Cormac McCarthy, la fine e l'inizio

23 Ottobre 2023

Proviamo a pensarlo come un romanzo d’esordio, qualcosa che non viene da un prima, qualcosa che cade sulla tavola apparecchiata della letteratura nota come il copertone di un autocarro degli anni Settanta. La mistica mccarthiana dell’addio, generata dalla sua morte gloriosa, è una coperta di Linus per congedarsi con piedi tiepidi e coscienza sotto il cuscino da un autore che nessuno, oggi, prenderebbe sul serio se avesse trent’anni e fosse nato a Trapani o Springfield. Proviamo a immaginare questo libro – proprio questo, con tutte le sue parole, le sue stranezze, le sue escrescenze scientifiche – come un dattiloscritto nel senso proprio del termine, margini 2.5, 170 cartelle, inviato a un editore qualunque. Esito scontato. Verdetto inappellabile.

A me piace però immaginarlo così perché aiuta a spogliarsi dal facile racconto dei giganti che reggono i nani sulle spalle, e anche a ripulire l’occhio critico dal pulviscolo della timeline autoriale, quella che rende così facile parlare di apici, parabole e coronamenti di carriera. I libri vanno letti con una specie di cinismo possibilista, e Stella Maris, in questo senso, è un “romanzo d’esordio” irricevibile. L’errore che ho commesso è stato leggerlo a suo tempo come il gemello diverso di The Passenger. Certo, sì. Eppure no. Perché oggi, rileggendolo in italiano, con la distanza anche emotiva generata dalla perdita dell’originale, non credo che l’imperativo critico-filologico abbia senso qui come ha senso per tutti gli altri libri che conosco. Quello che voglio dire è che questo oggetto-romanzo si sottrae a un contesto, a una linea bio-letteraria, a un macrotesto autoriale consacrato. E proprio per questo, senza paradosso, senza un prima o un dopo, funziona come un’iniezione di adrenalina nel cuore fermo della letteratura della fine.

Ora, parlare di Stella Maris è come parlare di un animale estinto alla Zoological Society of London mentre le V2 cadono sui tetti della City. Ha davvero poco senso fingere tra sodali, bolle culturali e major affaticate che si tratti solo di grande, grandissima letteratura. È una cosa che può funzionare come pescare pesci gatto in una vasca da bagno. McCarthy, invece, è talmente oltre queste dinamiche letterarie da nascondersi in un atlante di misteri. Ha saltato la faglia ancor prima che ci accorgessimo che ne esistesse una, e oggi è l’unico autore che, seriamente, molto oltre DeLillo e Houellebecq, ha portato l’Antropocene nell’immaginario preverbale della fiction. Perché adesso, grazie a lui, l’Antropocene non ha un romanzo, ha una musa, e questa musa si chiama Alicia Western.

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Ripetiamolo: l’Antropocene non è sovrapponibile al surriscaldamento globale, alle pandemie e ai migranti climatici. L’Antropocene è incistato nell’inner space delle civiltà come un virus che agisce dall’interno, accumulando sintomi invisibili e generando danni terminali. La diagnosi del suo insediarsi nei nostri cervelli non è solo l’Alzheimer, come qualcuno ha detto, con la perdita di memoria e il dissolvimento della complessità cognitiva, ma la schizofrenia, proprio quella che abita Alicia Western fin nel nome: da un lato Alice nel Paese delle Meraviglie e un mondo onirico, irrazionale, grottesco che moltiplica l’io in mille frammenti e li dispone attorno come altrettanti personaggi immaginari; dall’altro il glorioso e plumbeo edificio del pensiero occidentale con i suoi saperi monolitici – matematica, fisica, evoluzionismo – così lontani dalla comprensione comune da sembrare il monologo di un pazzo. E infatti Stella Maris è questo: il dottor Cohen-McCarthy che, conoscendo già l’esito ineluttabile e tragico, inventa una seduta di terapia lunga duecento pagine per sottoporre ad analisi la cultura e la società occidentali sull’orlo del suicidio.

La mia idea era di affittare una barca. Ero seduta nella pineta sopra il lago e pensavo all’incredibile limpidezza dell’acqua e mi sono resa conto che era un plus. Nessuno ha voglia di affogarsi nel fango. È una cosa su cui bisognerebbe riflettere. Mi sono vista seduta in barca con i remi armati. A un certo punto avrei dato un’ultima occhiata intorno. Avrei avuto una pesante cintura di pelle e un buon lucchetto comprato dal ferramenta e mi sarei legata alla catena dell’ancora attraverso la cintura nel punto in cui è doppia, dopo la fibbia. Far scattare il lucchetto e buttare la chiave oltre bordo. Magari allontanarsi con qualche colpo di remi. Non sia mai che ti ritrovi a rimestare sul fondo in cerca della chiave. Un’ultima occhiata intorno e ti tiri l’ancora in grembo e lanci i piedi oltre bordo e salpi per l’eternità. Questione di un istante. Questione di una vita. (Stella Maris, Einaudi, Torino 2023, traduzione di Maurizia Balmelli, p. 147)

[…]

