Ernst Lubitsch. Ninotchka

31 Gennaio 2014

Una “bella sorpresa” è fortunatamente diventata, nel giro di poco tempo, “una fantastica abitudine”. Come si auspicava qui su Doppiozero pochi mesi fa, ecco che dopo Vogliamo vivere!, un altro film di Lubitsch approda nuovamente sul grande schermo. Merito, questa volta, della Cineteca di Bologna, che ha deciso di proporre, per la stagione 2013/14, dieci titoli restaurati nei laboratori de “Il Cinema Ritrovato”, al ritmo di uno al mese: Delitto perfetto, Il Gattopardo, Amanti perduti, Risate di Gioia ed ora, appunto, Ninotchka.

 

 

 

 

La sceneggiatura dei leggendari Billy Wilder e Charles Brackett (in collaborazione con Walter Reisch) fa perno, com'è noto, attorno ad una partita di gioielli confiscati durante la Rivoluzione d'ottobre e contesi fra il conte Leon D'Algout (Melvyn Douglas) e l'integerrima Nina Ivanovna “Ninotchka” Yakushova (Greta Garbo, qui alla sua penultima interpretazione), funzionaria inviata dal governo russo dopo che già tre incaricati hanno fallito la missione, lasciandosi “corrompere” dalle mollezze della vita parigina.

 

Sbaglierebbe chi vedesse nella vicenda soltanto un confronto, naturalmente in chiave antisovietica e “hollywoodianocentrica”, fra l'occidente capitalista e il “barbarico” oriente sovietico. Se c'è un conflitto nel film, è quello, tutto interno al Vecchio Mondo, fra l'aristocratica Francia e la burocratica Russia, entrambe viste attraverso il prisma deformante dell'operetta (imprescindibile “luogo” lubitschiano): tanto l'una quanto l'altra hanno la stessa soave (in)consistenza della Sylvania de Il principe consorte (1929) o della Marshovia de La vedova allegra (1934).

 

 

Un microcosmo peraltro già messo in pericolo dall'incalzare della Storia, visto che Ninotchka esce nel novembre 1939, quando la guerra in Europa è già iniziata da due mesi. E il sentimento di nostalgia per il Vecchio Mondo, sotteso a tutta l'opera dell'ebreo espatriato Lubitsch, si fa in questo caso più acuto, riverberandosi sia nella didascalia iniziale (la Parigi di “quei tempi favolosi, quando sirena voleva dire brunetta, non allarme”) sia, soprattutto, nelle figure dei buffi delegati Iranoff, Buljanoff e Kopalski, interpretati, non a caso, da altri tre esuli – i tedeschi Sig Rumann, Felix Bressart e Alexander Granach – che finiranno per abbandonare la Russia e aprire un ristorante a Istanbul, in qualche modo rifondando altrove la propria “piccola patria”, esattamente come Lubitsch aveva fatto a Hollywood, reinventando la Mitteleuropa nelle proprie commedie.

 

La riedificazione della Heimat (russa o tedesca, non importa) su base “culinaria” conduce a quello che è in fondo l'autentico conflitto del film. Non di classe né di nazionalità si tratta, ma di due modi di intendere la vita. Da una parte quello di D'Algout, che sa abbracciare tutto quello che la vita può offrirgli (dal cibo all'amore), e che nasconde la saggezza dietro l'autoironia: “Ridere dell'intero, ridicolo spettacolo della vita... Se non riesce a pensare ad altro, può sempre ridere di lei e di me”. Dall'altra, la ratio esasperata di Ninotchka, che riduce ogni cosa a misurazioni e dati: “Lei toglie la vita a tutto, analizzandolo!”, l'apostrofa il conte. Un'opposizione che per Lubitsch, il regista delle superfici e degli indizi visivi che alludono o rivelano, si gioca tutta sugli abiti (Ninotchka passa dal severo abito grigio a quello elegante da gran sera) e sui cappelli (la dissolvenza incrociata che trasforma i tre berretti degli agenti russi in tre cilindri).

 

 

A questo punto non sorprenderà trovare ben poche tracce di autentica satira politica, in Ninotchka – e in ogni caso molte meno che nel successivo, apertamente antinazista Vogliamo vivere!. La leggerezza di Lubitsch, osservatore partecipe del suo mondo idealizzato e ricreato, mal si addice al distanziamento “critico” dell'autore satirico. Giusto qualche allusione alle purghe staliniane (battute intrise di humor nero: “Gli ultimi processi di massa sono stati un grande successo. Ci saranno meno russi ma migliori”), alle delazioni e alla proverbiale paranoia sovietica, ma niente di più. Nel lieve universo narrativo del regista berlinese, del resto, le esecuzioni si fanno a colpi di tappi di champagne, e il vero problema dei rivoluzionari sembra essere quello di non saper sorridere.

 

L'invito del “piccolo uomo estremamente cortese” (Garbo dixit), è in fondo lo stesso che una Ninotchka alquanto ubriaca pronuncia rivolta alle immaginarie masse rivoluzionarie: “Let's be happy!”. E se persino il ritratto di Lenin scioglie il proprio cipiglio in un largo sorriso, non si potrà che essere d'accordo con lei.

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