C.S. Lewis da Oxford al sistema solare
Aldilà della ricca genealogia che comprende la tradizione classica dei viaggi immaginari e quella rinascimentale dell’utopia, o alcuni autori che si collocano tra Settecento e primo Ottocento (Swift, Poe, Mary Shelley), è indubbio che la narrativa dell’immaginario scientifico – o fantascienza – sia fiorita nella seconda metà del XIX secolo con il progressivo ampliamento delle conoscenze scientifiche favorito dalla diffusione delle teorie evoluzionistiche di Darwin. Dalla geologia all’antropologia, dalla biologia all’astronomia, un immenso spazio epistemologico si spalanca davanti agli occhi degli studiosi e della gente comune. Del resto, lo stesso Darwin è stato uno straordinario evocatore di paesaggi naturali nel suo libro di viaggi, pubblicato nel 1839, che ripercorre le varie fasi della circumnavigazione del globo compiuta dal giovane geologo a bordo del Beagle tra la fine del 1831 e l’ottobre del 1836. Segnalo la versione italiana uscita tra i classici Feltrinelli Viaggi di un naturalista intorno al mondo, a cura di Paolo Costa. Basterà pensare alla cronaca dell’incontro sconvolgente con i ‘primitivi’ Fuegini all’estremo Sud delle Americhe, al racconto delle terrificanti conseguenze di un terremoto sulle coste del Cile, o alla descrizione dell’edenico paesaggio naturalistico dell’arcipelago delle Galapagos, raggiunte nel settembre 1835, dove Darwin intuì per la prima volta i fondamenti della ‘mutabilità’ delle specie. È pur vero che, verso la fine dell’Ottocento, il pensiero darwiniano, ormai assimilato dalla cultura borghese occidentale, avrebbe portato alla convinzione che il potere della scienza e della tecnologia era così vasto da permettere la scoperta di esseri intelligenti nel cosmo e di penetrare i misteri dell’aldilà. Rientra nel primo caso l’individuazione dei cosiddetti ‘canali di Marte’, che, nella loro presunta regolarità geometrica avrebbero costituito la prova evidente dell’esistenza di una antica popolazione aliena. Recentemente è uscito negli Stati Uniti lo studio di David Baron The Martians: The True Story of an Alien Craze that Captured Turn-of-the-Century America (Liveright), in cui viene messo in luce il ruolo dell’americano Percival Lowell, un astronomo rinomato (soprattutto grazie all’appoggio della sua influente famiglia), nella creazione di quel ‘mito’ della civiltà marziana, che è arrivato fino ai nostri giorni. Per quanto riguarda l’esistenza di una realtà ultraterrena, fior di scienziati, tra cui Alfred Russell Wallace, uno dei maggiori seguaci di Darwin, si convertono alla fine del secolo allo spiritualismo e alla ricerca psichica, nella convinzione che la più grande scoperta scientifica del Novecento (secondo le dichiarazioni di Arthur Conan Doyle, il celeberrimo creatore di Sherlock Holmes) avrebbe, appunto, riguardato un metodo d’indagine capace di stabilire – o stabilizzare – un metodo di comunicazione con il mondo ultraterreno. A ben vedere, anche le origini popolari della science fiction novecentesca, fortemente influenzata dai scientific romance di H.G. Wells, interpretano i presupposti del positivismo darwiniano, e, tuttavia, nella variante promossa da John W. Campbell, Jr., il direttore di Astounding Stories dal 1937, sono affascinate dai fenomeni paranormali, che comprendono la telecinesi e la telepatia.
