cacciatrice.

 

M.B.: Ma di cosa vai a caccia? Di passerotti?

 

R.K.: Ma solo con la mia macchina fotografica! Devo anche dire che quando fotografo, anche se non muoiono, mi sembra come se avessi sparato a loro. Dopo lo scatto, stampo sempre da sola, ed è un po’ come cucinare. Mi porto un passerotto a casa e lo cucino!

 

M.B.: Tornerò più tardi suIla questione del cucinare, ma prima la tua esperienza con il passerotto. E quando sono persone? Hai lo stesso senso della caccia? Loro non puoi cucinarle!

 

R.K.: Bella domanda! È un po’ diverso. Se devo fare un ritratto, credo che il punto importante sia la condivisione, non lo scatto. Bisogna condividere l’atmosfera.

 

M.B.:  Ma anche il momento della fotografia?

 

R.K.: Sì.

 

M.B.: È molto importante. È solo la condivisione di un sentimento o s’instaura anche una conversazione?

 

R.K.: È difficile avere una conversazione, perché a volte devi fotografare qualcuno che hai conosciuto solo dieci minuti prima.

 

M.B.: Ho un’altra domanda, forse poi torneremo su questo punto, perché anch’io penso che sia veramente importante l’idea di condividere il momento con coloro che fotografi, anche se solo per un secondo o per tutto il giorno. Questa domanda riguarda la transizione. Abbiamo tutti dei momenti di transizione, quando si viaggia per esempio, o quando si passa dall’esser tristi all’essere felici. Fotografi durante quei momenti di transizione?

 

R.K.: Penso di sì. Nella mia famiglia per esempio.

 

M.B.: Forse quello che voglio dire, è che più che un piano, entra in gioco una reazione.

 

R.K.: Posso dire di sì come di no. Voglio dire che quando fotografo seguo sempre il mio istinto.

 

M.B.: E lo hai fatto da subito, da quando hai iniziato a fotografare?

 

R.K.: Sì.

 

M.B.: E ora che hai molti anni di esperienza, sta cambiando?

 

R.K.: No.

 

M.B.: Quando si guardano le tue foto è molto chiaro il fatto che tu sia toccata dagli oggetti. Qual è il segreto di un oggetto?

 

R.K.: È una domanda difficile. Potrei dire di nuovo che è lo stesso tipo di mistero di quando pensiamo a perché stiamo vivendo ora o perché questo bicchiere è qui.

 

M.B.: Ma gli oggetti vivono?

 

R.K.: Sì.

 

M.B.: Come?

 

R.K.: Semplicemente co-esistono.

 

M.B.: In Cui Cui fai spesso coesistere gli oggetti con le persone. Sono in dialogo fra loro?

 

R.K.: Non credo. Semplicemente co-esistono.

 

M.B.: E si equivalgono?

 

R.K.:  Sì, perché entrambi vivono su questa terra.

 

M.B.: Nella tua fotografia – forse è una domanda semplice, ma c’è qualcosa da dire al riguardo - gli oggetti sostengono le persone? E le persone sostengono gli oggetti?

 

R.K.: Penso di sì.

 

M.B.: Non sono in lotta! Ma quando vedo le tue fotografie e i tuoi libri, io vedo delle belle fotografie una diversa dall’altra, non si assomigliano. Ma la cosa che mi tocca di più è che non sono in lotta, è quasi come se fossero pesci. Il tuo linguaggio fotografico è molto personale e molto leggero, è anche molto originale e molto…Rinko. Vedi dei cambiamenti da quando hai iniziato?

 

R.K.: Non credo.

 

M.B.: Vorresti cambiare qualcosa?

 

R.K.: Posso migliorare...

 

M.B.: Certo non è quello che intendevo! Credo che non ci sia nessuno in questa stanza che creda tu abbia bisogno di migliorare.

 

R.K.: Dentro voglio dire. La mentalità.

 

 

M.B.: E il linguaggio può cambiare a causa di tutto quello che ti succede nella vita?

 

R.K.: Forse.

