Severino, la verità e la forza
Che la filosofia abbia sempre avuto a cuore il problema della ‘verità’ è addirittura banale da ricordare; meno banale è invece impegnarsi a rendere ragione di un tale assunto.
D’altro canto, perché i filosofi sono sempre stati ossessionati dal problema della verità (anche là dove si sono impegnati a mostrare la sua – della verità – impossibilità, come sarebbe successo, soprattutto a partire dalla modernità)?
Guardando al modo in cui la verità è stata per lo più pensata, nel corso della storia della filosofia, la risposta sembra venire quasi da sé. Sì, perché la filosofia ha quasi sempre pensato la verità come “incontrovertibilià” (almeno a partire da Aristotele); certo, con qualche illustre eccezione, almeno a partire dalla sofistica e dallo scetticismo antichi, e ancora nel pensiero contemporaneo, quanto meno a partire da Nietzsche, sino all’imporsi di un generico e scanzonato ‘fallibilismo’ alla Popper.
Diciamolo con chiarezza: se i filosofi hanno avuto a cuore la verità concepita come “incontrovertibilità”, ciò non può che avere una ragione. Ed è la seguente: il fatto che tutte le convinzioni che facciamo nostre nel corso dell’esistenza, sono – proprio in quanto “opinioni” – costitutivamente opinabili. E dunque rimangono avvolte da una ineliminabile e spesso dolorosa aura di incertezza; che ci obbliga ad imporle agli altri per il tramite di una semplice prova di forza. In quanto tutte ‘discutibili’, infatti, le opinioni comuni sembrano non potersi che affidare alla capacità dimostrata dal loro sostenitore di imporle agli altri “con la forza”; in virtù di una lotta che lo veda infine vincitore. In questo senso ‘polemos’ (guerra, opposizione) è padre di tutte le cose.
Insomma, le convinzioni devono in qualche modo ‘far fuori’ (o mettere fuori gioco’) il ‘dissenso’; ed esibire le prove della sua sconfitta. Una sconfitta che, evidentemente, dovrà essere quanto più possibile radicale; in modo che il perdente non possa rialzare troppo presto o troppo facilmente la testa.
Ecco perché il trionfo ideale (ottenuto a scapito delle opinioni diverse) non poteva che fondarsi su una dimostrazione in grado di rendere evidente la semplice impossibilità di contrapporsi all’opinione trionfante. Le opinioni diverse vengono cioè messe fuori gioco, e nella forma più potente, solo là dove si riesca a destituirle in partenza. Dove si riesca cioè a mostrare che non riescono neppure a contrapporsi alla tesi trionfante.
In quanto sarebbe la semplice volontà di contrap-porsi alla medesima a destinarle all’inconsistenza. Ad implicare il loro rimanere di fatto fedeli alla convinzione di cui avrebbero voluto costituire la più radicale negazione.
Questa, la struttura del pre-potente meccanismo elenctico messo in opera da Aristotele nel quarto libro della Metafisica e radicalizzato da Emanuele Severino nella “Struttura originaria”. Al bando ogni incertezza, ogni libertà di opinione, al bando ogni arbitrarietà concettuale; il “vero” sembra non lasciare spazio alcuno all’errore, impossibilitato addirittura a costituirsi.
La lotta contro la negazione sarebbe cioè originariamente vinta dal “vero”; che proprio per questo avrebbe assunto il volto dell’incontrovertibilità.
Certo, non pochi sono i filosofi che hanno provato a concepire il “vero” in altri modi; vuoi come aletheia, vuoi in termini di ‘evento’, per non parlare di quelli che avrebbero provato a concepirlo come ‘processo’, o addirittura come ‘contraddizione’. Ma a dominare, lungo la storia della metafisica occidentale, è stato il “vero” concepito nella forma dell’incontrovertibilità; concepito cioè come qualcosa che non può mai venire negato. E che per questo “sta”; ossia, rimane stabile a prescindere dalle dinamiche storiche, dai processi sociali, dalle promesse della religione; insomma, dai meccanismi sottesi agli imprevisti del divenire.
D’altronde, solo in quanto ‘stabile’, un tale “vero” sarebbe stato in grado di normare ogni forma del diventar altro. Sancendo, ad esempio, come accade in Emanuele Severino, che nessun modo del divenire possa mai far non essere quel che è (o far essere quel che non è).
Da cui la connessione, ribadita e radicalizzata da Severino, tra ‘verità’ e ‘salvezza’.
Le cose tutte sarebbero ‘salve’ dall’annichilimento cui sembra vocato a destinarle un certo modo di intendere il divenire (declinato in termini ontologici) – che avrebbe contaminato l’intero Occidente con il germe del “nichilismo”. Ossia, con la convinzione relativa alla possibilità dell’impossibile: secondo cui l’essere sarebbe identico al nulla.
