Curro Claret: il design è politico

18 Maggio 2023

Si sa che nel gran trambusto della società dell’informazione anche le posizioni più sinceramente impegnate, – come notava con lucidità Fulvio Carmagnola nel suo Design. La fabbrica del desiderio, Lupetti, 2009 – le istanze portate avanti con maggior radicalità vengono rapidamente a confondersi sul piano della fruizione superficiale del gusto e delle mode, in un amalgama dove tutto, pur nella differenza dei linguaggi, acriticamente si equivale. Per questo è tanto più preziosa una figura defilata e singolare come quella di Curro Claret che, nonostante i pubblici riconoscimenti di valore, resta fedele a se stessa nel perseguire un’impostazione etica del fare design. Nel praticare il design come disciplina “senza oggetto”, da inventare e reinventare ogni volta, attraverso la continua interrogazione dei modi operativi, nell’insistita ricerca delle ragioni che stanno alla radice di quel particolare fare-pensare, e ne giustificano forse le fatiche.

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Frutero malla, portafrutta da tavola, 1999.

Con un lavoro apparentemente sottotono, Curro interroga il senso e la responsabilità – ecologica, economica, sociale e quindi sempre politica – di un mestiere in crisi, di cui è sempre più necessario ripensare e, nella pratica, ridisegnare i tratti.
Lontanissimo dalle star del design, chiuse nel loro genio creativo presunto originale, Curro propone con discrezione esemplare progetti minimi: spesso esibisce oggetti che non sono forme concluse, ma si configurano piuttosto come supporti per azioni di co-produzione, sistemi semplici di aggregazione compositiva e sociale insieme, che molto concretamente attivano procedure aperte, non prevedibili in toto, innescando virtualità per un lavoro in comune.

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Boli papel, fusto per penna a sfera, 1999.

Il bellissimo Conversación polifónica sobre diseño y otras cosas. Retrato imperfecto de Curro Claret, libretto a più voci (quella della compianta Anna Calvera, fra tutte) messo insieme dal critico “para-designer” Oscar Guayabero con la cura redazionale di Ramón Úbeda, uscito già da un po’ per le edizioni Gustavo Gili di Barcellona, ci propone di Curro un “ritratto imperfetto”, attraverso un montaggio di voci in cui si agitano e riagitano tutti gli interrogativi e i questionamenti, tutte le contraddizioni e i dubbi che inquietano il mestiere (e il vivere) del tempo nostro. Mosaico, o meglio assemblage, oggetto composito, questo volume “sul design e altre cose”, in forma di “conversazione polifonica” rimarca la coerenza di un modo di fare design, come continuo invito a mettere in questione quel che crediamo di sapere dei ruoli e dei compiti del progetto – tanto da includere tra le voci d’indice, come caratteri specifici di quel “ritratto”, la grande difficoltà di “lavorare nella contraddizione”, la passione per l’azione che si produce “qui e ora”, la condivisione come nuovo modello di consumo (e non solo), l’empatia e l’amore per l’altro (prima che la magnificazione di sé).

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Lampade Shoelaces, per Metalarte, 2015.

Chi ha conosciuto di persona Curro, dal corpo sottile e dai gesti ampi nel suo parlar itagnolo, lo ha in mente così: sempre attento a bilanciare il discorso e a mai imporsi, mai prevaricare; ogni volta preso ad ascoltare pacatamente le ragioni degli altri e a seminare incertezze, sull’opportunità di intervento, sul senso di fare o di astenersi dal fare; con una disposizione naturale a incoraggiare e mai deprimere, dandosi tempo per pensare a fondo – non alla maniera del professionista teso al risultato immediato, ma come “uno inquieto che progetta” è stato detto. O come designer davvero capace di ascolto. 

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Vasi fatti col catrame raccolto sulle coste di Galizia dopo l’incidente della petroliera Prestige, 2006.

Nel teatro del pratico pensare e del conversare incessante che produce progetto, Curro insegna a mettere alla prova un design che si fa processo schivando le metodologie astratte – invenzioni d’accademia – e che piuttosto, umilmente, confida nei modi inavvertiti con cui esperiamo le cose, per far rivivere le pratiche degli infiniti usi del mondo. O per sovvertirle, se stantie, e così renderci almeno un poco diversi rinnovando lo sguardo e il pensiero, grazie all’attrito con piccole sussurrate scoperte.