Esiste un’altra tradizione dell’immaginario scientifico che preferisce indagare gli spazi della speculazione teologica, in senso proprio, nel tentativo di contrastare un’epoca fondamentalmente scettica, ispirandosi non al pensiero darwiniano, ma alla tradizione medievale dei viaggi nell’oltretomba e dell’allegoria cristiana. Negli anni ’30 del Novecento una posizione intermedia tra agnosticismo scientifico e misticismo religioso è occupata dall’inglese Olaf Stapledon, il creatore di vertiginosi futuri che si spingono in avanti di miliardi di anni o propongono, come in Star Maker (Il costruttore di stelle, 1937) l’esplorazione mentale di ammassi stellari abitati da grandiose entità intelligenti. Non a caso, a Stapledon, guarda con ammirazione anche C.S. Lewis nella Prefazione a Quell’orribile forza (That Hideous Strength, 1945), l’ultimo volume del ciclo narrativo, di cui ora Adelphi ripropone una nuova edizione riveduta e ampliata, La trilogia cosmica, per la traduzione di Germana Cantoni De Rossi. Si tratta di tre romanzi – i primi due si intitolano Lontano dal pianeta silenzioso e Perelandra ̶ pubblicati tra il 1938 e il 1945, che accompagnano l’intensa attività critica di Lewis, affermato studioso di letteratura medievale e rinascimentale a Oxford e poi a Cambridge, e instancabile polemista cristiano (nella versione anglicana a cui aveva aderito, nel 1927, anche T.S. Eliot). Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale Lewis avrebbe dato inizio al ciclo di Narnia, un ‘classico’ della narrativa per giovani lettori e lettrici.
Ciò che, nella nostra prospettiva appare più rilevante, è lo stretto legame che, negli anni ’30 del secolo scorso, C.S. Lewis aveva stabilito a Oxford con J.R.R. Tolkien e con altri intellettuali come Charles Williams, forniti di una robusta vocazione religiosa e convinti che, in nome della fede, la letteratura dovesse recuperare una forte dimensione popolare, in contrasto con lo sperimentalismo volutamente difficile e il materialismo del Modernismo e dei suoi maggiori adepti: James Joyce, Virginia Woolf, D.H. Lawrence, Ezra Pound, e lo stesso Eliot. Ecco dunque la rivisitazione di scrittori ottocenteschi del romance, come George MacDonald e William Morris, il ricorso alla fairy-story, a cui Tolkien dedica un intervento nel 1937, un anno prima di pubblicare Lo Hobbit, al fantasy e alla fantascienza, coltivata da Lewis attraverso la lettura del primo H.G. Wells (a cui, però, viene rimproverata l’ideologia scientista e positivista) e di un autore avventuroso, molto apprezzato negli Stati Uniti, Edgar Rice Burroughs, l’inventore del personaggio di Tarzan, ma anche il prolifico ideatore di una serie di romance ambientati tra Marte e Venere senza far ricorso ad alcun principio di verisimiglianza (pseudo)scientifica. A questa variegata materia narrativa si aggiungono il gusto per l’allegoria cristiana, studiata da Lewis nella sua attività accademica, e l’apprezzamento di opere che ad essa si riconducono in modo esplicito, come il prolisso Voyage to Arcturus dello scozzese David Lindsay, pubblicato con scarso successo nel 1920. Nel gruppo degli Inklings (‘scribacchini’) oxoniensi Tolkien e Lewis rappresentavano le figure di spicco, sebbene fossero talvolta in disaccordo. Tolkien, ad esempio, era cattolico e, a differenza dell’amico, durante la guerra civile spagnola, aveva manifestato, sia pure nel suo modo riservato, una certa simpatia per il Generale Franco. Tra i due, Lewis era maggiormente interessato a ripercorrere i miti fondativi della visione cristiana, e, infatti, il secondo romanzo della trilogia cosmica, Perelandra, è, almeno in parte, una riscrittura dell’episodio biblico della tentazione di Satana nei confronti di Eva. Più in generale, Lewis inserisce una struttura teologica medievale, dantesca, nella sua immaginazione planetaria, creando una mescolanza, talvolta un po’ indigesta per la cultura dell’epoca, di elementi scientifici (ad esempio, il viaggio su un’astronave in Lontano dal pianeta silenzioso) e di spunti allegorico-religiosi. Con la sua solita intelligenza critica, George Orwell non mancò di notare una certa incongruenza nell’approccio narrativo lewisiano. Oggi che il romanzo è diventato un genere letterario fondamentalmente