Indagine su un cittadino

14 Giugno 2013

Più che una recensione, quelle che seguono sono alcune osservazioni suscitate dalla visione su grande schermo di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che dopo un breve passaggio nei cinema italiani lo scorso aprile, viene riproposto lungo tutto il mese di giugno presso lo Spazio Oberdan della Cineteca Italiana di Milano.

 

 

Cosa rimane di un film così profondamente ancorato all'attualità dell'epoca in cui fu girato?Innanzitutto, è singolare il destino critico di un regista come Elio Petri, detestato in vita tanto dalla critica filo-maoista (celebri le stroncature di Goffredo Fofi), quanto da quella più strettamente cinefilo-autorialista. Un'ostilità della critica che non pregiudicò peraltro l'esito commerciale del film, che con un incasso di quasi due milioni lire risultò essere uno dei più visti in Italia durante la stagione 1969-70 - senza contare i premi raccolti in giro per il mondo, dal Gran Premio della Giuria a Cannes fino all'Oscar come miglior film straniero nel 1971. Un successo basato del resto su quelle stesse componenti che ne decretarono l'insuccesso presso la critica: ibridazione tra l'impegno politico e il meccanismo "di genere" (il poliziesco), le intemperanze stilistiche, il ricorso ad attori di richiamo (Volonté, icona del cinema engagé, e la Bolkan, all'epoca sulla cresta dell'onda). Si accusava insomma Petri di fare semplice "cinema politico" invece di realizzare un film "in modo politico", secondo la nota formulazione di Godard.

 

 

A distanza di anni, di quelle furibonde discussioni rimane ben poco. Al contrario, Petri è divenuto egli stesso un termine di paragone: il suo nome è ad esempio quello che ricorre certo più di frequente scorrendo le recensioni (positive e negative) de Il Divo di Paolo Sorrentino (2008).
Guardando Indagine su un cittadino oggi, colpisce piuttosto lo stile “barocco” della regia, che alterna carrelli e gru all'uso martellante dei movimenti ottici: la sequenza iniziale, tanto per fare un esempio, si apre con un rapido movimento della macchina da presa che, nel seguire il protagonista di spalle, si trasforma in un veloce zoom verso la finestra dell'appartamento in cui l'amante-vittima lo attende; o, più avanti nel film, nella scena del celebre discorso programmatico del commissario (“La repressione è civiltà!”) dopo aver carrellato lateralmente sull'assemblea, la macchina da presa si solleva verso l'alto per concludere il proprio movimento con l'ennesimo zoom in avanti sul conferenziere; oppure ancora, durante la relazione sulle impronte digitali, il movimento ondivago della camera sembra simulare l'occhio del protagonista, che però vediamo alla successivamente entrare in scena e infine stramazzare al suolo.
Analogo eclettismo si respira nell'ambientazione, una Roma dove l'antico (il Pantheon) convive con il modernista (il palazzo in stile Liberty in cui avviene l'omicidio) e con il razionalista (gli uffici della polizia, l'abitazione del commissario).

 

 

Un film continuamente “scisso”, insomma: tra impegno politico e tentazioni estetizzanti (quando non addirittura caricaturali, applicate indifferentemente a poliziotti e studenti contestatori), struttura “classica” e sussulti modernisti (il finto sfarfallio, gli stacchi netti),  rigore della denuncia e esigenze di mercato. Perfettamente adatto dunque a ciò che racconta: la psicologia patologicamente scissa di un repressore-represso, combattuto fra l'ossessione di far trionfare la Legge (che lui vorrebbe immutabile, “scolpita nel tempo”), e l'ambizione superomistica di dimostrare come l'uomo di Potere risulti, nei fatti, assolutamente intoccabile da quella stessa Legge. Uno sdoppiamento proclamato a gran voce, gridato, ribadito non solo dal protagonista (un Gian Maria Volonté più che mai sopra le righe) ma, come abbiamo visto, dallo stile stesso del film. Passano quasi in secondo piano, perciò, sia la visualizzazione orwelliana del Potere, con quei faldoni e quei  calcolatori meccanici che nell'era della digitalizzazione suonano irrimediabilmente obsoleti; sia la goffaggine con cui Petri (e Ugo Pirro, suo complice nella sceneggiatura) infarciscono di citazioni e allusioni “colte” il corpo del film, da Brecht a D'Annunzio, dalla Pop Art a Kafka.

 

Messa in scena e racconto: credo stia in questi due elementi e nella loro indistricabilità, il fascino duraturo, ormai quarantennale, che Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto esercita sullo spettatore.
 

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