Nomad / Chatwin by Herzog

22 Ottobre 2020

Moltissimi si sono occupati dell’opera e della figura di Bruce Chatwin (ucciso dall’AIDS a 49 anni, nel 1989) ma forse nessuno avrebbe potuto farlo con la passione, la complicità e l’amicizia di Werner Herzog.  Con questo film Herzog compone il ritratto più riuscito del grande scrittore inglese. Un ritratto che inevitabilmente è anche un autoritratto, considerando la loro lunga frequentazione in giro per il mondo e le numerose influenze reciproche rintracciabili nei lavori di entrambi. Nomad è la storia di una grande amicizia tra due nomadi, due assetati di diversità che erano anche grandi camminatori. “Il mondo si rivela a chi lo attraversa a piedi” è la famosa frase di Herzog citata nel film. Che inizia naturalmente con l’apparire della prima immagine della Patagonia nel campo visivo di Chatwin: 

 

Nella sala da pranzo di mia nonna c’era una vetrina, con dentro un pezzo di pelle. Era piccolo ma spesso e coriaceo, con ciuffi di pelo ruvido e rossiccio. Era fissato a un cartoncino con uno spillo arrugginito. Sul cartoncino c’era una scritta in inchiostro nero sbiadito, ma io ero troppo piccolo per leggerlo. Cos’è quello? chiesi. Un pezzo di brontosauro. Mia madre conosceva il nome di due animali preistorici, il brontosauro e il mammut. Sapeva che non era un mammut perché vengono dalla Siberia. Il brontosauro, scoprii, era un animale che annegò nel diluvio perché era troppo grande per salire sull’Arca di Noè. Lo immaginavo irsuto, con artigli e zanne e una luce verde malvagia negli occhi. A volte il brontosauro faceva irruzione dalle pareti della camera e mi svegliava. Quel brontosauro in particolare era vissuto in Patagonia, una regione del Sud America all’estremità del mondo. Migliaia di anni prima era caduto in un ghiacciaio scivolando da una montagna in una prigione di ghiaccio azzurro, arrivando in fondo in perfette condizioni. Qui il cugino di mia nonna, il marinaio Charlie Milward, l’aveva trovato. 

 

Questo bellissimo incipit, che non sono riuscito a ridurre, ci racconta moltissimo di Chatwin, di come paleontologia, archeologia ed etnologia si fondono ai miti, agli eventi eccezionali come il diluvio universale ma anche come l’estinzione di popoli e creature che ci hanno preceduti. Culture millenarie vengono frantumate e disperse. Ne restano frammenti umani in parte compromessi dalla modernità, che per gelosia o per smemoratezza stanno perdendo i codici di linguaggi antichissimi. Nessuno racconterà più la loro storia, il lungo cammino dell’homo sapiens che dall’Africa si è diffuso nel mondo intero. L’ossessione per questi mondi perduti è comune anche a Herzog e al suo cinema. Ci vorrebbe un saggio per seguire e segnalare le continue intersezioni tra i loro lavori, che continueranno a sfiorarsi e a stimolarsi sino all’ultimo giorno di Chatwin. 

 

Werner Herzog 


Non si deve pensare a un Herzog illustratore di parole: le sue immagini, qualunque cosa giri, sono cinema puro, sempre. Herzog è cinema come Chatwin è scrittura. Un esempio per tutti: Cobra verde, tratto dal libro di Chatwin Il viceré di Ouidah. Lo schiavismo, la violenza distruttrice contro popoli inermi: un tema scottante per entrambi, che tra le altre cose hanno in comune anche la convinzione della brevità della vita di homo sapiens. Non soltanto la vita di popoli rimasti isolati per migliaia di anni, l’intero mondo occidentale non aveva ai loro occhi un futuro infinito. La caducità di una lingua, dei simboli radicati, delle religioni sono la metafora dell’uomo stesso e delle sue capacità autodistruttive. Le armi, il fuoco, le epidemie. Un mondo febbricitante che Herzog ha saputo rappresentare moltissime volte. 

 

Questo senso di urgenza, di dover agire prima che tutto svanisca per sempre, accomuna i due uomini sino in fondo. Sono entrambi esplosivi, senza tregue mentali, sempre in fermento, sempre pronti a preparare lo zaino per andare dall’altra parte del mondo. Guarda caso erano entrambi grandi parlatori, e quando si incontravano passavano giorni e notti febbrili raccontandosi storie infinite. Li immagino così: si parlavano per lunghi monologhi. Grande era il fascino che Chatwin riusciva a suscitare attorno a sé: uomini e donne si innamoravano implacabilmente di lui. Perché Chatwin non si limitava a parlare (tantissimo), ma recitava, imitava voci e suoni, mimava gesti e pose. In fondo opposto a lui, il leggendario autore di Fitzcarraldo appare come la faccia oscura dello stesso pianeta. Ma come lui avido di sapere, pronto a inseguire tracce assurde, un frammento di pelle, un amo da pesca antico, una statuetta. Archeologia come ricostruzione di vita, la forza della narrazione che forse abbellisce, arrotonda, ma dice tutta intera la verità. 