Con tali problemi si confronta, dimostrando un’ammirevole acribìa speculativa, un importante volume edito da Feltrinelli e capace di fare seriamente e lucidamente i conti con la prospettiva ultra-metafisica di Emanuele Severino; un volume intitolato, molto semplicemente, Emanuele Severino, e uscito da poco a firma di Leonardo Messinese. Docente di filosofia teoretica presso la Lateranense a Roma, quest’ultimo da anni si confronta con il filosofo bresciano. E lo fa con grande rigore e passione sincera, cercando, nei modi più diversi, di mostrare la conciliabilità tra il monumentale sistema severiniano e la fede cristiana.
Secondo Messinese (che è un religioso, merita precisare), sembra infatti esservi una qualche continuità tra la speranza di salvezza propria della fede cristiana e il tramonto dell’isolamento della terra implicato dalla Struttura Originaria, soprattutto in rapporto alla complessa relazione che tiene insieme apparire infinito e apparire finito. Una continuità che non inficia comunque, almeno dal punto di vista del docente della Lateranense, la potenza della critica rivolta da Severino al Cristianesimo e alle stesse sue iniziali aperture rispetto a quest’ultimo.
Ma, soprattutto, Messinese si impegna ad indicare quelli che sarebbero stati da lui individuati come possibili ulteriori sviluppi del discorso severiniano; anzitutto in relazione alla non facile istituzione di una dimensione veritativa “distinta dalla verità nella forma dell’incontrovertibile, senza tuttavia cadere nella non verità intesa come negazione intrinseca della verità” (p. 253). Insomma, il nostro tenta di “pensare l’esistenza umana in termini tali che le si possa riconoscere il suo specifico ‘essere nella verità’, il quale si distingue certamente dalla dimensione della verità incontrovertibile, ma senza costituirsi secondo un rapporto di opposizione contraria” (p. 259).
Messinese vorrebbe cioè istituire “un ambito conoscitivo intermedio (metaxy), distinto qualitativamente da quello della verità incontrovertibile e da quello dell’errore” (p. 259).
Missione alquanto ardua, per non dire impossibile, quest’ultima, nella misura in cui, accettate le premesse del discorso severiniano, nessuno spazio viene di fatto concesso a essenti che non siano immediate espressioni della struttura originaria, ossia della inamovibile non contraddittorietà e della conseguente eternità dell’essente in quanto essente.
Anche perché, se ogni essente corrisponde a tale incontrovertibile verità, è evidente che nulla potremo mai determinare che non sia già da sempre inscritto nel paesaggio originario costituito dagli eterni astri delle eterne costellazioni dell’essere.
Insomma, se la verità è la verità del tutto, non può esservi un “essere nella verità” che si distingua “dalla dimensione della verità incontrovertibile” (p. 259).
Altra importante implicazione del discorso severiniano è infatti l’inscindibile relazione tra verità e “totalità”.

Sì, perché, se si è nella verità, nessuno “specifico essere nella verità” potrà mai mostrarsi difforme dal dettato del Destino (della struttura originaria della verità). E dunque nessun essere umano potrà mai “fare” davvero qualcosa; cioè, decidere ‘liberamente’ il corso degli eventi. Interferendo “in qualche modo” con il destinale oltrepassamento che l’essere sembra aver già da sempre ‘deciso’ (per dir così – stante che nessun soggetto, in verità, neppure l’essere inteso come soggetto di una decisione, “decide”, nell’ottica severiniana; ma tutto è già da sempre deciso dal suo stesso e semplicissimo essere quel che è), affidandolo a un incessante sopraggiungimento valevole quale espressione del fondamentale compito di togliere la contraddizione C (ossia, la contraddizione tra l’apparire solo formale della totalità e il suo concreto apparire anche contenutistico, concepibile solo a livello dell’apparire infinito).
Compito, quest’ultimo, implicato da una Gioia (da intendersi come orizzonte dell’apparire infinito e concreto del tutto) che nel processo ‘glorioso’ del divenire avrebbe appunto la propria più adeguata manifestazione… per quanto irrimediabilmente affidata all’ordine del prima e del poi.
Resta dunque difficile credere che lo svolgimento dell’apparire finito in quanto eterna manifestazione finita dell’apparire infinito possa venire inteso come un progressivo avvicinamento a quest’ultimo. Infatti, se, come dice bene Severino, e come ribadisce giustamente Messinese, l’oltrepassamento della contraddizione C non “può mai risolversi totalmente” (p. 217), allora l’apparire infinito non può certo venire concepito come una meta alla quale ci si possa/debba progressivamente avvicinare. Quello di in-finito è infatti un concetto negativo; che non indica una meta determinata rispetto a cui ci si possa ritenere più o meno vicini.