 

M.B.: Forse lo sa quel passerotto...Tornando al linguaggio, vorrei parlare di Takuma Nakahira come un fotografo importante per te. Ho una domanda per te su di lui, ma prima vorrei introdurre l’argomento. Nakahira faceva parte di un movimento, Provoke, che nei tardi anni ‘60 è stato anche una rivista, e ha provato a ristrutturare la fotografia passando dalla documentazione a una forma di maggiore espressione personale. Naturalmente questa è una spiegazione molto riduttiva. Mentre Moriyama pubbicava il suo libro Good Bye Photography, Nakahira pubblicava il suo For a Language to Come. Good Bye Photography, di Moriyama, era come un film, come un’esplosione sul solco di quella che era allora la recente tradizione di William Klein e For a Language to Come è andato ancora più a fondo in una direzione filosofica e poetica e con delle grandi aspettative per un nuovo e diverso linguaggio fotografico che il futuro avrebbe riservato. Hai mai incontrato Nakahira e gli hai dato uno dei tuoi libri?

 

R.K.: Non l’ho mai conosciuto!

 

M.B.: E non pensi che sia arrivata l’ora?

 

R.K.: Non mi è ancora capitato!

 

M.B.: È dal 1972 che sta aspettando nuovi linguaggi! Che cos’è il linguaggio fotografico per te e magari anche in generale all’interno della fotografia?

 

R.K.: È una domanda veramente molto difficile! Vorrei semplicemente dire che la fotografia è come una metafora del nostro subconscio.

 

M.B.: E il linguaggio proviene anzitutto dal nostro subconscio?

 

R.K.: Credo di sì.

 

M.B.: Più che la tecnica o lo stile?

 

R.K.: Penso che il linguaggio sia la cosa più importante. Né la tecnica, né il soggetto. Almeno per quanto mi riguarda.

 

M.B.: Ma è un bel parametro, è una bella cosa che il subconscio possa comunicare attraverso un tale strumento. Quasi un paradosso, no?

 

R.K.: Si!

 

M.B.: Vorrei spostare un poco l’argomento sui tuoi libri, ma prima voglio far vedere il tuo Cui Cui. Ciò che rende così speciale questo libro è che a volte mi sembra come se stessi guardando una storia, e ogni volta che lo vedo, e non appena penso a quest’aspetto, tu fai qualcosa che interrompe la storia. Forse non è l’espressione migliore, non interrompe la storia, ma ti muovi su un piano differente che non appartiene alla storia.

Rinko, tu sei chiaramente una fotografa non lineare, ma poi, specialmente in questo libro, ho come l’impressione di guardare una storia, per poi avere la sensazione che la storia demolisca se stessa, e diventi qualcosa di diverso. Forse, legata a questa storia ce n’è un’altra. La mia domanda è - magari non è una domanda molto specifica, perdonami! - come hai costruito questo libro?

 

R.K.: Vuoi dire la sequenza?

 

M.B.: Sì, ma non solo!

 

R.K.: All’inizio ho chiesto a un designer di fare la sequenza, e ho portato quattrocento foto al nostro primo incontro. E lì lui mi ha detto che avrei dovuto fare la sequenza da sola, io gli ho detto di no, che faccio sempre da sola le mie sequenze, ma questa volta no perché il soggetto è la mia famiglia. È stato piuttosto difficile fare la sequenza, perché se ci avessi provato, avrei pianto tutto il tempo, non potevo farlo.

 

M.B.: Cosa c’è di sbagliato nel piangere?

 

R.K.: Penso sempre che nel fare una sequenza devo restare calma, devo mantenere una distanza dalle mie immagini e con me stessa. In ogni caso, il designer mi ha detto che avrei dovuto farlo, e io sono tornata a casa e ho pianto. E dopo è stato un lavoro molto duro. Poi, più o meno due settimane dopo sono tornata dal grafico e lui mi ha detto: è pronto!

Non ho seguito un ordine cronologico intenzionalmente, e a volte ho incluso vecchie e nuove foto perché per me è una cosa reale, come i miei sentimenti. A volte confondo vecchi ricordi con nuovi ricordi. Soprattutto quando è morto mio nonno ho fatto veramente confusione con la memoria. E poi ho voluto manifestare i miei sentimenti, questo è il motivo per cui ho fatto la sequenza così.

