Speciale
Marina Ballo Charmet: guardare di sbieco
Marina Ballo Charmet, milanese (non di dice l’età delle signore ma la si deduce), ha un percorso del tutto originale, fuori da ogni schema. Si leggerà a chi si sente vicina almeno come atteggiamento e apparenza dei risultati, ma a partire dagli anni Novanta occupa un posto unico nel mondo della fotografia d’arte.
La sua formazione di psicologa dell’infanzia le ha fornito dei presupposti che fanno le sue immagini simili ma in realtà non paragonabili a quelle di nessun altro. Lo sguardo del bambino, preconscio – potremmo scimmiottare definendolo “il preconscio ottico” o “fotografia e preconscio tecnologico” –, periferico, fluttuante, affettivo è quello che vuole restituire con la fotografia. Un paradosso, un ossimoro, perché la macchina non possiede tali caratteri, da cui la singolarità dell’impresa. Ciò a cui non prestiamo lo sguardo – nei due sensi dell’espressione –, ciò che è ai suoi bordi diventa il centro dell’immagine affinché riveli appunto lo sguardo più che sé stesso: un dettaglio di marciapiedi, il pavimento della casa, la fila dei balconi visti da sotto, il mento di una persona non sono tanto significativi in sé quanto, così come sono ripresi da Ballo Charmet, ci sintonizzano su un sentire che ci tocca nel profondo, risvegliando empaticamente i moti di una sensibilità altrimenti assopita.
Ballo Charmet tocca un potere dell’immagine fotografica a cui pochi altri attingono. Dura e netta nelle sue serie, con l’accostamento del colore e di tematiche sociali come la periferia urbana, i parchi dove si ritrovano gli extracomunitari, con l’ultima serie poi, con soggetto raro come la paternità, ha stravolto visivamente il suo punto di partenza fino a rasentare il sovraccarico di emozione, quasi l’allucinazione, forse l’onirico. Sicuramente ci aspettano ancora nuovi esiti imprevedibili.

EG: Iniziamo con la serie Con la coda dell'occhio.
MBC: Avevo già fatto con un progetto precedente, nel 1989-90, che era Il limite, sul bordo della Bretagna ed era un lavoro soprattutto sulla luce, che è quello che mi ha sempre interessato. Lì la luce diffusa, nelle spiagge del nord della Francia, che annullava il limite tra il cielo e la terra, o anche l'acqua.
Scegliendo questa foto di Con la coda dell'occhio questo argomento torna attraverso il fuori fuoco, c’è sempre qualcosa di fuori fuoco, perché il discorso di fondo è il nostro vedere di sfuggita, in modo periferico, non attentamente, non analiticamente, quindi non vengono messi in luce i dettagli della cosa che stiamo guardando. Questo vorrebbe restituire l'esperienza dello stare nel luogo, dello stare lì e avere di fronte questa cosa che vedi, che vedi per di più di sfuggita perché non è una cosa bella o attraente, eppure è qualcosa che vediamo sempre, è il qualsiasi, il banale, il quotidiano, quello che vediamo sempre quando camminiamo per la città.
EG: Anche qui è il limite, ma quello della visione, di situazioni e condizioni visive al limite.
MBC: Sì, per come ho usata la fotografia, per come mi interessava, non è tanto il fatto di riprendere la cosa che vediamo analiticamente, il far vedere ciò che stiamo guardando quasi meglio che col nostro occhio, ma invece usare la fotografia per dare l'idea di quello che noi stiamo vedendo, come noi la vediamo – che è un po’ quello che diceva Jonas Mekas –, il nostro vedere quotidiano, il nostro quotidiano metterci in rapporto con le cose.
Il vedere è il percepire, secondo me, è qualcosa che è legato alla percezione, e al sentire anche. In qualche modo gli occhi sentono. Il contatto con il mondo. Rimando in questo senso a Merleau-Ponty, il tatto-contatto col mondo, è proprio questo che mi interessa.
EG: È il bordo dello sguardo piuttosto che della cosa rappresentata. Fotografare lo sguardo piuttosto che l'oggetto.
MBC: Sì, proprio questo.
EG: Questo è rimasto in tutto quello che hai fatto. Qui si riflette anche sull'idea della periferia, che so che ti è caro, la periferia della città, in contrapposizione al centro.
MBC: Sì, il margine della città, sicuramente, ma poi anche gli aspetti di marginalità anche nel centro della città, in quelle zone dove però trovi delle cose che sono al margine.
C'è inoltre il discorso sullo scarto, che si ricollega poi alla mia formazione, al mio lavoro di psicologa dei bambini. Il margine è il preconscio, è qualcosa che è legato alla nostra percezione preconscia, al nostro vedere appunto periferico o comunque non razionale, più irrazionale. Quindi c'è l'aspetto dello scarto, in questo senso, qualcosa vicino al lapsus, qualcosa che sfugge, che non è centrale. Che però viene messo al centro. Molti guardando le fotografie di Con la coda dell’occhio obiettano: però sono centrate. Sì, ho fatto proprio questo, di mettere al centro delle cose che solitamente sono alla periferia.
EG: Ho sentito anch’io spesso questa obiezione: la macchina fotografica non ha una “coda dell'occhio” quindi rimette al centro, ma questa che sembra una contraddizione è invece il senso stesso del lavoro.
MBC: Certo, il titolo non va preso alla lettera, è una formula della questione che viene affrontata.

