Cannes 3 | La resurrezione del cinema
Lasciamo per un attimo da parte il giudizio di valore che si potrebbe dare dell’edizione del festival del cinema di Cannes di quest’anno e dei suoi premi – secondo molti critici, e noi siamo tra questi, è stata una delle edizioni più ricche e interessanti da diversi anni a questa parte – e proviamo a ragionare in modo sintomatico su alcune tendenze viste durante le proiezioni di queste due settimane.
Tra massimalismo e minimalismo
Innanzitutto la crisi del cinema americano, che in questa congiuntura storico-politica non può non diventare allegoria di una crisi più generale di quel patto sociale e di quella cultura. Nei film visti a Cannes si è avuta l’impressione di un cinema americano sempre più ripiegato su sé stesso e sempre più ipnotizzato dai propri riferimenti ideologici interni e dalla provincialità del proprio ordine del discorso. Emblematico in questo senso è stato il destino di Eddington, uno dei film più attesi della vigilia e uno di quelli che ha preso più esplicitamente la via della propria ombelicalità. Il film è il tentativo di Ari Aster di infilare dentro una pellicola di due ore e mezza, ambientata in un piccolo paesino del New Mexico, tutti i tropi ideologici che hanno caratterizzato gli Stati Uniti degli ultimi anni. E quindi il Covid, le teorie del complotto, Black Lives Matter, i discorsi sul privilegio bianco, l’America MAGA, i meme, Fox News, i podcast di destra alla Joe Rogan e così via. Il film vorrebbe essere una diagnosi del ressentiment americano all’epoca del secondo Trump ma è attraversato da una delle tante contraddizioni fondamentali di questa atmosfera ideologica, dove tutto è a un tempo immediato, iper-emotivo, parossistico, sopra le righe, ma anche iper-mediato perché preso in un dedalo di riferimenti, inside joke, interpretazioni "meta" da rendere ogni discorso pressoché inintelligibile da chi non è completamente intriso di cultura americana.

Eddington non è soltanto un film mediocre e politicamente ambiguo: è soprattutto un sintomo di una certa piega che sta prendendo il cinema americano contemporaneo, che è sempre più plasmato dal mondo online e da quell’ordine simbolico “a bolle” dove ogni enunciato culturale riesce a essere se stesso e il proprio contrario in una proliferazione di riferimenti e oggetti ideologici che spesso diventano labirintici e centrifughi (in questa sua iper-contemporaneità Eddington ci ha fatto pensare a due recenti controversi film indie americani: www.rachelormont.com di Peter Vack, e The Code di Eugene Kotlyarenko). Ma molto simile è anche Highest 2 Lowest di Spike Lee, presentato a Cannes Premiere: un remake in chiave black-newyorkese di Anatomia di un rapimento di Akira Kurosawa ambientato nel mondo della musica pop, dove le discussioni tra padri e figli sulla propria popolarità sui social media e sul rischio di essere cancellati sostituiscono i dilemmi morali (e ancora troppo moderni) del film di Kurosawa.
Lee e Aster fanno un cinema della sovrabbondanza significante dove tutto è già segno, tutto è preventivamente interpretato, tutto è già linguistizzato. E non è soltanto il riflesso di un ritorno del proprio inconscio imperiale – per cui la cultura americana viene scambiata come la cultura globale tout court – ma anche di un preciso modo di rapportarsi all’immagine. Sia nel film di Spike Lee che in quello di Ari Aster siamo sommersi da immagini che si riferiscono a qualcosa che avviene al di fuori del testo filmico: immagini che vivono di contesto, di commentario sociale, di riferimenti a una testualità culturale pervasiva dove la chiave per comprendere quello che si vede è sempre da un’altra parte.
In questa struttura di costante rimando, di costante insufficienza dell’immagine a sé stessa, dove – per usare un termine strutturalista – la batteria/struttura di significanti/ immagini deve sempre rilanciare oltre se stessa, il risultato è che di fatto l’immagine viene sottomessa alle esigenze della connessione con il linguaggio, per tornare fatalmente a una nuova condizione di impossibilità di essere interrogata.
E tuttavia, di fronte a questa tendenza, a Cannes abbiamo visto anche l’esatto opposto, come lo splendido film di Christian Petzold Miroirs No. 3. Qui il regista tedesco riduce ancora di più gli elementi della sua messa in scena (in modo ancora più significativo del già scarno Afire) per arrivare ad una struttura narrativa composta da pochissimi elementi significanti. Il film narra la storia di una giovane coppia che sulla strada per una vacanza di lavoro a cui la protagonista Laura stava per partecipare controvoglia, compie un incidente mortale per lui e che getta lei in uno stato di shock soggettivo. A salvarla è una avventrice, che molto presto scopriremo stare a sua volta elaborando il lutto per la perdita di una figlia suicida: è dall’incontro/scontro tra due diverse incompatibili elaborazioni del lutto – lei che cerca una figlia, la giovane che invece cerca una madre – che la storia verrà messa in moto e che le tensioni tra i due protagonisti troveranno una forma per essere espresse.
