Digitale: benvenuta sensorialità

16 Dicembre 2025

La parentesi razionale della modernità

Per comprendere la riscoperta odierna della sensorialità, occorre partire da lontano, da quella che potremmo chiamare la “parentesi razionale” della modernità. Il sociologo Max Weber descrisse il processo chiave della modernità come razionalizzazione e “disincanto del mondo” (Entzauberung der Welt). Con l'avvento del pensiero scientifico e della società industriale, l’Occidente espulse progressivamente il magico e il sensibile dalla propria visione del mondo. Ogni fenomeno veniva indagato e misurato da una ragione calcolante, animata dalla fede che non esistessero forze misteriose e che tutto fosse dominabile dal calcolo razionale. Questo – avverte Weber – “significa il disincantamento del mondo”: la natura non è più incantata, non parla più agli esseri umani attraverso simboli o emozioni, ma diventa un oggetto inerte da analizzare e sfruttare.

La modernità ha così privilegiato la mente sul corpo, la ragione sui sensi. L'ideale illuminista dell’homo rationalis vedeva il soggetto virtuoso in colui che sa dominare passioni e istinti, sottomettendo l’esperienza immediata al vaglio della logica e della morale astratta. Il corpo e i sensi diventavano sospetti: fonti di errore e inganno, quando non addirittura di peccato. La conoscenza “vera” doveva astrarre dalle percezioni personali per raggiungere leggi universali e misurabili. Non sorprende quindi che ci abbiano insegnato a diffidare delle emozioni, a tenere fuori dall’analisi la soggettività sensoriale.

Weber mise in guardia anche sul prezzo di questa svolta: il rischio di una “gabbia d’acciaio”, un mondo governato dalla razionalità efficiente, abitato da specialisti tutto calcolo ed edonisti senza profondità. Un ritratto attuale: circondato da comfort tecnologici e svaghi, l’uomo contemporaneo è preda di un’apatia di fondo, di una mancanza di scopo. La ragione strumentale ha disincantato il mondo senza offrire un equivalente coinvolgimento emotivo o spirituale. Ne risulta un’alienazione: il mondo ridotto a insieme di oggetti da usare, l’individuo a ingranaggio o consumatore annoiato.

Il ritorno dei sensi e la svolta digitale

Dopo decenni dominati dai media della parola e della ragione (libri, giornali, talk show), la sete di sensorialità covava sotto la cenere. Oggi vediamo un sorprendente ritorno dei sensi proprio là dove meno ce lo aspettavamo: nei media digitali.

Agli albori di Internet, infatti, la cultura restava nel solco del libro: anni ’90 fatti di testi e discussioni scritte (newsgroup, blog, email, chat), con immagini sgranate e quasi nessun video. La prima cultura digitale era dunque ancora razionale e discorsiva. Con l'aumento della banda e l'avvento dei social media, lo scenario è cambiato radicalmente. Prima Facebook e Instagram hanno trasformato la comunicazione: dal testo si è passati a un flusso incessante di immagini e video personali, in cui la componente visiva ed emotiva ha preso il sopravvento. Poi è arrivata la vera rivoluzione sensoriale con TikTok e le piattaforme di video brevi: qui parole e argomentazioni quasi scompaiono, lasciando spazio a frammenti estetici progettati per colpire immediatamente i sensi. Clip di pochi secondi, musiche virali, colori saturi, movimenti ritmici – i contenuti di successo non “spiegano” nulla: si percepiscono direttamente, spesso senza nemmeno bisogno di capire una lingua.

In questa svolta anche ciò che è ordinario diventa spettacolo sensoriale. C’è chi trasforma il lavaggio di un tappeto sudicio in una danza ipnotica di schiuma e spazzole; chi riprende in primo piano le mani mentre tagliano sapone o impastano il pane, esaltando ogni scricchiolio e fruscio. Piccoli gesti quotidiani – pulire, cucinare, aggiustare, prendersi cura di sé – diventano pillole audiovisive di piacere immediato. Hashtag come #OddlySatisfying o #ASMR parlano chiaro: cerchiamo soddisfazione, piacere, rilassamento – insomma, sensazioni e non concetti.

