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Lavoro e libertà

29 Giugno 2025

Come vada organizzato il lavoro perché possa produrre, invece che sfruttamento e alienazione, autorealizzazione individuale e libertà collettiva… Di questi tempi ci sono domande e affermazioni come queste che, mentre le leggi, ti chiedi se sono vere, se qualcuno le ha scritte veramente, o non abbia sbagliato o, per caso, non stia scherzando a porle. Eppure Axel Honneth, uno degli esponenti più importanti della famosa Scuola di Francoforte, si pone proprio tale questione nel suo ultimo libro. E lo fa da par suo, lui che ci ha abituati a riflettere approfonditamente su temi come il riconoscimento e la reificazione, per citarne solo due, nell’Introduzione italiana al suo libro denso e di particolare rilevanza, Il lavoratore sovrano, Il Mulino, Bologna 2025. Nel sottotitolo italiano è contenuta l’indicazione tematica del testo, che richiama il rapporto tra lavoro e cittadinanza democratica. Il silenzio con cui questo importante libro è stato accolto è una delle prove del suo valore, per cercare di creare un’alternativa all’indifferenza e al deserto di idee e di programmi politici riguardanti il lavoro in Italia e nel mondo

La tesi di Honneth è chiara ed esplicita: «Il nostro tempo, con le sue potenti tendenze all'autoritarismo politico, al ritorno di un nazionalismo a lungo creduto estinto e alla soppressione neoliberista di ogni limitazione dei mercati, va nella direzione addirittura contraria a qualsiasi sforzo di riforma radicale dei rapporti di lavoro, e sembra deludere rapidamente ogni speranza di conseguire miglioramenti nel breve periodo». L’autore associa la partecipazione alla formazione della volontà democratica a una divisione del lavoro trasparente ed equamente regolamentata. Le relazioni e il tempo nel mondo sociale del lavoro consentono esperienze e apprendimenti utili ad agire sugli assetti di una comunità politica. Solo intervenendo sulle condizioni lavorative abbiamo la possibilità di promuovere forme di comportamento cooperativo che giovino alla convivenza collettiva. Non poche forme di lavoro contemporaneo vanno assumendo caratteristiche che contrastano con alcune delle condizioni che Honneth pone perché vi sia una civiltà del lavoro: un lavoro non può essere tanto faticoso da impedire al lavoratore di pensare alla realtà circostante intesa sia come ambiente sociale che naturale; non può essere retribuito così poco da negare la partecipazione e l'intervento nella vita politica; non può richiedere la rinuncia alla partecipazione interna alle organizzazioni e la subordinazione totale ai propri superiori. L'indipendenza economica, l'autonomia intellettuale e fisica, la riduzione delle tensioni e delle routine, il tempo libero, il rispetto di sé e la fiducia nella propria voce: sono tutte opportunità decisive per accedere all'esercizio della sovranità politica. Viene in mente l’indicazione di Elliott Jaques che pone in relazione lavoro, creatività e giustizia sociale. In quest'epoca di polarizzazione e di crescente autoritarismo, Honneth, insomma, sostiene con forza la necessità di puntare sul lavoro per rivitalizzare la democrazia. Sì, perché il lavoro risponde non solo alla strumentale necessità di avere i mezzi per sopravvivere ma, come ha sostenuto Luigi Pagliarani, si situa al punto di connessione tra mondo interno e mondo esterno con la mediazione del principio di realtà. Gli fa eco la tesi di Francesco Novara che ha sottolineato sempre come il lavoro sia un dato originario interno per noi umani, fonte di senso e significato derivanti dal riconoscimento del valore dell’opera nelle relazioni lavorative e sociali. Il tema del riconoscimento, così rilevante nel percorso di ricerca di Honneth, è un ponte di particolare importanza con la tradizione di ricerca che si è svolta in Italia, esplicitamente richiamata dall’autore, con particolare riguardo al pensiero e all’opera di Bruno Trentin.   