ibrido, l’eclettismo di Lewis ci risulta meno fastidioso, e possiamo recuperare con una certa curiosità sia un brillante spirito ludico nelle complicazioni dell’intreccio, sia l’introduzione di elementi che attualizzano la trama. Nella Prefazione a Quell’orribile forza Lewis riconosce in modo esplicito il suo interesse per la mescolanza dei generi, ammettendo che l’ultimo romanzo della Trilogia cosmica inizia come un campus novel, cioè come un’opera, non priva di spunti comici, ambientata all’università (un sotto-genere amato da alcuni scrittori inglesi successivi, come C.P. Snow e David Lodge), per poi seguire percorsi differenti, rivolti al recupero di un mitico passato britannico, attraverso la resurrezione del Mago Merlino, un geniale impostore ispirato alla figura del poeta irlandese W.B. Yeats. Alla fine, C.S. Lewis si muove con grande libertà, allontanandosi dalla poetica più rigorosa dell’amico-rivale Tolkien. Impegnato nello stesso periodo nella laboriosa stesura de Il signore degli anelli, Tolkien gioca sul potente distanziamento generato dal mondo immaginario della Middle-Earth, i cui eventi appartengono a un’epoca in cui gli esseri umani hanno ancora un ruolo marginale, minore di quello degli Elfi o dei Nani, o degli stessi hobbit. Soprattutto, manca alla visione creativa di Lewis l’intuizione di Tolkien, che pone al centro di un mondo fatto di guerrieri, maghi, personaggi leggendari, mostri feroci, il popolo indifeso e solo apparentemente insignificante degli hobbit.

Peraltro, la presenza nella Trilogia cosmica del personaggio del filologo Elwin Ransom, è un omaggio evidente di Lewis all’amico Tolkien e ai suoi studi linguistici. Così, nei primi capitoli di Lontano dal pianeta silenzioso, il viaggio che Ransom compie in solitudine sulla superficie di Malacandra (Marte), dopo il volo astronautico condiviso forzatamente con Weston (lo scienziato geniale ma privo di moralità) e Devine (lo speculatore che pensa solo ai vantaggi economici), porta il filologo a contatto con paesaggi e popoli così meravigliosi da stimolare la sua attività di ricercatore: “[…] con l’immaginazione aveva già superato ogni paura, speranza o probabilità, per inseguire il fantastico progetto di una grammatica malacandriana. Introduzione alla lingua di Malacandra. I verbi lunari. Piccolo dizionario marziano-inglese... I titoli gli volteggiavano nella testa. Che cosa non si sarebbe potuto scoprire dalla lingua di una razza non umana?” Il Lewis migliore è quello che non affida il racconto alla voce di un narratore onnisciente, alle volte un po’ sentenzioso, e che sviluppa le sue qualità immaginative senza sovraccaricarle di significati teologici. Sia nel primo romanzo che in Perelandra (il nome del pianeta Venere), Lewis riscrive consapevolmente le convenzioni della fantascienza wellsiana e di quella interplanetaria, di matrice americana, proponendo le fondamenta di una ammaliante architettura visionaria, sia pure minacciata dalle forze luciferine dello scientismo e dell’ateismo, che cercano di annientare l’armonia di un universo ordinato dalla volontà divina. Qualcosa della visione lewisiana si può riscontrare in Avatar, il film di James Cameron, arrivato al terzo episodio, in cui sono gli esseri umani a portare la distruzione sul pianeta alieno. In Lewis le forze del male hanno già vinto sulla nostra Terra, “il pianeta silenzioso” separato dal resto del cosmo. D’altra parte, la Trilogia lewisiana si iscrive nel periodo storico che precipita l’Inghilterra nella seconda guerra mondiale e che si risolve in una vittoria contro la dittatura nazista e i suoi alleati pagata a caro prezzo, essendo illuminata dalla luce terrificante della bomba atomica e dalla scoperta dell’orrore indescrivibile dei campi di sterminio nazisti. Già all’inizio di Lontano dal pianeta silenzioso, del resto, lo scienziato Weston, che ha cercato di servirsi di un giovane dalla debole intelligenza, osserva cinicamente, riferendosi alle pratiche eugenetiche in auge negli anni ’30: “Il ragazzo […] non è di alcuna utilità per il genere umano, ed è fin troppo probabile che procrei altri idioti come lui. Proprio il tipo che in una società civile sarebbe automaticamente spedito a un laboratorio di Stato e usato a fini sperimentali.”
