"Artista sarà lei!" / Ferdinando Scianna. Istanti di luoghi

18 Maggio 2017

Ho visto questa mostra accompagnata da Ferdinando Scianna. L’ho ascoltato, ancora una volta, raccontare vive voix, con piglio istrionico, storie di memorie private o incontri straordinari (tra i molti, quelli con Leonardo Sciascia, Renato Guttuso, Jorge Luis Borges, Foucault e Barthes, Calvino, Melotti e Cartier-Bresson) e rispondere a ogni domanda con l'aria di chi, in verità, ha già risposto; eppure, con la generosità di un maestro coltissimo e appassionato, per il quale la ripetizione non è un fastidioso dovere, ma un dono da condividere, l'antico perpetuare oralmente conoscenza ed esperienza. Scianna sfugge a ogni definizione, rifiuta qualsiasi etichetta di genere; fotografo, saggista, amico di scrittori e innamorato della letteratura, non si considera un artista (artista sarà lei! – è solito replicare, come fosse una specie di insulto), ma uno che di mestiere ha sempre fatto il reporter. Senza dubbio è un fotografo che scrive: «amo la lingua italiana; ho fatto molte cose e scritto tantissimo» dice, distinguendo quella sottile, ma determinante differenza per cui in italiano si fa un mestiere, mentre in francese si è – in questo caso, fotografi – come a ricordarci che non si è determinati dal proprio lavoro, se mai, dal come lo si compie; e una sola cosa è certa, bisogna farlo bene, con responsabilità, senza sfruttare con ipocrisia le pulsioni collettive, ma: «mettere nelle foto la propria angoscia e la pietà, non pretendere di cambiare il mondo con la tua fragilità, non fuggire», in altre parole – quelle del proiezionista Alfredo, ricordate? «Qualunque cosa farai, amala».

 

Ferdinando Scianna, Bolivia 1986

 

In un saggio di qualche anno fa, "Etica e fotogiornalismo", ribadisce, con l'umorismo acuto che gli è proprio, la funzione deittica ed ermeneutica delle immagini, atte a mostrare, non a dimostrare: «la fotografia mostra il morto, raramente la causa della morte e, in quanto all'assassino, quello ce lo mettiamo sempre noi». Allo stesso tempo, si preoccupa di aggiungere che «l'atto del fotografo è più simile a quello della lettura che della scrittura: [il fotografo] è il lettore del mondo». In quanto cittadino, chi scrive o fotografa si assume un dovere, quello di «analizzare quello che fa e che fanno gli altri, per situarsi». Prendere una posizione, testimoniare, esserci ed essere-nel-mondo e nel tempo, cogliere la possibilità dell'esistenza, comprendere le inclinazioni e i desideri dell'essere umano.

 

Ripensando alle immagini dispiegate in un impeccabile percorso espositivo, cerco parole per dire di questo viaggio intorno al mondo durato oltre 50 anni, che Scianna ha raccontato attraverso una selezione di 90 fotografie, tutte dedicate al paesaggio e tutte in bianco e nero, con vaste campiture d'ombra, per lo più molto contrastate e definite, raccolte nel suo ultimo libro edito da ContrastoIstanti di luoghi: titolo già molto indicativo: rimanda tanto allo spazio quanto al tempo di questo inesausto peregrinare – che accompagna, arricchendola, la mostra che da questo progetto editoriale prende il nome e la forma, e che del volume accoglie oltre 50 scatti – anche le didascalie minime riportano solo il nome del luogo e l'anno dello scatto. 

In questo caso, forse, il bisogno di cercare parole è ozioso: in primis perché «dei geni non vale la pena parlare» (Scianna si riferisce a Giacomelli; se facessi mio questo suo pensiero, non dovrei scrivere neanche di lui), ma soprattutto perché l'autore ha voluto che di questi luoghi parlassero solo le sue immagini: questi scatti non hanno bisogno di essere accompagnati da altre parole né, tanto meno, da parole altrui, perché sono già dense di testi. 