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Nell’introduzione dedicata all’edizione italiana del libro, Honneth esprime pensieri che suscitano allo stesso tempo riconoscenza e tristezza. Secondo l’autore l’Italia dovrebbe essere il paese in cui suscitare facilmente interesse per la ricerca di condizioni di un’organizzazione equa e giusta del lavoro sociale. A motivazione di questa sua aspettativa Honneth richiama un movimento sindacale italiano imponente e intellettualmente avanzato, e una tradizione lunga e influente in cui il tema del lavoro e della giustizia sociale è stato oggetto di dibattito instancabile, a partire dalle prospettive più varie. «Basta pensare ad autori diversissimi tra loro» scrive l’autore, «ma tutti segnati dalla comune eredità di Gramsci, come Bruno Trentin, Antonio Negri e Mario Tronti, per rendersi conto dell’intero spettro e della ricchezza intellettuale di questo dibattito sulle questioni del lavoro». Inevitabile un moto interiore che si interroga su dove siano finite quella eredità e quella ricchezza intellettuale, a fronte delle derive individualistiche e neoliberiste da un lato e delle sciagurate politiche del lavoro dall’altro che allignano in Italia, unitamente alla crisi del sindacato e dei linguaggi e delle prassi della partecipazione e della rappresentanza. Persino le esperienze tanto rare da essere quasi uniche come quella condotta con tenacia da anni da Rosario Iaccarino in Fim Cisl, per affermare con la formazione una cultura delle relazioni e del significato del lavoro, finiscono per evidenziare i limiti e la crisi esistente. Con tutte le conseguenze per la democrazia, dal momento che la principale tesi del libro riguarda proprio il rapporto e i nessi tra democrazia e divisione sociale del lavoro. Se la precarietà lavorativa pregiudica la democrazia, le derive populiste e totalitarie che mettono oggi in crisi la democrazia italiana devono essere analizzate anche in rapporto alla crisi del lavoro, alla sua precarizzazione e alla perdita di centralità delle politiche del lavoro. Non si può tacere, inoltre, della responsabilità del mondo accademico e della ricerca nel trascurare o abbandonare ogni impegno riguardo a quelle che Honneth chiama «mediazioni intellettuali» per riconoscere e sostenere il rapporto tra qualità e partecipazione nella vita lavorativa e nella cittadinanza democratica. Si pensi da un lato al degrado della ricerca e degli insegnamenti di psicologia del lavoro e di diritto del lavoro, e dall’altro alla presenza di una quota sempre più elevata di lavoratori provenienti da altri paesi o nati in Italia che sono cittadini a tutti gli effetti ma senza cittadinanza, per le scellerate politiche razziali basate sul cosiddetto ius sanguinis. Chiari esempi della crisi del rapporto tra lavoro, partecipazione e democrazia.

Non si può trascurare, inoltre, un effetto indesiderato di questi modi di pregiudicare sistematicamente il rapporto tra un lavoro basato sulla giustizia sociale e la libertà democratica, effetto sempre più visibile nella riduzione del lavoro a mera necessità di sopravvivenza fino al disprezzo del lavoro come fonte di autorealizzazione. Una regressione a quanto accadeva nei decenni tra il 1750 e il 1850, come documenta ampiamente Honneth nel suo libro. Tra sforzi umilianti e basso status sociale, ad affermarsi era la lunga tradizione documentata dallo storico Moses Finley, per cui non c’era addirittura né in greco né in latino neppure un termine per esprimere la nozione generale di lavoro o il concetto di lavoro come funzione sociale generale. Il lavoro come attestazione di dignità e indipendenza individuale, di valore sociale rivestito di desideri e speranze e connesso alla qualità della vita sociale e democratica, alla giustizia e alla libertà, si affermerà nei progetti politici dalla seconda metà dell’Ottocento. Nella lunga durata storica, oggi sono proprio quelle tendenze e quelle aspirazioni, nonché quelle possibilità, ad essere evidentemente in discussione e in crisi.