I progetti di Curro funzionano come parabole: sono modi per farci riflettere, per suscitare incertezze nella compattezza dei comportamenti diffusi e apparentemente immodificabili. Modi per indurci a mettere in questione le pratiche di consumo e di pensiero a cui siamo fin troppo abituati, lavorando nel cuore delle contraddizioni per guardare un po’ più in là, verso un mondo possibile ora, ma da costruire insieme attraverso rinnovate attenzioni, pratiche minuziose, accortezze che riattivano la capacità di fare esperienza.

Piccole accortezze: della fruttiera in tondino d’acciaio, che si completa con la reticella delle arance prese al supermercato, e che porta in tavola il package inelegante usa e getta, per prolungarne la vita nel pur breve intervallo tra uso e discarica. O, ancora, quella non di negare, ma di sovvertire e criticare a fondo il produrre uniforme dell’industria, ricorrendo all’industriarsi ingegnoso, a costo zero, del riuso: un po’ di carta arrotolata sulla cannuccia d’inchiostro fa lo stelo della penna biro, di forma spessore colore sempre nuovo e adatto, in virtù di una ricetta semplice che riporta al grado zero le competenze necessarie al fare, e che pertanto non esclude nessuno, né lo esime.

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Mesa migas, sistema antispreco per tagliare il pane e nutrire gli uccelletti, 2003.

Altre volte sono attenzioni delicate, quasi-poesie: come provarsi a far fiorire, da vasi difformi, il catrame sversato sulle coste galleghe; come salvare le briciole del taglio del pane per offrirle agli uccelli – valorizzazione del poco o quasi niente, che è già molto per chi soffre là fuori nell’indigenza, nel freddo. Mentre la “buona idea” di accomodare nella casa di Dio l’ospite bisognoso di riposo, migrante o senza casa, su panche a ribalta dove l’inginocchiatoio si fa sostegno e la spalliera altra metà del letto, ha la forza, l’intensità di una preghiera laica, in cui l’accudimento dei corpi incarna lo spirito di un’amorosa cura.

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Momenti della progettazione e realizzazione dei negozi Camper, 2012-2014.

Gli allestimenti dei negozi Camper di Barcellona (2012) e di Madrid (2014), realizzati con l’aiuto delle fondazioni Arrels e San Martin de Porres per l’accoglienza e l’integrazione di persone disagiate, come pure le lampade per Metalarte che sempre disoccupati, mendicanti, migranti, senza tetto fanno, annodando sul semplice telaietto in metallo elettrosaldato lacci di scarpe o sfilacci di jeans usati, nascono dentro la contraddizione in cui tutti viviamo, noi bianchi assicurati occidentali moderni. Non ignorano, non negano affatto, lo stridore tra la strada e la galleria d’arte, tra showroom e favela: vivono di questo squilibrio, di questo cortocircuito tra luoghi incomunicabili, opposti, traendone occasione per sperimentare attivamente, riaprire comportamenti e riflessioni, produrre questioni senza predicare in astratto una imprecisabile (e falsa) “partecipazione” al progetto. 

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Por el amor de Dios, panca-giaciglio per chiesa, versione iniziale, Barcellona 2010. Foto Xavier Padrós.

Certo, perché ciò accada occorre decidersi per l’esperienza, invece che cedere al giudizio facile, al pregiudizio che vede il mondo tutto o bianco o nero. Bisogna aprire i muri delle separazioni sociali, screpolare l’arroganza e la chiusura delle proprie indottrinate certezze: delle volte invitando a lavorare insieme, su un progetto, chi custodisce un sapere che lo sguardo saputo dell’esteta sprezza ed estingue – il pittore copista Mihai, chiamato a riprodurre con abile tecnica ad olio i vecchi manifesti delle campagne Camper, per inserirli nel negozio come pannelli di arredo e di racconto – ; più spesso rivolgendosi all’umanità di chi – come noi tutti – sa e può fare, e però non sa di saperlo, né di esserne in grado.
Col risultato, tra gli altri, che può perfino diventare accessibile, comprensibile e umana quella cosa misteriosa che chiamiamo “design”, o “progetto”: “la parte che non si vede delle cose che vediamo”, come lo dice Valerio, traendo la sintesi da un’esperienza di lavoro in comune.

