Cannes 2 | Politiche del corpo
Nell’ Acinéma del 1973 Jean-François Lyotard teorizzava l’esistenza di un cinema anti-narrativo e anti-spettacolare, in grado di interrompere la logica della rappresentazione secondo cui l’immagine doveva essere sottomessa alle esigenze illustrative e alla messa in scena di un testo. Il registro visivo insomma – è un tema molto caro anche al Godard di quegli anni – doveva resistere alla tentazione ancillare di farsi strumento di traduzione in immagine del linguaggio. Il problema di questa posizione, tuttavia, è che è l’immagine stessa nel cinema che tende a strutturarsi quasi inevitabilmente come un linguaggio, proprio perché è formata da una "articolazione di immagini" come nella sintassi linguistica: se all’immagine A noi facciamo succedere l’immagine B, come accade sempre se vogliamo creare l’illusione del movimento in una sequenza di immagini, è impossibile che la seconda non faccia già minimamente da interpretazione della prima. Che cioè non esponga qualcosa della prima e non qualcosa d’altro: che selezioni all’interno dell’immagine A alcuni elementi significanti a discapito di altri. Il visivo, insomma, al cinema è sempre inevitabilmente attratto dal senso e dall’articolazione significante, e per provare a creare un’interruzione invece che un “di più” di senso tra le immagini è necessario che qualcosa di questa catena di interpretazioni e significazioni venga arrestato. È per questo che Lyotard si accorge che un cinema che vuole resistere dal diventare strumento subordinato del linguaggio non può che essere abitato dalla tentazione di un ritorno alla fotografia. È la fotografia – o quella che per Godard sarà la dimensione pittorica dell’immagine – che rompe i nessi significanti e crea al posto della continuità del senso, la discontinuità della contraddizione.

In Sound of Falling di Mascha Schilinski (concorso) – forse la più grande sorpresa di questi primi giorni di festival – vediamo una bambina di nome Alma in un periodo che potrebbe essere l’inizio del XX secolo guardare una fotografia e chiedere alla sorella: “Ma quella assomiglia alla mamma?”. “No Alma, quella è la mamma”. “E la bambina lì sotto che sta tra le mani della madre chi è?” “Quella è Alma” le dice la sorella. Scopriremo infatti che Alma nasce poco dopo che una sorella del suo stesso nome era morta prematuramente, e come si usava fare una volta il nome della sorella morta era stato ereditato dalla nuova nata. Alma vede quindi nella fotografia non solo il doppio fantasmatico della madre - quella figura assomiglia o è la madre? – ma anche un fantasma di lei stessa da morta. E infatti, secondo un’usanza effettivamente piuttosto macabra, la famiglia di Alma in questo film è solita fare delle fotografie di famiglia con i defunti messi in posa come se fossero ancora vivi. Una sorta di raddoppio del fotografico: non solo nella forma d’immagine (la vita arrestata morta in forma d’eternità) ma anche in una quasi-imbalsamazione del morto come se fosse ancora vivo. Il fotografico in effetti non solo rompe l’articolazione del senso e il nesso tra il visivo e il significato, come sosteneva Lyotard, ma introduce anche la dimensione del fantasmatico, una sorta di condizione precedente all’articolazione temporale dove presente, passato e futuro si confondono l’uno nell’altro.
In effetti Sound of Falling è un film dove i quattro principali assi temporali (i primi anni del secolo, l’immediato secondo dopoguerra, la DDR della fine degli anni Settanta e la Germania riunificata di oggi) si richiamano continuamente l’uno con l’altro attraverso quattro personaggi femminili – Alma, Erika, Angelika e Lenka – e un unico luogo geografico: un casolare nella campagna tedesca dell’Altmark lungo il fiume Elba (attorno a quello che sarà il confine tra l’Est e l’Ovest). Il film però non si struttura attraverso un andamento verticale, dove i richiami tra una storia e l’altra (che pur ci sono, dato che alcuni personaggi si trovano in due diverse linee temporali) avvengono attraverso la narrazione, ma semmai ellittico e (per una volta questo termine abusato è calzante) rizomatico. A ritornare sono alcuni significanti – come “vivere una vita invano” – o alcuni gesti, con quello del pizzicotto su una mano che è come se legasse in una forma inafferrabilmente spirituale sia il gesto della bisnonna di Alma che molti decenni dopo i morsi delle anguille della madre di Angelika, che le impediranno di nuotare dall’altro lato della cortina di ferro in un momento topico della sua vita.