 

Ferdinando Scianna, Etna 1973

 

Diversamente dai suoi lavori più noti, foto-testuali, dove i due linguaggi, letterario e fotografico, sono complementari e si contaminano a vicenda, in questo caso le parole, poche, sono affidate alla copertina del volume che riprende l'essenza della brevissima introduzione dell'autore (il cui ingrandimento apre anche il percorso espositivo, che si gioca sui contrasti del bianco e nero delle stampe spezzato da un pungente rosso guida) – e all'esergo del 'maestro, amico, angelo paterno fino all'offesa della fine' Leonardo Sciascia: «Ce ne ricorderemo, / di questo pianeta».

Tra le mani non abbiamo un semplice catalogo, ma un prezioso diario di viaggio di sole immagini, in formato album; da sfogliare per ridisegnare la lunga rotta di una complessa geografia emozionale. Il fotografo ha cominciato a pensare l'oggetto-libro perché «fare libri è stato, mi sembra, l'obiettivo di tutto il mio fotografare». 

Questo progetto è da guardare tutt'occhi, come un album privato di ricordi, «con il pathos con cui guardiamo nostro album di famiglia». In un rapporto di intimità e tangibilità come quello che lega due amanti, una madre e il proprio figlio, il contadino e la sua terra, lo studioso e i (propri) libri. Costruire questo album, è stato per l'autore come un gesto simbolico, di riflessione e cernita, di lavorio sulla memoria, che permette alle emozioni di riaffiorare con estrema intensità. Il processo di selezione – il tempo dedicato alla scelta per stampa o l'impaginazione – è connesso a un atto rituale di elezione, che sancisce il ruolo e l'importanza determinante di un'immagine nella propria narrazione, emotiva prima ancora che tecnica. Solo così l'immagine diventa unica, nella sua conquistata infinita riproducibilità. E, in quanto unica, risplende

Per presentarlo, l'autore fa riferimento a Ossi di Seppia, raccolta lirica di Montale in cui riscontra probabilmente un'affinità di paesaggio, così scarno ed essenziale, come d'intenti. 

 

Se si considera poi questo lavoro come un tentativo di sintesi di un continuo esplorare, la narrazione del viaggio diviene complementare al suo autoritratto. Le fotografie non raffigurano semplicemente dei paesaggi, ma «sono luoghi che esistono, incontrati senza averli cercati, che hanno chiesto: fammi una foto». Come s'incontra uno sconosciuto in metropolitana, il cui volto, la cui posa, per qualche motivo ricorderemo per sempre. Il fotografo soddisfa l'esigenza narrativa di questi spazi testimoniando il desiderio che muove il suo sguardo, la passione che lo fa 'lavorare sveltissimo', per poter poi finalmente, semplicemente, andare a fotografare. Nascono così questi ritratti di paesaggi: s'imbatte lo sguardo sui profili del creato, ne percorre e accarezza le linee, di cui sono ricchissimi: rughe del tempo, segni tangibili del lavoro dell'uomo e del suo rapporto con la natura (dominatrice domata) e questo mondo in cui è stato gettato prima ancora che imparasse a sillabare. A loro volta, questi profili ritraggono l'uomo che li ha guardati, in un gioco di specchi e ri-conoscimenti. Diversamente da Narciso, il fotografo può specchiarsi nella realtà, riconoscere in queste opere il proprio paesaggio interiore, evocato dalla pluralità dei paesaggi del mondo, divorati con gli occhi e l'irruenza degli innamoramenti adolescenziali e quella più sensuale degli amori più maturi.

 

 

Ferdinando Scianna, Roccamena 1963


«Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?»

 

La successione non è né cronologica, né geografica: segue il ritmo interiore di uno sguardo che in questi spazi (in sé per eccellenza, l'evidenza del dove) si avventura, cercando di entrare in contatto, di avvicinare ciò che vede. L'occhio è così toccato dall'impatto con il mondo, e lo restituisce al visibile mediante la pressione di un dito sull'apparecchio fotografico.