Sei seduto sul gelido fondo del lago con il peso dell’acqua nei polmoni come una palla di cannone e la morsa del freddo nel petto è probabilmente indistinguibile dal fuoco e sei in preda a conati tormentosi e anche se la tua mente comincia a partire sei ancora attanagliato da un terrore squisitamente atavico sul quale non hai assolutamente nessun controllo ed ecco che dal nulla spunta un nuovo pensiero. Quel freddo eccezionale sarà probabilmente in grado di mantenerti in vita per un tempo indeterminato. Forse ore, annegato o meno. E anche volendo supporre che sarai privo di sensi che ne sai? Se non fosse cosí? Mentre in testa ti si accumulano le ragioni per non fare a te stesso quello che ti sei irrevocabilmente appena fatto ti ritroverai a piangere e farfugliare e pregare di finire all’inferno. In ogni caso, seduta lí tra gli alberi nella brezza leggera sapevo che non ci sarei finita. Forse nella mia vita ero stata una persona cattiva, ma non cosí cattiva. Mi sono alzata e sono tornata alla macchina e sono ripartita per San Francisco. (pp. 149-150)

McCarthy è attratto in modo angosciante ed erotico dalle profondità acquatiche. Aerei inabissati e pesci enormi (The Passenger), balene (Whales and Men), salmerini (The Road), tutte immagini-sonda a cui si aggiunge adesso, definitivo, il corpo di Alicia, in un esercizio virtuale in cui la fine per annegamento diventa un trattato di fenomenologia dell’apnea e dell’ultimo respiro letale. Cosa significa? La schizofrenia totale, le schizofrenie sistemiche, quella di Alicia in bilico tra matematica e allucinazioni grottesche, quella dialogica tra dottore e paziente, quella spengleriana tra apollineo e faustiano, quella novecentesca tra filosofia e psicanalisi, quella socratica tra sapere e non sapere, quella cosmologica tra entropia e ordine, sono arrivate a un punto di non ritorno, è la rottura finale. E la civiltà occidentale, adesso, non è più al tramonto, è nel notturno dell’abisso. L’apnea è durata fin troppo, è arrivato il momento di inalare l’acqua. E dopo?

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Pensavo che sarei andata in Romania e che all’arrivo sarei andata in qualche cittadina e mi sarei comprata dei vestiti di seconda mano al mercato. Scarpe. Una coperta. Avrei bruciato tutto quello che avevo. Il passaporto. Magari avrei semplicemente buttato i miei vestiti nell’immondizia. Cambiato dei soldi per strada. Poi sarei salita sulle montagne. Lontana dal passaggio. Per non correre rischi. Avrei attraversato a piedi la terra dei miei avi. Magari di notte. Ci sono orsi e lupi lassù. Mi sono documentata. La sera uno poteva accendere un piccolo fuoco. Magari trovare una grotta. Un ruscello di montagna. Avrei avuto una borraccia con dell’acqua per quando sarei diventata troppo debole per spostarmi. Dopo un po’ l’acqua avrebbe avuto un sapore straordinario. Avrebbe avuto il sapore della musica. La notte mi sarei avvolta nella coperta contro il freddo e avrei guardato le mie ossa prendere forma sotto la pelle e avrei pregato di poter vedere la verità del mondo prima di morire. Ogni tanto di notte gli animali sarebbero venuti fino al limite del fuoco e si sarebbero aggirati nei paraggi e le loro ombre si sarebbero spostate fra gli alberi e io avrei capito che quando il fuoco si fosse ridotto in cenere sarebbero venuti e mi avrebbero portato via e sarei stata la loro eucarestia. E questa sarebbe stata la mia vita. E sarei stata felice. (pp. 193-194)

Alicia, come una Madonna Odigitria, come la Stella del Mare, indica al lettore-viandante il buon cammino. E Stella Maris finisce qui. L’immagine del romitaggio è perfettamente simmetrica a quella con cui si chiude The Passenger: la via d’uscita da tutto, dallo stallo, da una vita che si vuole smettere di vivere, da un mondo di idee, di numeri e di parole che hanno generato ipossia e noia, dal baraccone esausto di un’epoca e di una civiltà, è la via dei boschi, del mare. E c’è un passaggio, nel libro, che funzione come una chiave di decodifica, è il discorso dell’orologio: Alicia sa leggere un orologio riflesso allo specchio. Non opera uno sforzo mentale di rovesciamento dell’immagine come fa la gente comune, Alicia lo legge e basta, e il suo vedere l’ora d’emblée è una metafora alternativa del Tempo, un Tempo rovesciato, un’inversione della freccia del Tempo contro la seconda legge della termodinamica.

Sappiamo che nel mondo fisico questo non può accadere, sappiamo anche però che accade di continuo in altri mondi paralleli, come la mente di uno schizofrenico o di uno scrittore. Alicia è morta nella prima pagina di The Passenger ma eccola viva in Stella Maris, e in questo senso le immagini sincroniche di Bob Western e Alicia Western proiettati in un deserto solitario in capo al mondo, fatto solo di geologia, elementi, piante e animali, è il testamento abbastanza chiaro di McCarthy. Dopo The Road, dopo The Passenger e Stella Maris, dopo l’Apocalisse nel mondo reale e nell’inner space della civiltà, la freccia del tempo si rovescia e punta indietro verso l’archetipo primario, verso i paesaggi terrestri: dall’Antropocene alla Territà. Perché l’umanità, ogni volta che cade, non può “essere svezzata / dal lungo profilo della terra, dalle sue vene di fiumi” (Seamus Heaney) e cadendo al suolo rinnova la sua nascita nella Landness. Così è arrivato il momento di leggere il prossimo libro di McCarthy, si intitolerà The Orchard Keeper, uscita prevista il 5 maggio 1965.

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