Perché se il vero tema di Sound of Falling è la memoria – e come potrebbe non esserlo un film che si svolge lungo più di un secolo? – si tratta non di una memoria mentale o puramente simbolica, ma corporea e reale. O appunto fantasmatica, dato che il film riesce a passare indifferentemente da eventi empiricamente accaduti, a volte anche storici come il reclutamento forzato durante le Prima Guerra Mondiale, ad altri unicamente immaginati e che pure esistono persino di più. Non è una contraddizione: il corpo è infatti un luogo eminentemente fantasmatico in questo film. Basterebbe vedere la sequenza iniziale dove Erika, una giovane ragazza di poche parole, si finge mutilata e prova ad andare in giro con delle stampelle legandosi una gamba su sé stessa solo per provare a vedere che cosa provi uno zio dal quale è stranamente affascinata (e che è stato azzoppato volontariamente dai genitori proprio per evitare di andare in guerra). Il film mostra come i dolori di quella gamba mutilata continuino a esistere anche in sua assenza: come se il dolore del corpo esista in uno spazio-tempo che non è quello dell’empiria o della biologia, ma appunto del fantasma.
Mascha Schilinski, il cui primo film Dark Blue Girl era passato a Berlino nel 2017, dimostra con questa sua seconda pellicola non tanto di aver indovinato la storia giusta quanto di padroneggiare un vero e proprio lessico filmico, fatto oltre che da questo gusto per il fantasmatico anche da punti di vista della macchina da presa sempre mediati da ostacoli, spioncini e da un uso della cornice interna al quadro che produce un effetto de-naturalizzante e “teorizzante”. E infatti Sound of Falling anche se risulta essere in definitiva un film femminista – perché ci mostra il destino di una pluralità di personaggi femminili lungo diversi decenni, connessi tra loro ma in definitiva separati e distanti – lo è molto di più attraverso il suo linguaggio fantasmatico che non attraverso il suo oggetto. E in questo senso si presenta come un’alternativa al modello di film militante dominante degli ultimi anni, alla Titane o alla Substance, riportando la dimensione linguistica/formale al centro della scena. D’altra parte, e lo sapeva bene Benjamin, quella parte che nella società non ha alcuna parte (ed è vero della differenza sessuale così come dell’antagonismo di classe) non può che avere lo statuto di un fantasma. Cioè di un’esistenza che è solo a-venire. Che poi è forse il registro più proprio del cinema stesso.