Il film di Petzold è l’esatto contrario di quello che ha fatto Ari Aster: come se fossimo in un film della Hollywood classica degli anni Quaranta, gli elementi per comprendere l’immagine vengono tutti chiariti allo spettatore nei primissimi minuti del film con una serie di processi di significazione deprivati di alcuna ambiguità. Come se il film si presentasse come un tutt’uno pienamente e definitivamente intelliggibile. Se Eddington ci mostra la dispersione nell’opacità di una giungla di significanti ideologici nella quale siamo immersi, Miroirs No. 3 coltiva l’illusione che il cinema possa essere un luogo dove i processi di significazione e identificazione nei confronti delle immagini, possano ancora avvenire in modo trasparente. Non è che Petzold non si renda conto del mondo dove ci troviamo e del modo in cui oggi le immagini vengano consumate oggi, ma ci pare che la sua convinzione sia quella di fare del cinema – al di là della data della sua morte – un luogo utopico dove l’ambiguità dell’immagine possa essere ancora abitata e controllata in modo proficuo.

Un piccolo incidente
Su una linea similmente minimalista come quella di Petzold, anche se con un grande sguardo politico verso il fuori della politica del presente, c’è stato uno dei più grandi film di questa edizione del festival, giustamente premiato con la Palma d’Oro, e cioè Un simple accident di Jafar Panahi. Anche qui, come in Petzold, il film inizia con un incidente di macchina. Un padre al volante, una donna incinta e una piccola figlia, che ci sembrano di classe agiata, guidano nel cuore della notte di una strada di campagna iraniana. All’improvviso, un piccolo incontro con la contingenza: un animale (un cane?) attraversa la strada e la macchina inavvertitamente lo investe. Un imprevisto di poco conto – appunto, un piccolo incidente – che non sembrerebbe scalfire più di tanto la quotidianità di un giorno come un altro. Eppure l’uomo è sfortunato: la macchina non riesce a ripartire ed è costretto a portarla da un meccanico che è lì sulla strada. Lì c’è Vahid, il gestore dell’autofficina, che viene improvvisamente allertato da un piccolo dettaglio acustico, che rompe la placida quotidianità del presente: un cigolio di una gamba ortopedica che gli ricorda un aguzzino che per mesi l’ha torturato in carcere durante la guerra di Siria. Sarà lui davvero? Oppure si tratta di una coincidenza? È un classico tema panhaiano: l’immagine può essere rivelatrice ma anche ingannevole. E soprattutto: ci possiamo davvero fidare di quello che vediamo di fronte ai nostri occhi? È davvero quest’uomo uno dei criminali e torturatori del regime iraniano oppure è solo l’inganno della mia percezione o forse persino della mia coscienza?
Panahi, dopo il carcere, gli arresti domiciliari, l’impossibilità di girare un film e tutta la lunghissima e nota vicenda che l’hanno visto protagonista negli ultimi anni di uno scontro senza precedenti con il regime, ritorna con un film vero e proprio dopo i piccoli esperimenti clandestini degli anni scorsi. E lo fa con un film straordinario che mette insieme la classica sofisticatezza filosofica e formale che da sempre contraddistingue il cinema iraniano, con un potentissimo pugno nello stomaco politico, che è anche un atto di accusa senza sconti al regime di Teheran. Il film è il confronto con il dubbio sull’identità di questo uomo, ma anche (e forse soprattutto) con la questione etica fondamentale che attraversa ogni militante nel momento in cui i rapporti di forza vengono improvvisamente e incredibilmente rovesciati: cosa faremmo se ci trovassimo di fronte il nostro aguzzino? Gli restituiremmo con gli interessi quello che lui ha fatto a noi (facendoci però diventare inevitabilmente un po’ più simili a lui)? O forse il nostro rapporto con la violenza deve anche prefigurare un percorso di emancipazione da essa?
Come tutti i grandi film Un simple accident lo ricorderemo anche e soprattutto per una scena particolare, che anche in mezzo alle molte ore di visioni che si sovrappongono l’una con l’altra durante due settimane di festival, si staglia indelebile con tutta la sua potenza: il confronto definitivo tra il carnefice legato a un albero in mezzo a una strada di campagna in piena notte e due delle sue vittime. Il tutto illuminato solo dai fari di posizione rossi fuoco (o sangue) di una macchina che li guardano in faccia. Una resa dei conti che però non serve tanto a svelare la risoluzione narrativa di una vicenda particolare, quanto a drammatizzare un conflitto universale. Che la geniale conclusione del film rimanderà indietro a noi in tutta la sua ambiguità dialettica.