Abbandonando la dimensione planetaria, Quell’orribile forza, la cui lunghezza è superiore a quella complessiva dei due romanzi precedenti, è una intensa riflessione sulle conseguenze del trionfo di una visione scientifica priva di moralità e basata su esperimenti compiuti senza il minimo scrupolo etico. Nel 1944 Lewis aveva pubblicato la conferenza dal titolo significativo “The Abolition of Man”, tenuta nell’Università di Durham, vicino a Newcastle, che gli sarebbe servita come modello, senza alcuna implicazione critica, per l’ambientazione di Quell’orribile forza, il romanzo uscito l’anno successivo. Lì la libertà accademica, che è alla base della piccola università di Edgestow e della comunità accademica raccolta nel Bracton College, è messa in discussione, quando una potente organizzazione scientifico-tecnologica chiamata INCE (“Istituto Nazionale per il Coordinamento degli Esperimenti”, in inglese NICE, con un’eco del termine NAZI)) cerca di impadronirsi di un prezioso terreno dell’università, il Bosco di Bragdon, dove sarebbe stato sepolto, molti secoli prima, il Mago Merlino, uno dei personaggi cruciali del ciclo dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Spetta al lettore inoltrarsi nel fitto bosco narrativo lewisiano, affrontando le complicazioni della trama, che sviluppa componenti orrifiche e prefigura il pericolo dell’avvento di uno stato totalitario in Inghilterra. Spicca per la prima volta nella Trilogia lewisiana la presenza di figure femminili, tra cui Jane, la moglie insoddisfatta del protagonista, Mark Studdock, un sociologo piuttosto ingenuo, a sua volta una studiosa del poeta metafisico John Donne, un quasi-contemporaneo di Shakespeare. Il recupero della cultura elisabettiana salda gli interessi accademici di Lewis con il suo impegno di romanziere, dal momento che una delle fonti di Quell’orribile forza è il dramma di Robert Greene dedicato a Frate Bacon, un mago medievale che era riuscito a creare una testa di bronzo parlante (il ‘capo’, in senso letterale, alla guida dell’INCE). Allo stesso modo, la ricomparsa del personaggio di Ransom cerca di immettere nell’intreccio complicato dell’ultimo romanzo della Trilogia la teologia fantastica delle due opere precedenti, evocando lo scontro su scala cosmica delle forze del Bene e del Male nell’Inghilterra contemporanea.
Cosa rimane in tempi più recenti di Lewis narratore dell’immaginario scientifico? Senza dubbio, la dimensione biblica, filtrata attraverso la potente struttura poetica del Paradiso perduto, collega la Trilogia lewisiana al ciclo dei romanzi young adult (ma la definizione è limitativa) di Philip Pullman sui dark materials (Queste oscure materie, 1995-2000), anche se Pullman sovverte la visione cristiana, immaginando il dominio sull’Inghilterra di una cupa distopia religiosa, contro cui si battono le forze che si ispirano agli angeli ribelli della Bibbia.
Probabilmente si deve a Lewis il fascino che la Divina Commedia continua a esercitare nel suo complesso, non solo per la prima cantica, sulla science-fiction. Come testimoniano la ultime lettere di Philip K. Dick, tra il 1981 e il 1982, lo scrittore americano era impegnato in un ambizioso progetto narrativo che aveva al centro un popolo alieno, simile a una delle coorti angeliche del Paradiso dantesco, capace di percepire la realtà empirica in termini di luce e di colori, ma privo di udito. Il titolo di questo romanzo mai scritto sarebbe stato The Owl in the Daylight. A C.S. Lewis, “Jack” per gli amici, l’invenzione di Dick sarebbe piaciuta.
NOTA: Nella tradizione accademica britannica, che distingue l’attività didattica sviluppata nelle Facoltà, dalla ricerca scientifica, di cui sono espressione i college, le strutture che ospitano docenti e studenti, il warden del college non è il Preside, come appare nella traduzione peraltro scorrevole e accurata dell’edizione Adelphi della Trilogia, ma, piuttosto, il Direttore.