 

Qualcuno l’ha accusato di essersi inventato le tante storie finite nei suoi libri, ma Herzog li smentisce senza esitare e senza alcun dubbio. Neppure io credo che Chatwin mentisse. Come ironizza un testimone nel film, “Chatwin diceva una verità e mezza”. Herzog dichiara di non aver voluto girare una biografia dell’amico ma in realtà fa qualcosa di più, seguendone chatwinianamente i frammenti (la pelle del bradipo, la grotta dell’antenato…) riesce a raccontare la storia di un’anima, di uno spirito inquieto che gli assomigliava, eludendo tappe biografiche che altri avrebbero seguito, prima tra tutte la sua omosessualità (ma anche premi letterari, riconoscimenti, successi). Splendidi i brevi e sapidi colloqui su questo argomento con la moglie di Chatwin. Non mi interessa sapere se davanti a me c’è un eterosessuale, un omosessuale, un bisessuale: davanti a me c’è Bruce. Questo il pensiero rapidamente esplicitato da Herzog. 

 

Herzog con Bruce Chatwin 


Nomad è anche un grande film di montaggio: immagini di repertorio e musiche, spesso misteriose e animiste, si alternano sapientemente ai famosi totali di Herzog, che sembrano dotati di un loro respiro, come vibrando di vitalità, pietre, alberi, ghiacciai sterminati battuti dal vento. Tutto il creato ha un’anima. Fatale che il film si impenni seguendo la magia dei canti degli aborigeni australiani. The Songlines (Le vie dei canti) è giustamente il libro più noto di Chatwin. Ci sono dentro tutti i suoi rovelli, i percorsi esoterico-filosofici, i suoi autori di riferimento, e soprattutto c’è il grande protagonista dell’umanità: il nomadismo. Spiegare il nomadismo è difficile: la sua particolare geografia è senza carte, segue tracce interiori che però hanno anche un suono esteriore, una vibrazione. Perché quella è la via, te lo dice il canto. La via che c’è e quella che non c’è ancora ma che è già nel canto. Una ragnatela mistica, invisibile, che non può essere spiegata. Come chiedere a un vecchio elefante di raccontare i suoi infiniti percorsi, che pure gli sono noti al centimetro. 

 

Che momento stupendo quando un vecchio aborigeno di fronte alla telecamera di Herzog cerca di intonare uno dei misteriosi canti ma non ci riesce, dice che non li ricorda. I canti sono gli uomini che li cantano, e le loro leggi sono infinite, come i loro segreti: cioè il contesto è il canto. Per questo gli aborigeni considerano sbagliata la traduzione in inglese fatta da un antropologo. È un po’ come tradurre un libro di poesie. Chatwin era un narratore, con una forte struttura filosofico-scientifica alle spalle, e non un inviato speciale in Cile o in Australia. La verità è un processo mentale, non soltanto un fatto. In estrema sintesi il film è tutto sulla misteriosa energia (curiosità, inquietudine) che li accomuna. Hanno trascorso tutta la vita camminando per il mondo, assecondando quella che dopo profonda riflessione hanno riconosciuto come loro vera natura: il nomadismo. Una condizione che accomuna avventurieri, poeti e malati di mente, ma che ha origini antiche: camminando moltissimo si ha la sensazione che il corpo ricordi le antiche camminate degli avi, incise nel suo DNA e nella sua mente, in forma di strani canti interiori che formano una strada. 

 

Notevoli, commoventi (ma a ciglio asciutto, la commozione incrina leggermente la voce di Herzog) i capitoli finali della storia, che non voglio svelare nei dettagli. Uno zaino, il famoso zaino di Bruce. Un taccuino con disegni e annotazioni di viaggio. Una sedia a rotelle per lo scrittore-camminante. È il tramonto di una grande amicizia. Herzog, mostrandogli sequenze del film che sta girando gli porta le immagini del mondo che Chatwin vorrebbe vedere. Uomini neri, pittati da fantasma, che danzano e cantano, serissimi, lontani eppure familiari. Le ultime immagini che appaiono dal mondo nella camera di Chatwin le vede attraverso gli occhi di Herzog. Un grande momento, il loro addio. Nudi, pittati da fantasma, danzanti, di fronte al mistero della nostra esistenza.     

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