Quel che rende fondamentale, tra l’altro, il libro di Honneth, come emerge dalla tripartizione dell’analisi dell’autore che prende le mosse da un approfondito studio del lavoro nelle società democratiche, per attraversare la realtà del lavoro sociale dall’ottocento fino al mondo del lavoro capitalistico attuale, e giungere infine all’approfondimento di una prospettiva politica considerando la lotta per il lavoro sociale e le prospettive dentro il mercato del lavoro, è la continua ricerca delle condizioni per organizzare il lavoro perché possa produrre, invece che sfruttamento e alienazione, autorealizzazione individuale e libertà collettiva. È convinzione fondativa dell’analisi di Honneth che nelle nostre società l’equità e la giustizia dei rapporti di lavoro vadano oggi misurate in base a quanto questi rapporti consentono ai lavoratori di contribuire in libertà, senza coazione e senza vergogna, alla prassi della formazione democratica della volontà, avvalendosi concretamente del loro diritto formale alla partecipazione. Il senso e il significato del lavoro sono molto di più che un lavoro garantito e un reddito sufficiente. Finché l’attività che le persone svolgono non gode di riconoscimento sociale e comporta uno stimolo intellettuale trascurabile; finché chi lavora non ha alcuna voce in capitolo nella definizione degli obiettivi di produzione e nell’organizzazione del processo lavorativo, i lavoratori non dispongono delle condizioni necessarie per l’esercizio dei loro diritti democratici di cittadinanza. Facendo un’analisi comparativa con il presente non è difficile riconoscere come nelle società democratiche i rapporti di lavoro sarebbero organizzati in modo sufficientemente equo e giusto solo se fossero a loro volta democratizzati in misura tale che, al loro interno, ogni lavoratore e ogni lavoratrice possano concepirsi già come membri di una collettività che si autodetermina. Lo scarto col presente emerge così clamoroso da tale comparazione, da fare apparire ancora più urgente l’assunzione della responsabilità che deriva dalla lucidità dell’analisi di Honneth. La stessa organizzazione del lavoro, considerata dal punto di vista del mondo interno delle persone, come fa in un suo recente lavoro Massimo Recalcati, può divenire istanza di libertà o di minorizzazione, di emancipazione o di mortificazione delle potenzialità soggettive. Ogni organizzazione infatti si realizza esprimendo allo stesso tempo dei vincoli e garantendo delle possibilità a coloro che la creano e ne vivono l’evoluzione. «Il senso del limite imposto dalla Legge di cui il padre è il simbolo», scrive Recalcati, «non ha come finalità quella di scoraggiare il desiderio, ma, al contrario, quella di alimentarlo» [M. Recalcati, Il vuoto e il fuoco. Per una clinica psicoanalitica delle organizzazioni, Feltrinelli, Milano 2024; p. 33].           

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Axel Honneth.