Tutto ciò segnala un cambiamento profondo nel nostro rapporto con i media. Non cerchiamo più soltanto informazioni o intrattenimento narrativo: cerchiamo stimoli che facciano vibrare i sensi e le emozioni. Dopo una lunga ubriacatura di razionalità, abbiamo fame di immediatezza corporea, di esperienze tattili, sonore, visive che ci riconnettano al mondo in modo diretto. È come se il pendolo della storia, spintosi all'estremo dell'astrazione razionale, stesse ora tornando verso il polo dell'esperienza vissuta. La cultura del testo e dell’idea cede il passo a una cultura del sentire.

Merleau-Ponty sosteneva che il corpo è “il mezzo generale che abbiamo per avere un mondo” – la percezione sensibile è il nostro modo primario di essere al mondo. Dopo secoli di visione distaccata e mentale, stiamo riscoprendo una visione da dentro, attraverso occhi, orecchi e pelle, che restituisce spessore all'esistenza quotidiana. Se la modernità ci ha spinto a prendere le distanze critiche dal mondo, la digitalità ci invita a immergerci di nuovo in esso con tutti i sensi aperti.

Risonanza digitale: connessioni ed estetica algoritmica

Per capire meglio questa svolta sensoriale, introduciamo un concetto del sociologo Hartmut Rosa: la risonanza. Secondo Rosa, gli esseri umani hanno un bisogno fondamentale di sentire che il mondo risponda alla loro presenza. In un mondo disincantato e reso muto dalla razionalità, sperimentiamo invece l’alienazione: nulla ci parla davvero, ci sentiamo isolati interiormente. La risonanza è l'opposto dell'alienazione: è il momento in cui qualcosa nel mondo ci chiama e noi rispondiamo, in cui avvertiamo una vibrazione reciproca tra noi e ciò che incontriamo. Può accadere ascoltando una musica che dà i brividi, contemplando un paesaggio mozzafiato o dialogando con qualcuno con cui siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Sono esperienze in cui smettiamo di controllare tutto dall’esterno e ci lasciamo coinvolgere, persino trasformare, dall’incontro. Non a caso la risonanza si manifesta fisicamente: pelle d’oca, cuore che accelera, nodo alla gola o lacrime improvvise. Il corpo ci segnala che qualcosa di significativo ci sta accadendo, che siamo toccati e mossi dentro.

Ebbene, la tesi che propongo è che la svolta sensoriale dei media digitali sia in realtà l’espressione di una logica di risonanza digitale. Brevi video e dirette streaming sembrano progettati per suscitare micro-esperienze di risonanza istantanea. Pensiamo a quando guardiamo un tappeto sudicio tornare pulito oppure ascoltiamo qualcuno che sussurra suoni delicati: proviamo un piccolo brivido di soddisfazione, un senso di calma. In quei momenti qualcosa “risuona” in noi: la voce o l’immagine tocca le giuste corde del nostro sistema nervoso, facendoci sentire accarezzati e confortati a un livello pre-razionale.

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Ciò che rende “digitale” questa risonanza è il ruolo degli algoritmi e delle piattaforme. Il contenuto che ci emoziona non arriva per caso: un sistema di feedback analizza ogni nostra interazione (clic, like, secondi di visione) e calibra il flusso successivo di conseguenza. In altre parole, l’algoritmo si accorda sulle nostre frequenze emotive e sensoriali. Se un certo tipo di video ha risuonato con noi e catturato la nostra attenzione, il sistema ce ne proporrà altri simili, cercando di mantenere quella risonanza nel tempo. Si crea così un circuito potenzialmente infinito: utente e flusso mediatico si influenzano a vicenda in un ciclo continuo di stimolo e risposta. Ad ogni nostro feedback positivo (misurato in minuti di visione, reazioni, commenti) corrisponde un adattamento dell’output algoritmico, che prova a farci vibrare ancora sulla stessa lunghezza d’onda.