«E la corrente rapida e soave 

più sempre avanti sospingea la nave»

 

Sempre più avanti, lungo tutta l'Italia mediterranea, passando per la Puglia e la Calabria, giunge a Napoli per poi risalire alle Cinque Terre, al Delta del Po, fino a Venezia. Da qui il percorso si distende, si ramifica come una stella in ogni direzione su questa terra che abbiamo tutti ereditato: la prima, nonché una delle rare immagini molto sgranate e in chiarissime tonalità di grigi, è quella scattata alla porta del Sahara, appena oltre la città di Douz, in Tunisia (1969): è un invito a seguire l'esortazione a uscire nel mondo? A varcare una soglia, prendere atto di un limite? Il vento monta la sabbia fine e travolge la resistenza di qualche palma solitaria, che delinea appena un primo, più vicino orizzonte, mentre due beduini fantasmatici nell'angolo basso a destra, danno misura di pesi e distanze. Vorrei vederli danzare. La presenza umana, che tanta parte ha nella storia fotografica di Scianna, è qui ridotta principalmente a dettaglio di una cartografia naturale universale, a pura presenza-assenza contingente, a tracce di passaggio, d'opera e uso. 

 

Per superare questo limite, Lucio Fontana ha aperto una feritoia sulla superficie della tela pittorica. Il fotografo sembra fare lo stesso con una ripresa aerea della Val Padana, ne percepiamo dall'alto la compatta texture, tagliata da un canale, come se in questo modo si potesse sollevare un lembo di campo e vedere sotto, cosa nasconde. Custodirà il seme, alimentandolo, mentre altrove, nello stesso cielo sulla pianura, si solleva in volo uno stormo di oche selvatiche che traccia l'arcana traiettoria a v nel grigiore rassicurante del cielo padano: de rerum natura

Con più violenza, invece, la terra si apre sull'Etna (1983), lasciando lacrimare il magma caldo, che brilla e fuma, tra le fenditure dei versanti; si dice che il fuoco cicatrizzi le ferite. 

Di Tindari, l'anno seguente, ci mostra la vegetazione pungente, le sinuosità della spiaggia che porta con sé l'enigma di un nome: Maria (vedete? È proprio lì, a destra, sulla sabbia). 

La costa adriatica e quella ligure, in modi diversi, delineano in modo netto e quasi astratto e metafisico i propri labili confini. I trattori firmano il loro passaggio sulla terra bruciata delle colline marchigiane

Negli Stati Uniti, Scianna segue l'onda dei dossi stradali di San Francisco e le rotaie dei tram che si piegano in salita; le automobili parcheggiate in divieto di sosta a Los Angeles, sorvegliate da un' immobile sagoma di cowboy o quelle incidentate, a New York. 

 

Gli istanti Boliviani risalgono al 1986, tra cui un ritratto essenziale dell'altipiano, che nella sovrapposizione di piani sembra una stampa bidimensionale nipponica, per la pulizia delle linee, l'alternarsi dei chiari e scuri degli strati terreni, fino all'ergersi di un alto monte della cordigliera andina, sormontato dal passaggio di lunghe nuvole distese, che si fanno però minacciose sul villaggio di Kami, completamente sprofondato nella loro densità. 

Scianna condivide un'emozione affiorata di fronte a un panorama naturale straordinario, come il deserto salino di Uyuni: «mi sembrava un'immensa coperta bianca all'uncinetto, di quelle che faceva mia madre». L'orizzonte sottile si contiene a stento nel taglio alto dell'inquadratura, e sulla superficie di cristallo, dove immagino di vedere squame di un drago e di avvertire il sordo crac del guscio di un uovo che accusa un rapido colpo. 

Così diverso dall'aspro deserto dello Yemen, macchiato di palme e sormontato da una parete rocciosa che si leva alta nella nebbia, simile a quella di Vulcano, nelle Isole Eolie, petrosa come il deserto di Saqqara in Egitto e le rime di Dante. 

 

Ferdinando Scianna, New York 1976

 

A queste ampiezze, fa da controcanto la linea lontana della costiera napoletana, umiliata da uno scempio di rifiuti, muro invalicabile di immondizia che, come altri luoghi, ha domandato di essere guardato, con compassione. 

