Scire per causas / Filosofia e psichiatria?

13 Luglio 2016

Esito ad affrontare il tema proposto da questo binomio. Le ragioni stanno all’intersezione delle aree semantiche proprie alle due discipline. Che, se fosse vuota, non metterebbe conto parlare del rapporto tra le due. Mentre, se non fosse vuota, richiederebbe di riconoscere quanto la filosofia possa essere psichiatrica e la psichiatria filosofica. Entrambi i temi sono pesantemente a rischio di inquinamento ideologico. I pregiudizi si annidano alla base dei giudizi. Le possibilità sono quattro e per minimizzare il rischio ideologico, probabilmente senza riuscire ad azzerarlo, tento di prenderle in considerazione sincronicamente tutte e quattro, analizzando le loro implicazioni in un contesto ipotetico-deduttivo, potenzialmente scientifico.

 

 

1. Se la filosofia è psichiatrica.

 

Questa è l’ipotesi cui mi sento più vicino e come psichiatra e come epistemologo di provenienza psicanalitica; è perciò quella che svilupperò più a fondo, ben sapendo di suscitare le ostilità del collega filosofo. Il mio pregiudizio è che in comune filosofia e medicina, in particolare filosofia e psichiatria, abbiano di essere due discorsi intorno alla certezza e alla causa.

 

I due argomenti sono strettamente correlati: la ricerca delle cause mira alla conoscenza certa del vero. Si conosce veramente, cioè con certezza, il fenomeno se si conoscono le sue vere cause. Gli antichi non ci sapevano fare con l’incertezza; giocavano a dadi ma non avevano un calcolo delle probabilità. Non sapevano fare previsioni statistiche ma solo predizioni oracolari. I loro giochi erano puri giochi d’azzardo nella completa ignoranza della struttura della casualità. Non avevano neppure la nozione di variabile, ai cui valori assegnare pesi probabilistici. Chi sdoganerà l’incertezza nel discorso scientifico sarà Cartesio con la sua equazione: incerto (o verosimile) = falso. La scienza moderna, diversamente dall’antica, ci sa fare con il falso: o sa come confutarlo o sa come calcolarne la probabilità.

Oggi, disponendo della nozione di probabilità, la nozione di causa risulta necessariamente indebolita, decadendo a semplice correlazione statistica, quindi a calcolo di probabilità, che trasforma l’incertezza in certezza media. Infatti, se c’è l’effetto probabilmente c’è stata la causa, che l’ha prodotto, ma anche probabilmente non c’è stata quella causa; se non c’è l’effetto probabilmente non c’è stata la causa, che l’ha prodotto, ma anche probabilmente c’è stata la causa… inefficiente. Per stabilire la correlazione statistica occorrono quattro valori di probabilità relativi a quattro eventi distinti: causa presente/effetto presente, causa assente/effetto presente (sic), causa presente/effetto assente (risic), causa assente/effetto assente. L’ontologia antica, essendo analogica, tagliava tutto il discorso della discordanza tra causa ed effetto (le controprove). Era un discorso analogico sulla concordanza e totalmente deterministico.

 

La nozione di causa, che sarà adottata dal pensiero occidentale nei millenni successivi, fu formulata per la prima volta dal medico di Cos, Ippocrate, nell’Antica medicina (IV secolo) in polemica con il fisiologo Empedocle. Cito la definizione nella traduzione (un po’ prolissa) di Vegetti:

“Dobbiamo in verità ritenere che la causa di ogni singola malattia consista in quei fattori che, se presenti, ne determinano l’insorgere necessariamente e in un modo ben preciso; se invece trasmutano in un’altra combinazione ne consentono la cessazione” (Ippocrate, Antica medicina, trad. M. Vegetti, Rusconi, Milano 1998, p. 87).

È chiara l’esigenza del terapeuta, il quale deve disporre di cause efficienti contro le cause morbose, perché tolte queste si toglie necessariamente la malattia. Purtroppo le cose non sono così semplici.

Nel Fedro (270b sg) Socrate di nome ma Platone di fatto sottoscrive il valore eziologico delle due arti (o tecniche): la retorica e la medicina:

“In entrambe le arti dobbiamo determinare la natura, del corpo nell’una, dell’anima nell’altra, se si vuole somministrare scientificamente, e non per pratica empirica, le medicine e la dieta al corpo, onde apportare sanità e forza, o ragionamenti e norme di condotta all’anima onde infondere la persuasione o la virtù all’anima”.