Il proposito dell’analisi condotta da Honneth è allargare il concetto di lavoro a settori come quelli del lavoro domestico e di cura che la teoria classica ha trascurato. L’autore si propone di chiarire come possiamo intendere oggi il concetto di lavoro socialmente necessario, in modo tale che comprenda tutti quei rami del lavoro educativo e assistenziale in parte pagato e in parte non pagato. L’obiettivo è dimostrare che con il concetto di lavoro socialmente necessario si dovrebbero intendere tutte le attività che, in un dato momento, la maggioranza di una popolazione considera assolutamente indispensabili per conservare la propria forma di vita ritenuta buona. Scrive Honneth: «Se vogliamo sottoporre i rapporti lavorativi a riforme radicali e renderli più democratici, così da offrire a tutti i lavoratori eque opportunità di cooperare alla formazione pubblica della volontà, non dobbiamo occuparci solo delle professioni mediate dal mercato del lavoro, ma ricondurre tutte le attività ritenute necessarie a rapporti completamente nuovi, più giusti e trasparenti» [p. 9]. Secondo l’autore, il modo migliore di intendere l’idea di un’organizzazione buona e adeguata del lavoro sociale è riferirla a condizioni, nel sistema della divisione sociale del lavoro, che consentano, o almeno non impediscano ai lavoratori una partecipazione attiva e consapevole alla formazione democratica della volontà. L’idea che il nesso tra una democrazia politica e il complemento di rapporti di lavoro buoni ed equi sia caduto largamente nell’oblio ha per Honneth «qualcosa di stupefacente» [p. 59]. Decisivo ai fini della valorizzazione del rapporto fra lavoro e cittadinanza democratica è per l’autore l’estensione di ciò che viene concepito come lavoro in un’epoca nella quale è cresciuta la responsabilità che la società ha oggi di provvedere, con i mezzi di una nuova politica del lavoro, a condizioni decenti, degne di essere vissute, e soprattutto utili alla democrazia in tutti i rami di attività per essa indispensabili [p. 106]. Dopo aver analizzato la realtà del lavoro sociale nell’Ottocento e nel Novecento, il testo approfondisce le caratteristiche del mondo del lavoro capitalistico attuale. La maggior parte delle tendenze in atto hanno in comune il fatto di contraddire direttamente, in un modo o nell’altro, i requisiti necessari di un’organizzazione del lavoro sociale tale da promuovere la democrazia. Anziché mettere i soggetti che lavorano a più stretto contatto reciproco, per accrescere la funzione di integrazione sociale della divisione sociale del lavoro, li isola sempre più l’uno dall’altro, lasciandoli a loro stessi nelle rispettive attività; anziché migliorare la loro indipendenza economica per liberarli da preoccupazioni legate alla sussistenza e aprire così possibilità di partecipazione democratica, si aumenta, con la quota delle forme lavorative atipiche, anche la quantità di attività sociali che non riescono quasi più a garantire il sostentamento individuale; anziché rendere più trasparente per il singolo la complessa rete della divisione sociale del lavoro, la si rende oggi più opaca, perché, quanto più anonimi diventano i rapporti di proprietà e di potere, tanto più difficile risulta identificare le relazioni di dipendenza e le catene di comando; e anziché allargare lo spettro delle attività, fra quelle richieste dalla divisione del lavoro, che si sottraggono alla pressione del mercato del lavoro capitalistico, rimanendo così accessibili al controllo pubblico o privato, si intensifica radicalmente da decenni la mercificazione di lavori prima non mediati dal mercato. Si creano così le condizioni per una cesura sempre più profonda tra il diritto di partecipazione democratica e le chances di un suo esercizio effettivo.

In un tempo in cui anche i partiti politici che in passato si consideravano rappresentanti degli interessi di tutti i lavoratori hanno voltato loro le spalle, scrive Honneth, accontentandosi al massimo di blandi correttivi a un capitalismo senza più vincoli, può sembrare una visione forse bella ma del tutto irrealizzabile, e dunque vana, ascoltare un’indignazione silenziosa ma in ostinato aumento, che cerchi le vie per connettere il lavoro alla cittadinanza democratica. Per molti aspetti è piuttosto insolito che le condizioni di lavoro dominanti e la loro precarietà siano state accettate senza opposizione pubblicamente visibile, benché siano oggi nettamente peggiori rispetto a cinquanta o sessant’anni fa. In tempi come questi, continua l’autore, sospesi nell’attesa e privi di visioni incoraggianti del futuro è necessario ricominciare da zero, prendere prudentemente le mosse da dove si risveglia impercettibile la resistenza del lavoratore sovrano, sostenendola con argomenti morali in modo tale che forse, a un certo punto, possa nascerne di nuovo un contromovimento pubblicamente visibile finalizzato ad affermare che qualcosa debba migliorare al più presto nei rapporti di lavoro attuali.

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TAGGED: Axel Honneth