 

La luce disegna i luoghi e ad essi appartiene intimamente: Scianna ricorda come la condizione ideale per fotografare di Cartier-Bresson fosse quella di una giornata luminosa, ma senza troppo sole, velata, che non rendesse le ombre profonde e marcate, tipica della Normandia; al contrario, la luce di Scianna è luce della Sicilia, una luce 'nera e sensuale', grazie alla quale l'ombra dà letteralmente forma alle cose, produce contrasti taglienti, brucia la pelle e abbaglia lo sguardo, persino con violenza: «la luce non è soltanto un fatto atmosferico, ma una metafora esistenziale» perché, continua, la propria educazione sentimentale visiva si costruisce a partire dalle proprie radici, intorno agli incontri di una vita, ma anche grazie alla luce di quei luoghi dove si è cresciuti, che agisce da filtro interpretativo. 

Ci sono fotografi, e Scianna è senza dubbio uno di questi, per i quali il con-testo, la trama e il tessuto entro cui si inserisce la sua produzione di immagini, è determinante in funzione della loro comprensione: «il contesto, nella sua accezione culturale, storica, politica ed esistenziale producono cortocircuiti che diventano insegnamenti importanti. La Sicilia è un luogo dove l'eccesso ti guata». Così Scianna ha imparato a difendersi dalla retorica dell'urlo, da un'idea di dolore teatralizzato, proprio perché esposto alla rappresentazione della sofferenza gridata a gran voce, come se la potenza del pianto, potesse dare misura della profondità di un intimo dolore, più del silenzio. 

 

Il viaggio ha inizio con una fuga. La fuga da questa sua Sicilia (perché dalla Sicilia si può solo fuggire e non tornare più) terra madre che, in quanto tale, lascia un'impronta, determina lo sguardo, e – inevitabilmente, contro ogni resistenza – lo struttura e modella; Scianna racconta a più riprese, la sua avventura di fotografo come fuga da un destino piccolo-borghese già segnato dalle aspirazioni paterne. Così ha fatto di un gioco – una macchina fotografica ricevuta in dono – e della sua fascinazione di bambino – trascorreva pomeriggi interi al cinema Corso, la prima camera oscura della sua vita, proprio come il piccolo Totò di Nuovo Cinema Paradiso di Tornatore – un mestiere. Il regista è baariota come il fotografo: di Bagheria e sicilianità hanno conversato a lungo e intensamente, assaporando insieme «la perfezione da idea platonica della crostatina di fragoline di Ribera che in maggio, per la delizia del palato e dello spirito, usciva da quella magica pasticceria» [il bar pasticceria Aurora, in Corso Umberto cfr. Ti mangio con gli occhi, 2013]. 

 

A tratti, si incontrano fotografie in una duplice cornice, tutte tecnicamente costruite su perfetti giochi prospettici e simmetriche geometrie. C'è quella scattata nella campagna friulana (1995) attraverso un rettangolo aperto in una parete di vecchio rudere: in lontananza le cascine, e accanto, ciò che resta di un manifesto pubblicitario strappato; c'è un 'paesaggio tangenziale' della pianura pavese ripresa dal vetro anteriore di un'auto, dev'essere mattina, piove, non c'è nessuno, se non il guidatore e il fotografo – in absentia, la vegetazione intorno è metallica, elettrica: pali della luce, semafori, divieti di accesso e precedenze. 

La laguna di Venezia sembra ripresa in 16mm attraverso la striscia di plexiglas di una fermata di vaporetto, completamente imbrattata da vandalici tag, ma che, incredibilmente, sovrapponendosi alla veduta incorniciata da assi lignee, attraverso il filtro dello sguardo di Scianna, le conferiscono un non so che di perturbante. 

 

C'è poi un angolo scorciato di una finestra viennese, resa opaca dall'umidità della pioggia d'inverno che affaccia su quella che potrebbe essere la corte innevata del Belvedere. 

Un'altra finestra, a San Pietroburgo, è aperta solo a metà: rende visibile la parte destra di una veduta sul Mar Baltico, allorché a sinistra il vetro opaco ostacola la fuga dell'occhio.