 

Consulenza filosofica ante litteram? Anche, ma non solo. Ciò a cui assistiamo è la transizione dalla “prima navigazione” ilozoista alla “seconda navigazione” socratica. Nella prima i filosofi ilozoisti cercavano cause fisiche per i fenomeni fisici, forse a eccezione di Anassimandro che postulava come causa prima l’indeterminato o apeiron. Nella seconda Platone inventò la metafisica, che arriva fino a noi, postulando cause metafisiche per “salvare i fenomeni” fisici (sozein ta phainomena).

La metafisica della causa trova la sistemazione definitiva in Aristotele, che nel secondo libro della Fisica (in realtà metafisica), dopo aver oscuramente argomentato sulla fortuna e sul caso, se sono da considerare cause oppure no, distingue quattro tipi di cause: materiale, efficiente, finale e formale. Il discorso arriva fino ai giorni nostri. Mezzo secolo fa Lacan in La scienza e la verità (1965) attribuiva la causa efficiente alla magia, la causa finale alla religione, la causa formale alla scienza, la causa materiale (la materia significante) alla psicanalisi. Insomma, all’interno dell’assetto metafisico classico la vera scienza, quella che porge certezze, è lo scire per causas. Concretamente, la scienza era per gli antichi la storiografia, a livello collettivo, ed è tuttora la medicina, a livello individuale o clinico. All’interno di questa metafisica Goethe potrà dire che “la storia della scienza è la scienza stessa” (J.W. Goethe, La teoria dei colori (1810), trad. R. Troncon, Il Saggiatore, Milano 1991, p. 9). Ancora oggi la medicina è considerata scienza perché indaga le cause delle malattie e le contrasta. In realtà, la medicina, la psichiatria in particolare, è una tecnica – un’arte direbbe l’antico greco – che applica ritrovati scientifici escogitati altrove e ingegnerizzati a uso diagnostico-terapeutico.

 

Con la metafisica delle cause ha radicalmente chiuso Galilei, che ha investigato la correlazione tra spazi e tempi del moto uniformemente accelerato indipendentemente dalle sue cause “naturali”. Galilei ha introdotto in epistemologia un metodo per acquisire la certezza scientifica sconosciuto agli antichi: la generalizzazione. Galilei lavorava su modelli. Ogni diverso piano inclinato offriva un modello di moto uniformemente accelerato. La novità epocale fu riconoscere che questa molteplicità è unitaria: presenta un invariante unificatore, cioè la relazione quadratica tra tempi e spazi percorsi, che vale in ogni modello. Einstein riconoscerà in questa procedura il principio di relatività di Galilei: le leggi della fisica si scrivono formalmente allo stesso modo in tutti i riferimenti inerziali, cioè nei sistemi di coordinate spaziotemporali che si muovono di moto uniforme l’uno rispetto all’altro. Viene da pensare alla causa formale che secondo Lacan opera nella scienza. Anche la geometria degli indivisibili di Bonaventura Cavalieri, allievo di Galilei, è una sorta di “geometria cinematica”, che ha anticipato la teoria cantoriana degli insiemi.

 

La medicina, invece, ha continuato imperterrita il discorso eziologico dei filosofi. Non ne vuole sapere di generalizzare, ma fa sempre riferimento al caso singolo. La psichiatria, essendo medica, ha sviluppato il riferimento all’anima, secondo Bleuler, all’apparato psichico, secondo Freud. Lì lo psicanalista colloca le sue cause psichiche: le pulsioni sessuali e la pulsione di morte. Invano von Brentano aveva fatto sentire la sua voce: “Eine Seele gibt es nicht” (Non esiste l’anima, in F. von Brentano, La psicologia dal punto di vista empirico (1874), trad. L. Albertazzi, Laterza, Bari 1997, p. 76).

 

L’evoluzione naturale della tendenza della psichiatria alla filosofia, parallela alla tendenza della filosofia alla psichiatria, porta all’attuale consulenza filosofica, che pretende curare il disagio psichico, correggendo le idee “sbagliate” che il soggetto concepisce su di sé e sul mondo. Essendo debolmente medicale non si presta molto alle valutazioni in uso per giudicare le terapie mediche (sperimentazione clinica con metodologie statistiche). La consulenza filosofica è solo un’occasione di lavoro per laureati in filosofia che non trovano un posto di insegnamento nelle scuole secondarie. In fondo, anche la consulenza filosofica si configura come un “adesso ti insegno io a vivere”, come già preconizzava Platone.

