1958-1982: venticinque anni di canzoni italiane / Ed ognuno ha il suo corpo

29 Aprile 2019

Di musica mi sono occupato ogni giorno tante ore al giorno per 30 anni: dirigevo un mensile che ha cessato le pubblicazioni quattro anni fa perché non lo comprava più abbastanza gente per pagare il mio stipendio. Da allora con la musica il mio rapporto si è fatto difficile: non ho più messo un disco di vinile sul mio giradischi, li ho regalati al mio figlio dj e compositore; non ho più messo cd nel mio lettore cd: stanno prendendo polvere; ogni tanto ascolto la radio in auto, ma sono molto esigente e spengo quasi subito. Quindi posso dire che non ho elaborato il lutto. Quando a scuola i ragazzi vogliono ascoltare musica cedo raramente, in occasioni pre-vacanziere, per curiosare cosa stanno ascoltando, reggo come loro solo tre minuti di pezzi che hanno un testo interessante, una storia che dice qualcosa ben raccontata nel videoclip. Si può dire quindi che nella mia regressione abbia setacciato l’essenza di quello che la musica mi può ancora dire: parole più che melodie, storie più che ritmi, emozioni più che canti.

Quando ho letto i primi report sulla mostra NOI… non erano solo canzonette (pensata da Gianpaolo Brusini con la consulenza storica di Giovanni De Luna e quella discografica di Lucio Salvini, alla Promotrice delle Belle Arti di Torino fino al 7 luglio 2019, con un catalogo fotograficamente stupendo di Skira) ero molto scettico sull’effetto emozionale, di memoria che attraversare quelle stanze pareva evocare nei visitatori. Per mestiere inoltre so quanto sia complesso parlare di musica, raccontare di musica, scrivere intorno alla musica: sono pochissimi coloro che dedicano ormai tempo all’approfondimento critico, culturale del loro ascolto.

 

Gianna Nannini, America.


 E così come tutto si è frantumato nel puzzle agitato della lettura internet su smartphone, anche l’ascolto musicale è diventato un fai-da-te di playlist che ulteriormente chiude i mondi personali alla curiosità della scoperta e al bisogno di approfondimento. Come è possibile, infine, mettere in mostra la musica? Brusini si avvale di una narrazione storica che dal video di ingresso con De Luna vuole raccontarci un pezzo di storia di NOI italiani attraverso le canzoni che LORO scrivevano e NOI ascoltavamo alla radio, dai 45 giri di vinile, ai concerti. Il taglio di De Luna va dal boom economico che ci allontana dalla miseria e dalla prostrazione perdente della Seconda Guerra Mondiale e ci porta prima all’eccitazione “americana” della tv, della pubblicità, dei consumi, della automobile, del frigo, della Vespa e dei pic-nic, poi all’esplodere prima del Sessantotto (la canzone politica è lontana dal melodico sanremese e radiofonico) e infine al cupo decennio del terrorismo che con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro mette una pietra tombale su ogni illusione di rivoluzione felice; la narrazione si stoppa all’inizio degli Ottanta, quindi a tutti i post- che allora ci narcotizzarono: post-moderno, post-politico, post-melodico, post-coppia per portarci in edonismo reaganiano e craxiano, discoteca solipsistica, ritmo più che intonazione, Oriente più che Occidente, Battiato e De Gaetano più che De André e Celentano.

L’allestimento apre le stanze tematiche con i disegni di Francesca Seminatore: la luce è soffusa, regna il silenzio; alle pareti le eccezionali fotografie selezionate dall’immenso e ampiamente inesplorato Archivio Storico di Intesa Sanpaolo, che custodisce chilometri di pellicole per lo più mai stampate e riprodotte: il catalogo con la sua alta qualità di stampa rende addirittura più giustizia a questa miniera di volti e scene del nostro passato (nostro di noi che eravamo vivi dopo il 1958). Al centro di ogni sala un faretto illumina una postazione dove uno pseudo vinile bianco anziché nero racconta con parole essenziali e intelligenti perché è stata scelta quella canzone che possiamo ascoltare in solitaria reminiscenza in una coppia di cuffie. Chi cammina vede qua e là altri visitatori danzare immobili con gli occhi chiusi, cantare a bassa voce voci che risalgono da pozzi della memoria. 

 

Mina a La Bussola di Marina di Pietrasanta, 5 luglio 1968 - Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo - foto Alfredo Tessi. 

 

Quindi, non ci volevo andare, alla mostra sulle canzonette; per giunta canzonette! Non la musica che oggi ricordo di avere ascoltato: Velvet Underground, Pink Floyd, The Doors, Genesis, Le Orme, Premiata Forneria Marconi, CCCP… o la musica che ricordo di aver cantato imparato il giro di Do alla chitarra acustica: Inti Illimani, Ivan Della Mea, Francesco Guccini, Fausto Amodei, Paolo Pietrangeli… Invece, piano piano le emozioni mi hanno prima accarezzato, poi risvegliato ricordi subliminali soprattutto di quando ero bambino e ragazzino e la musica ancora non la sceglievo ma la sentivo nel mondo famigliare radiotelevisivo, poi profondamente rattristato nel tratto della militanza politica che vivo come un fallimento immane, infine commosso da una canzoncina del 1973 di cui non avevo mai inteso le parole: Minuetto, con le parole stupefacenti di Franco Califano, la musica di Dario Baldan Bembo, la voce e la bellezza dolce e radiosa di Mia Martini:


 

E cresce sempre più la solitudine

nei grandi vuoti che mi lasci tu

Rinnegare una passione no
ma non posso dirti sempre sì e sentirmi piccola così
tutte le volte che mi trovo qui di fronte a te

E la vita sta passando su noi, di orizzonti non ne vedo mai
Ne approfitta il tempo e ruba come hai fatto tu
il resto di una gioventù che ormai non ho più
E continuo sulla stessa via, sempre ubriaca di malinconia
Ora ammetto che la colpa forse è solo mia
avrei dovuto perderti, invece ti ho cercato

Io non so l'amore vero che sorriso ha
Pensieri vanno e vengono, la vita è così

 

Vorrei che tutte le ragazze andassero a capire questa mostra: se le lotte operaie e studentesche sembrano così invecchiate e tristemente tramontate nell’inganno terroristico, stanza dopo stanza, canzone dopo canzone, vedo crescere la donna e le donne, pagare la propria debolezza, e poi la propria indipendenza, attraversare la solitudine, rivendicare il proprio diritto di dire no, fino al 1982 in cui Gianna Nannini per prima, coraggiosa, racconta di una ennesima frustrazione sessuale, stufa di quanto lui sia incapace di amare il corpo di una donna; a differenza della donna succube cantata da Mia Martini, Gianna Nannini fa da sé (parole, musica, voce e clitoride) nel 1979:

 

Per oggi sto con me mi basto
e nessuno mi vede

e allora accarezzo la mia solitudine
ed ognuno ha il suo corpo
a cui sa cosa chiedere

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