Insomma, l’infinito non indica una “misura” (e dunque la distanza da esso non è mai determinatamente misurabile).
D’altronde, è lo stesso Severino a riconoscere che l’infinito non lo si può concepire come “altro” dall’apparire finito del Tutto. Solo un “determinato” potendo infatti definirsi altro da un altro determinato; solo un finito può dirsi altro da un altro finito.
Severino tenta comunque una via d’uscita prendendo in prestito da Freud il concetto di “inconscio”; del quale però Freud, a differenza di Severino, coglie tutta la radicale paradossalità. Non a caso il medico viennese, in Teoria psicoanalica, avrebbe scritto che ogni atto psichico è inconscio. Negando che vi siano atti psichici consci distinti (altri) da quelli inconsci.
Mentre il filosofo bresciano finisce per intendere questo inconscio addirittura come un ‘luogo’ – precisa infatti Messinese: “come il Luogo in cui appare il senso massimamente concreto dell’esser sé dell’essente” (p. 220). Che, come ogni luogo, dovrebbe potersi lasciar determinare.
E poi va anche rilevato come questo “infinito Tutto concreto” non possa mai sopraggiungere “in carne ed ossa” nella dimensione finita; altrimenti il finito si farebbe altro da sé. Il tutto, infatti – come rileva lo stesso Messinese –, “non entra (mai) totalmente nell’apparire” (p. 103), almeno nell’accezione contenutistica del termine.
E se è così, come si fa a sostenere (chiederei tanto a Severino quanto a Messinese) che “l’apparire attuale sarebbe una totalità finita che va accrescendosi, la cui differenza rispetto alla totalità infinita andrebbe assottigliandosi, pur essendo di carattere strutturale” (p. 104)? Cioè, come si fa a dire che tale differenza va assottigliandosi? Affinché lo si possa dire, dovrebbe infatti esservi, oltre la finitezza dell’apparire destinato al progressivo ‘oltrepassamento’, un “altro” anch’esso misurabile, e dunque finito, concepibile come meta rispetto alla quale qualcosa come un “progressivo avvicinamento”, e dunque la progressiva diminuzione della distanza dalla medesima si lasciassero in qualche modo misurare.
Il fatto è che l’infinito non ha misura: e dunque è costitutivamente impossibile misurare il livello di avvicinamento al medesimo.
Il problema è quindi costituito dal fatto che “la finitezza” costitutiva dell’umano viene concepita da Severino come un limite da superare (al modo dei limiti interni alla finitezza). Ossia, come “un finito”, piuttosto che come “il finito”. Per questo l’infinito viene di fatto concepito come un oltre-altro cui ci si dovrebbe avvicinare, per salvare la finitezza dalla propria irrimediabile finitezza.
Ma la domanda cui né Severino né Messinese rispondono è: perché mai dovremmo porre rimedio alla finitezza?
Quasi si trattasse di una malattia; come se la finitezza andasse curata. Perché mai, stante quella che tanto secondo Severino quanto secondo Messinese è la sua già da sempre risolta eternità, o verità, in rapporto all’intero?
E poi: ha davvero senso continuare a parlare di “intero”, ossia di totalità, continuando a trattare l’infinito come un finito, sempre e comunque misurabile, e dunque come una quantità?
E ancora: se tutto è eterno, o meglio, se è eterno ogni essente, che senso ha porsi il problema della salvezza di ciò che, in quanto eterno, non può certo aver bisogno di essere salvato, e dunque non può che rimanere così come è (anche là dove appaia come persuasione erronea, dunque – stante che l’errore in quanto tale è impossibile, solo di persuasione erronea si può parlare, infatti, secondo Severino… non di contraddizione, dunque, ma del contraddirsi)?
Infine, porrei a Severino e a Messinese un’ultima questione: a cosa può mai alludere l’esistenza eterna, se non all’eterno oltrepassamento della non soluzione della contraddizione C? Che mai potrà riconoscere e testimoniare la propria soluzione, se non facendosi in quanto tale “apparire infinito” nella forma di un esser-altro – e dunque mai.
Stante che l’apparire infinito non è uno stato di cose; e non indica nulla di positivo, ossia, di positivamente ‘altro’ dall’apparire finito. E che il non esser quel che è, da parte dell’apparire finito, ossia il suo esser in verità “in-finito”, è detto (alla perfezione) proprio e solo dal suo non poter palesare mai la definitiva risoluzione della contraddizione.
Senza che vi sia bisogno di ipotizzare improbabili paradisi alla luce dei quali possa palesarsi il concetto concreto dell’astratto, e dunque il senso di un’eternità certamente non riducibile a tale infinito oltrepassamento.
