Un libro di Bruno Cavallone / Giustizia e letteratura

16 Agosto 2016

Parlare in questi anni di legge e di giustizia è come affrontare il tema del sole e della pioggia: non passa giorno che non se ne parli, che non se ne accenni, che non se ne sia colpiti. La cronaca giudiziaria è diventata cronaca politica e viceversa, la riforma del settore compare graniticamente ai primi posti dell’agenda del fare, le luci della ribalta illuminano a giorno il palcoscenico gremito di protagonisti e di tecnici, spesso dagli abiti intercambiabili.

Quel gran discutere porta sì a maggiori sensibilità, ma non necessariamente produce approfondimenti ragionati. Quando sembra che nuovi temi scuotano la base delle grandi questioni, riemergono testarde le inquietudini antiche, le incertezze che da sempre hanno innervato la giustizia e turbato i giusti. Queste dinamiche hanno un osservatore particolare, lo scrittore che osserva da una finestra questa realtà.

 

I paesi anglosassoni da tempo indagano sul rapporto tra diritto e letteratura e circa 124 insegnamenti ne testimoniano l’interesse. In Italia l’attenzione non è così fitta, ma negli anni si sono succeduti contributi (tra i molti quelli di A. Sansone e M.P.Mittica, e ultimamente Giustizia e Letteratura a cura di G. Forti) e traduzioni (da Weisberg a Ost). 

Ora compare un saggio di un illustre docente di procedura civile, Bruno Cavallone, dal titolo spiazzante La borsa di Miss Flite (Adelphi, 2016).

E la lettura conferma l’impressione iniziale. L’autore si propone di utilizzare strumenti eterodossi per analizzare gli aspetti anche psicologici e antropologici di quella macchina dagli ingranaggi sofisticati che è il processo.

 

 

 

Le sue sono incursioni tra le pagine dei grandi autori e tra le immagini iconografiche che forniscono lo sfondo dell’aspetto rituale del decidere.

Lo spazio, popolato dagli attori che convergono per ottenere il ‘verdetto’, cioè il dire vero, ha una porta che ne simboleggia l' austerità, con la rievocazione obbligata di Kafka.

Il tempo che scandisce i passaggi non è indefinito ma calcolato, a termine, perché la protrazione è segnale di incapacità, con la rappresentazione della clessidra.

La convergenza dei vari fattori crea il fenomeno del rituale giudiziario, certamente austero ma anche popolato dalla corporalità delle persone che lo attivano o lo subiscono, ma avvinti da un'"infezione virale" per raggiungere il traguardo auspicato. E Miss Flite, personaggio dickensiano di Casa desolata ne è immagine plastica e fornisce lo spunto al titolo. Questa signora, ossessionata da una causa civile che si protrae da anni, conduce alla perdita della ragione il protagonista pur di proseguire la causa. È una ‘fata malvagia’, una persona che cosparge il contagio essendone lei stessa vittima.

L’autore riversa cultura umanistica e non solo servendosi di immagini e linguaggi anche paradossali, e non è un caso che si diffonda a descrivere il giudice Bridoye di Rabelais. Costui per tutta la vita ha reso giustizia tirando i dadi e solo una volta ha sbagliato ed è stato sottoposto a processo. Tirava i dadi ma studiava la causa, segnala quasi soddisfatto l’autore.

 

 Una notazione generale e finale su questo suggestivo rapporto tra diritto e letteratura. I due universi, quello letterario e quello giuridico, mantengono divergenze marcate.

Il diritto codifica la realtà mentre la letteratura libera le possibilità indebolendo i saperi positivi. Gli eccessi del diritto nel Mercante di Venezia e la derisione in Kleist ne sono un esempio. Il diritto cerca la certezza mentre la letteratura esplora, il diritto è generale e astratto mentre la letteratura è concreta e particolare, il diritto risolve il caso mentre la letteratura scova i problemi non necessariamente sciogliendoli.

Nonostante queste principali osservazioni, il diritto può essere presente nella letteratura in quanto a quel mondo la letteratura pone interrogativi, sotto svariati profili.

 

Sulla sua ribalta possono apparire i grandi temi del diritto e dei valori giuridici. E, secondo questo approccio, il processo rimane sullo sfondo perché interessa come proiezione esterna. Ed allora se ne colgono i fondamenti nell’inesausta modernità delle tragedie greche, il legame tra cittadini e norme e l’influsso delle riforme in Balzac o in Dickens del Circolo Pickwick, il dovere verso leggi nei Malavoglia del nostro Verga, la dignità e la responsabilità individuale in Delitto e castigo, la tortuosità opaca delle norme in Gadda, l’incombenza delle regole nella Colonia penale di Kafka.

Secondo altro approccio l’attenzione si rivolge alla dimensione interna del processo, alla dimensione metaforica in Alice o in Pinocchio o alla Panne di Dürenmatt (citati ampiamente peraltro da Cavallone), al realismo del rito come nel racconto di processi celebri in Sciascia, Zola, Čechov, all’indagine sulla capacità dell’imputato come nel Moosbrugger di Musil.

 

Esiste poi un altro versante, ed è quello del diritto come letteratura, e cioè l’interpretazione come applicazione al diritto dei metodi letterari, l’utilizzo nel testo giuridico dei canoni come la retorica e le metafore. E si aggiunga l’analisi del ragionamento giuridico con il corredo delle note che devono accompagnarlo dalla coerenza alla plausibilità. In sintesi il testo giuridico, e quelli che compongono il processo come i verbali o le perizie, è una narrazione “produttiva di verità”.                                                                                                                                                                                                 Gli universi ruotano distanti tra loro, ma la letteratura fornisce una lente per cogliere le zone d’ombra che il diritto lascia.

Si pensa, ad esempio, alla drammatica rigidità della giustizia nel ricostruire un fatto che è irripetibile nel suo accadimento, e la conseguente, tendenziale imperfezione della sentenza che ha il dovere di ridelinearlo. Il giudice decide sul materiale che gli si propone, cerca la composizione dei frammenti di realtà, si avvale del metodo scientifico, ricorre alle scienze tradizionali (psichiatria) o nuove (DNA, esami di laboratorio, impronte digitali). 

 

Lo scrittore nel contempo avverte la latitudine del reale, che si distingue dalla realtà perché offre l’ampiezza del possibile. Coglie l’incertezza restaurativa della catena causale che ha portato al crimine in quanto la casualità è un dato ineliminabile, come rappresenta Gadda nel “mulinello” dei fattori e come conclude Dürenmatt ne La promessa, non a caso sottotitolata “Requiem per un romanzo giallo” perché la logica non è per definizione vincente. Avverte la dimensione personale dei personaggi, nell’aula semplici personaggi di un rito mentre nell’esistenza vivono le loro drammaticità come l’omicida spesso dimenticato di Svevo in via Belpoggio. Scava nei bisogni collettivi di giustizia, mentre la macchina processuale ha tempi e modi strutturalmente sordi alle esigenze dell’opinione pubblica come nella Bestia Umana di Zola.

 

 

La passione per questo connubio ha un rischio: amplificare l’imperfezione dello strumento giuridico statale, la sua lontananza dal “senso di giustizia”, la limitatezza dello strumento perché usato da uomini obbligati a seguire regole imposte. E così rifugiarsi nei mondi ideali e astratti della creazione artistica. Il rischio esiste ma opponibile, attribuendo alla letteratura la funzione di sentinella vigile affinché lo sguardo non si impietrisca sui codici, ma si convinca che oltre il perimetro giudiziario esiste “altro”. 

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