In Sicilia, a Sant'Elia, ce n'è una, invece, con le persiane non ancora spalancate (è l'ora più calda del giorno) che conducono lo sguardo all'orizzonte, su un mare luccicante. 

Uno sguardo che si lancia oltre la cabina di guida di un treno regionale siciliano diretto chissà dove, comunque, sicuramente, lontano. Sembrano saperlo i quattro uomini di spalle, seduti al sole (un incauto è senza berretto, due portano la coppola, uno è protetto dalla chioma medusea) su un'altura che domina Roccamena; pur nella ruvidità della resa, sembra davvero un locus amoenus, bucolico passaggio del Belice. 

L'ombra del fotografo che si ritrae mentre è intento a fotografare l'orizzonte sulla punta di Capo de Gata (Spagna, 2001) – richiama l'ombra dell'albero che tende verso l'antico tempio del sito archeologico di Paestum – è posta come ultima immagine: firma dell'uomo che dopo tutto guarda ancora avanti, a ciò che verrà dopo: si chiude così il libro, ma non il viaggio. 

 

La fine ci riporta all'inizio. Già da qualche tempo, una sala dello Spazio Forma Meravigli è riservata alla documentazione editoriale e cartacea, per approfondire alcuni aspetti degli autori presentati e delle mostre in corso. Per questa mostra in particolare, questo spazio diviene fondamentale. È una festa per i bibliofili che possono indugiare a lungo tra tutti i materiali esposti (c'è anche un bookbar, dov'è possibile consultare le fatiche imago-testuali del maestro, in particolare i tre volumi della collana In Parole di Contrasto; oltre a Ti mangio con gli occhi, sopra già citato, anche Visti&Scritti – da cui è tratta la rubrica su Doppiozero e Obiettivo ambiguo, l'ultima raccolta di testi critici e saggi sulla fotografia). 

Questo percorso parallelo ritrae il fotografo attraverso gli oltre '15 libri pubblicati' – alcuni ormai rari, se non introvabili e preziosissimi; a partire dalla prima edizione (1965) di Le feste religiose in Sicilia al menabò de I Siciliani (Einaudi, 1977) fino a Le forme del caos (1989) con i testi di Sciascia, al reportage sul villaggio-accampamento di Kami, in Bolivia (1988), cercando di raccontare, mostrando, con umiltà e orgoglio la vita di questi uomini perché «le fotografie che pretendono di dimostrare, sono quasi sempre cattive fotografie».

 

La sorpresa e felicità di chi sta scoprendo qualcosa di nuovo, il senso di colpa sottile per il confessato tradimento – con allegrezza! della propria etica ed estetica, nel fotografare l'indimenticabile, giovanissima Marpessa per la campagna 1987/1988 di Dolce&Gabbana (allora misconosciuti e squattrinati) perché «legge era il rifiuto della messa in scena e della finzione». 

La piccola mania di Dormire forse Sognare (1997) di scespiriana memoria, per «ritrovare nelle fotografie un fatto così naturale, cosi quotidiano, cosi universale e che pure è rimosso, al quale ci si abbandona quasi di nascosto, di solito in luoghi protetti, perché sappiamo che ci consegna inermi all’arbitrio altrui». Con quello che considera il suo libro più difficile e appassionate, Quelli di Bagheria, nel 2002 torna in Sicilia, per ricostruire e riappropriarsi della memoria, personale e soprattutto collettiva. 

Quanto ai cinque volumi mai pubblicati, mancati, che esigono però una forma di presenza: «succede che viaggiando dentro i labirinti del mio archivio, incontri un tema, una storia, una piccola ossessione formale che ho voglia di fissare, ricordare, dargli forma. Allora mi costruisco un librino, in una sola copia, soltanto per me», come Fotografatevi, fotografie e Attraverso. 

 

Ferdinando Scianna, Istanti di luoghi, Fondazione Forma per la Fotografia – Spazio Meravigli, Milano (fino al 30 luglio 2017).

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