 

M.B.: Questo è veramente un problema anche per i fotografi, che livello personale puoi raggiungere, quanto da vicino puoi fotografare e raccontare le tue storie. Siamo anche tutti diversi, alcuni possono dire molto con foto oggettive, più distanti, altri posso dire altrettanto avvicinandosi molto, anche alle emozioni. Anche questo fa parte della fotografia, no?

 

R.K.: Anche questa è una domanda molto difficile. Vorrei semplicemente dire che, quando fotografo, se non sento niente, ho sempre l’impressione che verrà fuori una cattiva fotografia, ma se sento qualcosa, sarà una buona fotografia.

 

M.B.: Rinko, tu stampi da sola le tue fotografie, le metti a terra per vedere la sequenza e trovare le combinazioni. Hai un pavimento abbastanza grande?

 

R.K.: Non abbastanza! Di solito i giapponesi non hanno molto spazio.

 

M.B.: Perché il vero modo di editare è di mettere le foto a terra, non di guardarle al computer!

 

R.K.: Io lo faccio così!

 

 

M.B.: Inizi questo processo già prima di finire di fare foto per un certo libro?

 

R.K.: Dipende. Per esempio, per il mio primo libro, Utatane, ho fatto foto tutti i giorni, ho stampato tutti i giorni, ho fatto tutto allo stesso tempo.

 

M.B.: Questo processo influenza il tuo modo di fare fotografie? Le tue fotografie?

 

R.K.: Penso di sì.

 

M.B.: Quindi in una certa maniera stai insegnando qualcosa a te stessa...

 

R.K.: Si.

 

M.B.: Trovi delle sorprese sul pavimento? Ti indirizzano nella costruzione del libro?

 

R.K.: Si, e a volte le immagini sono come delle guide.

 

M.B.: Fai mai dei dummies?

 

R.K.: Si ma non sono esattamente dummies, raccolgo le foto in dei quaderni ad anelli.

 

M.B.: La mia domanda successiva stava per essere: fai dei dummies veloci o dei begli oggetti? Ti fai dei regali quando realizzi dei dummies?

 

R.K.: No, non regali. Di fondo cerco di tenere le cose insieme nella maniera in cui voglio vederle, senza preoccuparmi particolarmente del layout.

 

M.B.: Trovo che i dummies siano il più bel regalo che uno si possa fare, dopo vent’anni, guardando indietro, vedi tutto il processo che hai seguito.

 

R.K.: Sono d’accordo. Quand’ero più giovane ho fatto dei dummies: mettevo le fotografie su carta e facevo dei quaderni solo per me e a volte guardo quei dummies e mi ricordano di quel periodo, di quando ero più giovane, di cosa pensavo e sentivo, come un momento.

 

M.B.: Potrei parlare di dummies per ore. Lo fai da sola o chiedi aiuto a qualcuno per l’editing e il layout?

 

R.K.: Di solito no, a volte lo faccio vedere al mio compagno, al mio designer o al mio editore e chiedo loro cosa ne pensano.

 

M.B.: E le loro risposte modificano il libro?

 

R.K.: Non credo proprio!

 

M.B.: Il momento di decidere che il libro è finito, quando è veramente finito, è un momento terribile per te?

 

R.K.: No, no, sono contentissima!

 

M.B.: A mio avviso, la maniera in cui componi i libri non è lineare: non cerchi di dare spiegazioni e nell’agire in questo modo lasci libero chi guarda. Ognuno può costruire la sua storia personale, non è così?

 

R.K.: Sì, sono d’accordo.

 

M.B.: Ti domandi quali storie le persone costruiscono per sé?

 

R.K.:Non m’interessa!

 

M.B.: Sei mai rimasta sorpresa dalle storie costruite dagli altri, da una loro interpretazione?

 

R.K.: A volte. Per esempio, a volte faccio degli incontri, delle conversazioni come questa, e dopo chi mi ha visto mi dice che pensava che fossi una persona più sensibile, non così forte: “Sei forte, ma più gentile nel mio immaginario”.