La memoria di Kleber
Il premio alla regia è andato invece meritatamente al regista brasiliano Kleber Mendonça Filho, di cui parlammo già due anni fa per lo splendido Retratos fantasmas, con il quale quest’ultimo O Agente Secreto è in effetti strettamente imparentato. Il cinema del regista di Recife ha da sempre una struttura autoreferenziale, piena di rimandi interni, e di temi ricorrenti: la memoria, gli intrecci tra la storia collettiva e quella personale, e naturalmente il ruolo dell’immagine e del cinema. Apparentemente, O agente secreto, dovrebbe avere la struttura di una spy story, e così pare quanto meno per tutta la prima parte del film incentrata sul più classico dei McGuffin: il ritrovamento di un oggetto enigmatico fatto per mettere in moto l’azione. In questo caso si tratta di una gamba pelosa rivenuta nel ventre di uno squalo all’Istituto Oceanografico di Recife (scopriremo poi che si tratta di una leggenda metropolitana, o comunque non verremo mai a sapere davvero che storia c’era dietro alla gamba).

Il protagonista Marcelo è un ingegnere che torna a Recife per ricongiungersi con il figlio durante i gironi del carnevale del 1977 (ci saranno quasi cento morti, una cosa che Mendonça Filho ci dice essere normale per quegli anni). In realtà attorno al protagonista, c’è una comunità di “rifugiati”, che si lascia intendere essere un gruppo di militanti comunisti – messi fuorilegge, insieme ai sindacati, durante la ventennale dittatura militare – che agisce in clandestinità sfruttando una fitta rete di solidarietà informale (meravigliosamente rappresentata nel film).
Gli intenti di Mendonça Filho, tuttavia, vanno ben al di là del pur efficace period piece. Già alla fine del primo capitolo veniamo ripiombati senza preavviso in una stanza di un archivio a San Paolo, nel Brasile di oggi. Due giovani studentesse ascoltano le cassette che Marcelo e i suoi compagni hanno registrato durante quell’anno, mentre erano ricercati da un gruppo di gangster e dalla polizia di regime. Il punto di vista, da interno e in presa diretta sul presente, si sposta verso quello di chi cerca di ricostruire il passato attraverso la lettura dei suoi frammenti. E in effetti il mondo del regista brasiliano è da sempre quello di chi si trova sullo soglia di un passaggio storico, da cui il passato verrà cancellato ma che per un momento riesce ancora a essere intellegibile (come il mondo del cinema nell’epoca della sua scomparsa a opera del digitale, e anche in questo film vediamo i cinema di Recife di cui abbiamo visto la sparizione in Retratos fantasmas).
E in effetti la risoluzione della spy story che vede coinvolto Marcelo – cioè la conclusione dell’intreccio del film – non ci verrà mai mostrata “al presente”, ma come “passato” in forma di documento rinvenuto nel futuro. E ci verrà mostrata dal punto di vista di una persona – una giovane studentessa brasiliana di oggi – che non era coinvolta negli eventi ma che da questi eventi si sente per qualche imperscrutabile ragione interrogata. C’è in effetti nell’incontro con cui si chiude il film tra l’archivista ventenne di San Paolo e il figlio di Marcelo (che invece della storia del padre non sa quasi nulla) qualcosa di una chiamata etica. Come a dire che il problema del passato non è tanto la sua sparizione (che è inevitabile) quanto quello di saperlo interrogare: cioè di mettersi nella posizione di chi quelle tracce e quella distanza la sa abitare. Che vuole dire naturalmente e soprattutto saper adottare una certa tipologia di sguardo.
Normalmente al cinema noi vediamo il passato nella forma di un presente ricostruito: cioè coltiviamo l’illusione di essere dentro al passato che stiamo vedendo come se fosse oggi. In definitiva al cinema noi vediamo il passato nella forma del presente: cioè non vediamo mai il passato in quanto passato. L’idea del cinema di Mendonça Filho è invece quello di non tradurre tutto al presente, quanto di vedere il passato mantenendo la sua distanza, cioè preservando la sua radicale inappropriabilità. Da cui deriva la proverbiale aura nostalgica e malinconica di molti suoi film.
È per questo che O Agente Secreto gioca solo in superficie con la struttura del dramma "d'epoca". O meglio, gioca con la nostra abitudine di stare dentro alla ricostruzione presente del passato, per poi togliercela proprio sul più bello (cioè nel momento in cui vorremmo vedere come finisce la vicenda di Marcelo). D’altra parte lo spettro che si aggira nell’oggi è quello con cui si chiude il film: un moderno centro per donatori di sangue che è stato costruito laddove prima giaceva un cinema. Come per dire, che se vogliamo resistere a questa forma di amnesia generalizzata, che vuole schiacciare tutto sul presente, il primo antidoto è ancora quello del cinema: cioè di quella pratica di chi questa tracce le sa riconoscere. Che in definitiva non vuol dire nient’altro che saperle guardare.