Questa dinamica ha luci e ombre. Da un lato permette una personalizzazione dell'esperienza senza precedenti: il feed diventa un tessuto quasi intimo, cucito sui nostri gusti e inclinazioni sensoriali, come un curatore personale di meraviglie sempre attivo. Se amo i video di pittura, ogni giorno vedrò colori che si mescolano sulla tela; se mi rilassa osservare mani che cuciono tessuti, troverò sempre nuovi artigiani nel mio streaming. I media digitali ci sorprendono con bellezze inattese e abituano i nostri sensi a un flusso costante di stimoli gratificanti. La noia diventa il nemico da evitare: ogni attimo libero può offrire un piccolo piacere estetico o emotivo.

D'altro canto, questo meccanismo pone interrogativi. La risonanza autentica, ricorda Rosa, richiede apertura all’altro e spazio per l’imprevisto – non la si può fabbricare a comando. Se i nostri feed ci rinchiudono in una bolla di contenuti che già sappiamo piacerci, rischiamo un’auto-referenzialità: veniamo solleticati sempre sugli stessi tasti, senza mai uscire dalla comfort zone. L’algoritmo, nel tentativo di massimizzare il nostro engagement, potrebbe sterilizzare la risonanza riducendola a una formula ripetitiva. I veri incontri trasformativi accadono spesso quando qualcosa rompe le nostre abitudini percettive: un volto nuovo che ci commuove o una melodia inattesa che ci rapisce, un’esperienza che non sapevamo di desiderare finché non ci sorprende. La sfida è dunque sfruttare la capacità dei media di creare risonanza senza imprigionarla in un’ennesima gabbia algoritmica. In altre parole, dovremmo auspicare una risonanza digitale aperta, che lasci spazio all’imprevisto e all’autenticità dell’incontro, invece di un loop chiuso di stimoli confezionati.

Il paradosso dell'ipertecnologico: estetica e corpo ritrovato

A questo punto emerge un paradosso storico-culturale. La modernità, con la sua enfasi su tecnica e razionalità, sembrava destinata a sopprimere il sensibile e a renderci sempre più cerebrali, quasi macchinici. Invece oggi proprio gli strumenti iper-tecnologici stanno favorendo un ritorno dell’estetica, del piacere e del senso incarnato. È un ribaltamento ironico: dove l’Illuminismo diceva “Cogito ergo sum”, TikTok sembra dire “Sento, dunque sono”. Lungi dall’esserci trasformati in automi razionali privi di emozioni, ci ritroviamo online a cercare esperienze che hanno quasi il sapore di rituali – profani e quotidiani, ma pur sempre rituali sensoriali.

Il teorico dei media Marshall McLuhan aveva anticipato qualcosa di simile con l’idea di una “ri-tribalizzazione” operata dai media elettrici. La stampa, dal Rinascimento in poi, ha “de-tribalizzato” la società occidentale privilegiando la lettura individuale e anestetizzando in parte gli altri sensi. Al contrario, i media elettronici ci riportano in un “villaggio globale” dove comunichiamo istantaneamente e torniamo a una partecipazione collettiva simile a quella delle società tribali. I media digitali sono, per McLuhan, estensioni del nostro sistema nervoso: immersi in un flusso informativo continuo, ci riconnettono gli uni agli altri rendendoci parte di una vita comune più immediata. È una visione profetica: già negli anni ’60 McLuhan descriveva ciò che viviamo oggi con social network, dirette streaming e comunità online.