 

 

2. Se la filosofia non è psichiatrica

 

Se la filosofia non fosse minimamente psichiatrica, sarebbe una filosofia senz’anima, quindi probabilmente non sarebbe più filosofia nel senso in cui da Platone in poi si intende la pratica filosofica, stabilito da Emerson: la filosofia occidentale è Platone. Credo che anche la filosofia più materialista, se mai ne è esistita una che sia riuscita a liberarsi del tutto del carico metafisico-idealistico di provenienza platonica, non possa liberarsi della pregiudiziale psichica, per lo meno sotto forma di anima collettiva. Che cos’era la lotta di classe se non l’azione dell’anima collettiva – un’anima che non esiste più, essendo cambiati i modi di produzione economica (finanziarizzazione, virtualizzazione ecc.)?

In Europa l’esempio maggiore di successo di filosofia non psichiatrica, che tuttavia non si sottrae al dovere di giudicare la psichiatria, è l’ontologia del presente di Foucault. La sua analisi della soggezione al potere è più incisiva e più attuale della Massenpsychologie di Freud. Si tenga comunque presente il debito contratto da Foucault nei confronti dei suoi grandi maestri Canguilhem e Sartre. Quest’ultimo ha analizzato la struttura dei collettivi nella Critica della ragion dialettica.

 

 

3. Se la psichiatria è filosofica

 

Indubbiamente, è esistita una psichiatria strettamente filosofica: la psichiatria fenomenologica e/o esistenzialista. Non entro nel merito dei contenuti di questa psichiatria (variante), che sono tanto storicamente apprezzabili quanto oggi sono instradati sul viale del tramonto. In Italia il suo canto del cigno fu il movimento per l’apertura dei manicomi, avviato da Basaglia. Il mio giudizio puramente formale ed estrinseco su questa psichiatria è quello che riservo alla fenomenologia in generale, e alla fenomenologia husserliana in particolare. Questa filosofia e la connessa psichiatria sono, a mio debole parere, il tentativo (infelice) di prendere le distanze dal positivismo e dalla psicoanalisi, che non rendevano conto secondo Husserl del mondo della vita e dei corrispondenti vissuti soggettivi. La fallacia husserliana fu identificare scienza a positivismo. Se per combattere il “riduzionismo positivista” o la “mitologia psicanalitica” mi tocca parteggiare per l’idealismo che gronda dalle pagine della Crisi delle scienze europee (1935-36), la mia risposta è “No, grazie”. Preferisco l’originale platonico, per esempio l’insuperabile Parmenide. Per ironia della sorte faccio notare che la Crisi fu composta nel momento di massimo fulgore delle scienze europee, prima che diventassero la big science globalizzata che conosciamo oggi. O il filosofo non si aggiorna su quel che dice? È quasi come lo psicanalista.

 

 

4. Se la psichiatria non è filosofica

 

Questa è la pretesa ideologica – l’ateoreticità – che oggi attrae maggiori consensi per ragioni economiche: vendere psicofarmaci e commercializzare polizze assicurative. Entrambe le operazioni sono in conto profitto del capitale; quindi per essere realizzate con un rischio calcolato richiedono ragionevoli basi statistiche, che vanno oltre le preoccupazioni per la salute mentale del singolo individuo. L’esponente maggiore di questo partito è la corrente ateoretica che si materializza nell’operazione DSM, manuale che correla la diagnosi individuale alla statistica collettiva.

Tuttavia, esiste un’interessante e consistente variante di psichiatria non filosofica alternativa a quella farmacologico-assicurativa: è la psichiatria sistemica, la quale occupa il territorio aperto dal pragmatismo americano, in generale, e da Bateson in particolare. Intorno al significante “sistemico” si materializzano contributi diversi, che vanno dalla cibernetica alla semiotica, dalla mente incorporata di Maturana e Varela all’analisi del linguaggio schizofrenico con modelli non dissociativi, in una sintesi eclettica su cui forse è prematuro esprimere un giudizio definitivo. Certo è che la psichiatria sistemica esprime un’attenzione alla psicologia sociale e alla psicoterapia di gruppo, in particolare familiare, molto maggiore degli approcci psicanalitici ortodossi.

Quanto posso dire è che se non essere filosofici porta a questo guadagno, allora viva la non filosofia!

 

Questo articolo è apparso su Psychiatry on line.

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