Emmanuela Carbé. Mio salmone domestico

2 Luglio 2013

Pezzi di cartone con sagome disegnate, e poi ritagli di parole. Disegni e oggetti. Libri, modi di dire, ed anche frasi già sentite, come una lunga stringa di parole attaccate insieme, da utilizzare senza ridurla a unità più piccole.
E, tra i ritagli, anche sagome di lettere. Lettere e parole, trattini a unire le lettere e spazi bianchi da lasciare tra una parola e l’altra, nel caso. Perché anche il linguaggio si fa pezzi, con l’idea che tali pezzi possano essere invertiti e che nascano magari parole nuove: riducendo gli spazi, o accostando le sillabe sempre nello stesso modo così da fare di esse un ritornello che diviene un’entità e prende consistenza, iniziando a muoversi nel mondo, facendosi magari anche oggetto, o personaggio.
Il linguaggio in questo modo scandisce un ritmo, più che decidere un senso, soprattutto se il senso pretende di essere una volta per tutte.



Mio salmone domestico
di Emmanuela Carbé (Laterza) è un immenso tavolo di lavoro con sopra oggetti personaggi e cose rovesciati in disordine. Laboratorio di metafore. Un libro fatto di colla, forbici, ritagli di cartone; e anche del loro odore.
Di oggetti che sono parole e di parole che sono oggetti. E scrittura e personaggi e paure e disegni.
Amare gli oggetti così tanto da mettercisi dentro: agli oggetti, alle sagome di cartone, a tutto quello che si può disporre lì, sparpagliato, per farsene qualcosa. Uscire, parlarci, scriverci delle storie, viverci della storie.

 



Mio salmone domestico è un manuale per la costruzione di un mondo e contiene delle esercitazioni da fare a casa.
Come un regalo: pezzi per comporre dei puzzle. A tante facce, come i dadi. Così che ci si possa trovare – o perdersi, è lo stesso – ora qui, ora là, magari in una sagoma dalla forma di pesce che si sdraia, lei, sul lettino dello psicoanalista, e che delle volte si vorrebbe mettere a tacere con cinque scatole di optalidon.
E sul tavolo di questa grande officina vi sono anche tasselli che magari non si utilizzerebbero in una storia o in un puzzle o in un disegno: un po’ per pudore, un po’ per essere giovani scrittori, un po’ per non esserlo.
Sono lì, nel disordine. E se dopo «Il favoloso mondo di Amélie» non lo diresti più tutto in fila che cosa ti piace e che cosa no, qui ci sono più cose di quelle che diresti o scriveresti, perché magari alcune si appiccicano a sagoma di Salmone o di Gattuso o a un’altra ancora, ritagliata per l’occasione. Come fossero le loro espressioni, e non i propri pensieri.

 

Perché le cose che non diremmo più non coincidono con le cose che non vorremmo sentire, o con le cose che non ci piacciono più. E allora Mio salmone domestico parla anche d’amore. Di un amore familiare, come sono familiari molti degli oggetti, dei libri e degli anni condensati in quel disordine del tavolo, familiari come le lettere magnetiche colorate che forse sono lì, insieme al resto.
E allora, davanti a questi oggetti, vedendo che sono sotto i tuoi occhi e prendono posto sparsi nella tua testa, sei grato a Emmanuela Carbé. Anche per le lettere d’amore bianche e per i romanzi incompleti.
Le sei grato perché ti suggerisce che al mondo c’è sempre questa possibilità: di starci così, affacciato a questo laboratorio di metafore, a tagliare e incollare.

 

Con sagome e pezzi che hanno qualcosa di intimo, e altri meno; con lettere che non usi, di cui ti vergogni, e altre meno.
Un modo struggente, scrive. E bellissimo.



«E il mondo di nuovo ci parrà strano, esagerato e superbo, e ancora una volta troppo lontano da noi.»

 

Io Mio salmone domestico l’ho letto così. E l’ho trovato un libro coraggioso. E dolcissimo.

 

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