I progetti di Curro denotano un’attenzione, minuziosa e ampissima al tempo stesso, che impedisce di ridurli agli esiti formali. Come nelle lezioni più alte dell’arte contemporanea, essi sono tracce: attraverso la forma delle cose – e certo, senza mai prescindere da questa – qui è in gioco l’attivazione di processi produttivi e ideativi, sempre contestuali. Non c’è dunque solo la “cosa”: ma in questa, attraverso di questa, c’è il tempo e il segno del lavoro umano che la precede, che ne accompagna la formazione, e che la segue, nei mille modi della ricezione. Negli effetti che produce per gli sguardi e gli usi di tanti umani diversi.

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La Pieza T300 (chiamata così per errata interpretazione del nome del file che la ritraeva), schizzi di progetto e ritratto.

Il suo capolavoro è forse la “pieza”: il pezzo – “fazzoletto” o piastra di giunzione – da situare al cuore di un oggetto autoprodotto, come può essere una sedia un tavolo una lampada, a garanzia del suo consistere, del suo “stare insieme”. La Pieza T300 è un triangolo di lamiera piegata e forata che fa da supporto per una “scrittura” dell’oggetto (un po’ come i quadretti del foglio, per chi comincia paziente a tracciare una lettera dopo l’altra). È occasione – movente, o invito – che di un oggetto predispone, prima che la forma, la possibilità strutturale e di coesione. Un giunto semplice per una serie non conclusa di possibili aggregati – diversissima, in questo, dalla storica serie di lampade di Enzo Mari (detta Aggregato, appunto) composte di elementi perfetti, calibratissimi, di una bellezza asciutta e minimale. 

Con Curro nessun gesto, da parte del designer, che non sia quello di un ritrarsi discreto, a cosa fatta… di un ritirarsi o nascondersi nel cuore della cosa. E, prima, nessuna intenzione che non sia che quella di offrire spunto all’attenzione dell’altro, del porgere qualcosa come un oggetto-invito, per iniziare un dialogo e una costruzione possibile – se lo si accetta, se viene – ma che si affida a colui che è mio vicino, e mio pari.

 

Belli di una bellezza diversa e “convulsa”, quegli sgabelli compositi, fatti di parti eterogenee, dalle provenienze disparate e dalle mille storie diverse – come quelle di chi li ha inventati, progettati, prodotti – sono messi insieme con risorse gratuite, con pezzi di cose ancora utili raccolti per le strade, nella convinzione che “riusare è meglio che riciclare”; meglio condividere che possedere. Che io designer valgo qualcosa solo nella relazione con gli altri, anche loro dotati di competenze e saperi, e dunque capaci di apportare qualcosa al “mio” progetto, in una partecipazione non proclamata secondo ideologici manifesti, ma praticabile davvero nelle cose. E nella consapevolezza che “se un progetto non migliora la vita di chi lo usa o di chi lo produce, allora non vale proprio la pena di esser fatto”.

 

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Applicazioni della Pieza: schizzi di sgabelli per negozio Camper. 

Per approfondire: 

Oscar Guayabero e Ramón Úbeda, Conversación polifónica sobre diseño y otras cosas. Retrato imperfecto de Curro Claret (edizione originale Camper, 2014; poi GG, Barcellona 2016)

Fulvio Carmagnola, Design. La fabbrica del desiderio, Lupetti, Milano 2009

Il documentario sulla realizzazione del negozio Camper di Barcellona: 

In copertina, Applicazioni della Pieza: altri sgabelli, tra quelli fatti da “una donna che fa le pulizie, un venditore ambulante che vende false borse di marca, uno che raccoglie metallo per le strade, una prostituta, un pompiere che ha usato il legno di un bosco incendiato” per la mostra More than this, 2014. Foto Juan Lemus.​​​​​​​

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