L’altro colpo di fulmine di questi giorni è stato invece O Riso e a Faca (letteralmente “La risata e il coltello”, anche se il titolo internazionale è l’altrettanto bello I Only Rest in the Storm) del regista portoghese Pedro Pinho, passato nella sezione Un Certain Regard. Si tratta di un’opera seconda (per lo meno per quanto riguarda i lungometraggi di finzione, anche se Pinho è autore già di diversi documentari e corti) dopo che il suo esordio A Fábrica de Nada aveva impressionato un po’ tutti nel 2017 alla Quinzaine con una delle rappresentazioni più interessanti ed efficaci della crisi economica del 2008. Questa volta Pinho volge lo sguardo sulla condizione neo-coloniale contemporanea di un paese africano, la Guinea-Bissau, e per farlo adotta il punto di vista di un osservatore esterno. Si tratta di un ingegnere portoghese che deve andare a fare una valutazione di impatto ambientale per una grande opera alla cui costruzione sta lavorando una grande multinazionale cino-brasiliana: un’autostrada che dovrebbe tagliare a metà il paese e collegare il deserto vicino al mare con la giungla dell’entroterra orientale. Ma il protagonista non è il classico colonizzatore convinto della superiorità del modello di sviluppo occidentale: è un mezzo fricchettone di sinistra, che vorrebbe fare le cose per bene, rispettando le comunità locali e cercando di considerare criticamente le conseguenze della presenza delle NGO europee. Sergio – questo il nome sia del personaggio che dell’interprete Sérgio Coragem – è rappresentato come un’anticonformista, dato che arriva in Guinea-Bissau in auto con un lungo viaggio dal portogallo e cerca già dall’inizio di rapportarsi in modo aperto alla comunità locale. È a una festa a cui capita un po’ per caso che fa la conoscenza di due carismatiche figure locali, la giovane donna Diara (Cleo Diára) e il queer Gui (Jonathan Guilherme), con i quali Sergio inizia un lungo gioco di seduzione, ma a cui i due rispondono dandogli una fiducia solo parziale.
Si scopre ben presto che il predecessore di Sergio – un italiano che aveva avuto una relazione con una donna locale – è scomparso in circostanze misteriose, e che diversi soggetti, sia internazionali che della nascente borghesia locale, hanno molti interessi a fare sì che questo rapporto di impatto ambientale arrivi in fretta, concedendo alle imprese ogni libertà di portare a termine il progetto. Sergio si trova così stretto tra il suo umanitarismo generico e le spaccature interne della società guineana, dove i giovani urbani sono a favore del nuovo progetto ingegneristico mentre gli anziani e tutti quelli che vivono di agricoltura di sussistenza fuori dalle aree urbane sono contrari. E dunque che tipo di personaggio è Sergio? È un buono, che però si è trovato invischiato in interessi economici più grandi di lui? È un ipocrita che cela il suo neo-colonialismo con qualche spruzzata di etica del buon senso? O è uno che esotizza il paese africano nel quale si è trasferito?

Nonostante Pinho abbia, esattamente come in A Fábrica de Nada, un grande talento per i registri polifonici e per inserire degli innesti saggistici nel suo film (memorabile è la figura del giovane e rampante nouveau riche guineense che nel mezzo di una festa in un bar spiega a Sergio che cos’è l’accumulazione originaria) stavolta la verità non la dirà Marx, come nel suo film precedente, ma Freud. Cioè la verità non è in quello che Sergio dice sul lavoro, ma in quello che fa nella sua camera da letto: da uno stupefacente dialogo con una prostituta di un bordello (che lui da bianco “etico” vorrebbe salvare e a cui lei risponde con un monologo sulla politica sessuale del neocolonialismo bianco) ai tentativi di seduzione di Diara (e anche di Gui) che prima lo rifiuta, poi lo asseconda solo parzialmente, e alla fine lo inchioda a una posizione di cuckold/voyeur durante un rapporto sessuale che lei ha con un altro uomo. Mentre Sergio è tormentato dai suoi dubbi etici per via del suo ruolo nella rete di interessi economici e politici da cui è schiacciato (dove la sua posizione è quella del nevrotico incapace di decidere), la politica si mostra innanzitutto come politica sessuale (dove invece la verità del suo desiderio emergerà in tutta la sua chiarezza). E nella girandola di party e feste che coinvolgono sia la comunità di internazionali espatriati e membri di NGO, che la nascente borghesia locale, Sergio entra in una spirale di pratiche di godimento sempre più spinte a cui consegna la sua paralisi. E dalle quali emerge nitidamente la sua esclusione dalla rete dei desideri locali. Come a dire che il neocolonialismo euro-cinese può costringere i paesi africani emergenti a intraprendere una via allo sviluppo che non gli appartiene e che o non funzionerà o avrà effetti deleteri; ma non potrà mai costringerli a desiderarli.
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