 

M.B.: Cambiando argomento, ho lavorato con Miyako Ishiuchi. Miyako ha più o meno sessant’anni e anche lei ha pubblicato tre libri quando era piuttosto giovane e nel giro di pochi anni, cosa che ho trovato come un’esplosione incredibile. Questi libri sono Yokosuka Story, Apartement e Endless Night, ora dei classici come libri fotografici. Quando parliamo, immagino questa giovane donna che corre in un mondo di uomini, fotografando, stampando, facendo editing e layout, cercando soldi, preparando mostre...Puoi raccontarci come Rinko ha vissuto la sua vita quando tu hai fatto esattamente lo stesso, ma concentrato in un anno?

 

R.K.: I tempi cambiano e immagino che per la sua generazione debba essere stato veramente duro essere una fotografa. Forse per la nostra generazione è un po’ più semplice sopravvivere. Nel mio caso, avevo alcune idee per fare un libro. E ho avuto la fortuna di pubblicarne tre allo stesso tempo. Sono stata semplicemente fortunata.

 

M.B.: Tu chiami l’atto del fotografare, stampare ed editare un “susseguirsi di scoperte”.

 

R.K.: È una delle cose importanti per un fotografo.

 

M.B.: Questo significa che tu non puoi fissare le tue idee fin dall’inizio?

 

R.K.: Una volta ancora ci tengo a dire che all’inizio voglio seguire il mio istinto.

 

M.B.: Per te è più facile fare una mostra o un libro, o è la stessa cosa?

 

R.K.: Non credo ci siano differenze, in entrambi i casi le fotografie devono essere forti.

 

M.B.: Qual è la differenza fra un libro e una mostra?

 

R.K.: Penso che il libro sia una cosa più intima, mentre una mostra è più per il pubblico. La mostra è il risultato di una collaborazione fra il posto (museo o galleria...) e me.

 

M.B: Leggendo di te su internet, ho deciso che questa bella libertà così intima nel leggere un libro, nel guardare un libro, merita un nome. Potrebbe essere Dragonball?

 

R.K.: Quando ero piccola, leggevo il fumetto di Dragonball e di colpo mio fratello interrompeva la mia lettura perché voleva veramente leggere una nuova storia. Io non volevo essere interrotta, perché mi divertivo così tanto insieme a Dragonball, stavamo proprio bene. Questo è il motivo per cui mi piace così tanto la forma libro, è come un mondo di Dragonball dove concentrarsi. Voglio semplicemente dire che io e i libri abbiamo una relazione d’intimità.

 

M.B.: La fotografia dovrebbe essere spinta verso una direzione di maggiore intimità rispetto a quanto succede ora?

 

R.K.: Penso di sì.

 

M.B.: Come?

 

R.K.: Per esempio, quando leggo dei libri, in quel momento posso andare in un altro mondo.

 

M.B.: Potrei anche parlare per ore del fatto che credo che la fotografia dovrebbe avere un carattere più intimo. Ho altre due domande. Facevi fotografie quando eri molto giovane?

 

R.K.: Cosa intendi?

 

M.B.:  All’età di Dragonball!

 

R.K.: Ho iniziato a fotografare quando avevo diciassette anni.

 

M.B.: Avresti voluto fare fotografie quando eri molto giovane?

 

R.K.: Avrei voluto, ma in quel periodo non avevo una macchina fotografica.

 

M.B.: Ne ero convinto. Per me il tuo lavoro è molte cose, tocca molte cose senza escludere niente. E poi è totalmente pieno di significato e leggero allo stesso tempo. La mia ultima domanda è la sola cosa che mi chiedo: lo possiamo considerare anche un unico grande autoritratto?

 

R.K.: Penso che si possa dire qualcosa del genere…

 

M.B.: Rinko, grazie mille per quest’intervista!

 

Pubblico: Cosa significa Cui Cui?

 

R.K.: Viene dal francese: è il verso dei passerotti. In giapponese “chun chun”. È una metafora della mia famiglia. La mia famiglia non è speciale, è semplicemente normale. È facile vedere famiglie normali nel mondo. Come è facile sentire il verso dei passerotti in giro per il mondo. Non importa che si stia in Giappone o in Europa.

 

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