Esempi attuali confermano questa intuizione. Ad esempio, proliferano i livestream “ambient” su YouTube: per esempio una stanza da tè giapponese con la pioggia che cade fuori viene trasmessa in diretta, e migliaia di utenti vi si collegano non per vedere un evento, ma per essere presenti insieme in quello spazio virtuale e trarne un conforto sensoriale. È come ricreare un focolare comune nell’era digitale: sapere che altri stanno ascoltando con noi la stessa pioggia ci regala un sottile senso di compagnia e calore umano. All’opposto della logica moderna del “tempo è denaro”, qui il tempo è sospeso e gratuito, dedicato semplicemente al sentire insieme. Si tratta di micro-esperienze estetiche che ricuciono in modo nuovo il tessuto della socialità: una socialità fatta non di grandi discorsi o di produttività, ma di presenza reciproca nel segno dei sensi.

Questi fenomeni evidenziano il paradosso di cui sopra: l’iper-tecnologico può diventare veicolo di un neo-primordialismo sensoriale. L’estrema datificazione dell’esistenza – algoritmi, intelligenza artificiale, realtà virtuale – coesiste con una parallela ri-sensorializzazione dell’esperienza. Può sembrare uno scenario schizofrenico: da un lato siamo profili digitali, numeri su grafici; dall’altro siamo anche corpi emozionati, con gli occhi lucidi davanti a un bel video, la pelle d’oca per un suono in cuffia. Forse proprio qui, in questa tensione, si nasconde una verità profonda della condizione attuale: più la tecnologia ci astrae in un mondo di dati, più cerchiamo disperatamente di reincarnarci in esperienze tangibili. È una forma di omeostasi culturale: all’eccesso di virtualità risponde un bisogno di concretezza sensoriale.

Sensorialità come resistenza e risorsa di felicità

La riscoperta dei sensi nel digitale può essere vista come una resistenza all’alienazione e insieme uno spunto per ripensare la felicità. Scegliere un contenuto online per il piacere autentico che ci dà – anziché per abitudine o convenzione – è un piccolo atto di ribellione: significa reclamare il proprio tempo e la propria sensibilità in un contesto progettato per catturare la nostra attenzione. La sensorialità oppone alla logica dell’efficienza e del profitto un’esperienza gratuita, fine a sé stessa. Anche fermarsi ad ascoltare un uccello che canta o a seguire un video ASMR significa affermare che non siamo solo consumatori, ma esseri senzienti che rivendicano il diritto di emozionarsi e meravigliarsi. Ci accorgiamo così che la felicità non è un traguardo astratto (successo, ricchezza, indici di benessere), ma una trama di momenti sensoriali in cui risuoniamo col mondo. Come ricorda Hartmut Rosa, una vita è tanto più buona quanto più è ricca di risonanze – e questa svolta esprime proprio il desiderio di più risonanza e meno performance. Invece di usare i social solo per competere, possiamo usarli per riscoprire ciò che ci fa stare davvero bene, espandere la nostra sensibilità e magari trovare nuova ispirazione creativa. Molti, dopo aver assaporato questi contenuti, si scoprono desiderosi di creare a loro volta – dipingere, coltivare, suonare – attività che riconnettono alla realtà. La risonanza digitale non è un fine ma un mezzo: un ponte che può riportarci a vibrare anche fuori dallo schermo.

In conclusione, la svolta sensoriale nei media digitali segna un ritorno. Dopo un lungo vagare nella razionalità strumentale, torniamo ai sensi con strumenti nuovi ma con l’esigenza antica di sentirci parte del mondo e pienamente vivi. In questo percorso c’è un potenziale di resistenza e un germe di felicità autentica – quella che nasce dalla risonanza con ciò che ci circonda. Sta a noi coltivarlo: godendo della bellezza che la tecnologia può far emergere e portando quella risonanza anche fuori dagli schermi, nel tessuto vivo della nostra quotidianità. In un’epoca in cui tutto sembra virtuale, riconnettersi ai sensi è forse il gesto più reale che possiamo compiere.

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