La resurrezione del cinema
Alcuni si sono lamentati che un film così denso e così teorico come Resurrection (Premio speciale della giuria ieri) venisse proiettato proprio alla fine del concorso, quando le soglie di attenzione di pubblico e stampa dopo quasi due settimane di festival iniziavano a diventare merce rara. Eppure se c’è un film la cui posizione non può che essere quella finale (testamentaria?) è proprio questo. Non solo perché sulla linea di moltissime riflessioni degli ultimi due decenni sulla fine del secolo cinematografico (Holy Motors su tutti) e sul tramonto di quell’epoca dell’immagine, anche Resurrection è un film che riflette platealmente sulla fine del cinema. Ma anche perché la stessa parabola artistica di Bi Gan è in un certo senso testimonianza di un oltrepassamento del dispositivo cinematografico nella direzione di una commistione sempre più prossima all’estetica dell’arte contemporanea, di cui anche questo film è testimonianza.

La premessa è simile a quella di The Beast di Bonello (un altro film sulla fine di un certo regime dell’immagine e dell’esperienza soggettiva moderna): siamo in un mondo dove è scomparsa la capacità di sognare (e quindi la dimensione illusoria e fantasmatica dell’immagine), che però viene conservata da degli esseri chiamati “fantasmers” che hanno la capacità di “portare il caos nel mondo” e di manipolare il tempo. Sono loro e altre figure capaci di interagire con loro, e chiamate “Big Others”, attorno alla quali si strutturerà questo viaggio attraverso la storia del cinema, e che nello stesso tempo coprirà le due ore e mezza di immagini oniriche che si dipanano di fronte ai nostri occhi – quello che per i “Fantasmers” durerà 100 anni, cioè il secolo dell’immagine cinematografica, per la donna interpretata da Shu Qi e per noi spettatori sarà semplicemente il tempo del film.
Bi Gan incrocia consapevolmente sulla discrasia di diversi livelli. Il primo è un percorso che dal muto al capodanno del 2000 coprirà il cinema del ventesimo secolo attraverso un innumerevole quantità di riferimenti (da Caligari e l’espressinismo tedesco a Lady from Shangai, da Vertigo al cinema gangster di Hong Kong, da Blade Runner ai Lumière… fino a Three Times di Hou Hsiao-Hsien che è il vero meta-riferimento dell’intero film). Il secondo è una riflessione sul tempo, come elemento portante che l’esperienza cinematografica e i Fantasmers sanno manipolare fino a una sorta di suo termine e compimento conclusivo (la fine del cinema bergsonianamente come fine del tempo così come l’abbiamo conosciuto nella modernità). La terza è una filosofia della natura della percezione che nei diversi capitoli in cui è diviso il film passerà attraverso i cinque sensi: dallo sguardo all’udito, al gusto all’olfatto e infine al tatto, che verrà perforato in una sorta di rinuncia epifanica a ogni possibilità di manipolabilità dell’immagine.
A monte di questo c’è anche un attraversamento del dispositivo cinematografico stesso, dato che i “Fantasmers” (come accade sempre ai sognatori) sono a un tempo gli autori dell’immagini ma anche coloro che le guardano: ed è proprio in questa sovrapposizione dell’attivo e del passivo, dello spettatore e dell’oggetto guardato, del guardante e del guardato che il film si concluderà allo zenith della suo compimento con la loro divisione, in cui lo sguardo si separa dal vampiro che diventa finalmente oggetto all’interno dell’immagine.
E in effetti è proprio in questo processo di isolamento dello sguardo che va letto non solo il piano sequenza conclusivo (che è ormai la cifra stilistica di tutte le “conclusioni” dei film di Bi Gan) ma anche il compimento della missione storica del cinema stesso: uscire dal fantasma - bruciando letteralmente gli spettatori come se fossero cera - per far sì che lo sguardo si liberi dalla sua forma storica novecentesco. Cosa c’è dopo? Non tanto una morte, ci sembra dire Bi Gan, che in questo senso si allontana dal mood nostalgico ed elegiaco che contraddistingue moltissime riflessioni sulla morte del cinema… quanto la sua resurrezione. Che probabilmente avrà una forma diversa, verso la quale Bi Gan con la sua estetizzazione dell’immagine sempre più vicina all’arte contemporanea si sta già dirigendo.
In copertina: Jafar Panahi mostra la Palma d'Oro (foto: Mohammed Badra; fonte: ANSA).
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