EG: Bene, passiamo a Rumore di fondo. Il progetto comporta due serie, una di interno e una di esterno. In quella di esterno si vedono delle infilate di balconi guardati da sotto. Tu hai scelto una immagine di quella di interno.
MBC: Sì, questa con la porta. È il semplice, l'ordinario, il qualsiasi, quello che vediamo sempre di sfuggita e non guardiamo mai, perché non ci interessa guardarlo, non è bello, è fuori dalla nostra centralità, dalla nostra attenzione e semplicemente esiste. È la nostra vita – banalmente, senza retorica –, la banalità del quotidiano, la normalità.
EG: Queste sono forse le tue immagini che sconcertano di più l'osservatore proprio per questo aspetto di banalità ancora più forzata rispetto allo stesso marciapiede.
MBC: Comunque nella storia dell'arte c'è ben altro! Si spaventano per poco.
EG: Eh sì! Comunque qui hai spinto molto avanti questa questione.
MBC: Bene, mi fa piacere.
EG: Su questo tema hai girato anche più di un video.
MBC: Anche Passi leggeri (1999), che è quello in cui ho messo la macchina da presa legata alla cintura camminando per casa, per cui la macchina viene accompagnata dal corpo, diventa un occhio-corpo; poi invece l'ho messa dietro e lì invece il corpo va avanti e la macchina tende ad andare in là, indietro, quindi diventa un altro modo di fare esperienza dello spazio e di vedere i nostri passi nella casa. Diventa ancora più importante il tema del caso.
EG: Ecco questo tema del corpo è molto importante. Erano gli anni in cui si parlava molto di embodiment. Lo dico per una riflessione collaterale, perché l’argomento era molto impugnato anche dal femminismo e a me interessa notare come, anche qui, tu non lo metti come “rappresentazione-illustrazione”, non lo impugni, ma lo moduli secondo il tuo percorso. Cioè il tuo non è un femminismo tematico, bensì formale. Spesso, nei discorsi e nelle mostre non si tiene conto di questo aspetto.
MBC: Di fondo, credo di sì, anche se non c’è dichiaratamente. Il mettersi a fare le fotografie in questo modo secondo me c'entra. E anche con il modo di vedere, cioè le cose legate al preconscio, quindi a qualcosa che sta sotto il livello razionale – e il razionale io lo associo alla visione analitica e definita –, secondo me lì c'è un mondo che è più in rapporto con il femminismo, cioè a qualcosa che non è legato all'articolazione, non è articolato.

EG: La terza immagine è della serie Primo campo e qui entra in scena proprio il bambino. Anche qui non in quanto raffigurato, ma il suo sguardo.
MBC: Sì, è il suo sguardo quando è in braccio alla figura familiare.
EG: Che è uno sguardo affettivo, potremmo chiamarlo così.
MBC: È esattamente questo, bello, “sguardo affettivo” non l'avevo ancora mai sentito. Sì, è qualcosa che ti dà l'idea quasi dell'odore, dell'essere vicino, della prossimità. Lo stare in braccio del bambino e quindi il vedere una parte per il tutto. Ho ripreso la zona che il bambino, secondo me, immedesimandomi, dovrebbe vedere, ed è uno sguardo quasi di “tatto”, e olfattivo anche, qualcosa che passa dai corpi. La visione è qualcosa che rimanda al tatto. Credo di averla restituita bene, che si senta, perché c’è la barba, sempre un po’ di fuori fuoco, quindi l'idea del non nitido, non definito.
EG: Trovo molto importante e anche efficace la stampa a dimensioni molto grandi. Qui le dimensioni – che sono spesso un argomento discusso, spesso accusate di dimostrazione più decorativa e mercantile che di senso – sono di grande efficacia perché sono un altro elemento che toglie un eventuale aspetto illustrativo.
MBC: Giusto, il discorso sull'illustrazione mi sembra fondamentale. Effettivamente l'aspetto illustrativo è l'opposto di quello che cerco. Con questi lavori volevo dare l'idea non tanto del vedere, non tanto l'oggetto definito, i dettagli, ma appunto con gli occhi del bambino che sta in braccio e quindi anche un sentire, lo stare vicino, la vicinanza. Per me l'uso della fotografia non è perché tu veda meglio, in modo analitico, la cosa che stai presentando, ma quest’altra visione, l’esperienza dello stare in rapporto con la vista e non solo.
EG: L'altra cosa, se posso fare una forzatura, forse, il grande formato mi fa sentire bambino, un bambino a mia volta ingrandito, se così posso dire – una questione di proporzioni –, quindi mi fa entrare ancora di più.
MBC: Sì, l’ho spiegato anche nel libro che ho scritto (Con la coda dell’occhio, Quodlibet 2017).
EG: C'è anche il passaggio al colore.
MBC: È vero. Non so dirti bene come è successo, a un certo punto ho pensato che quel tipo di lavoro funzionava meglio se lo portavo alla neutralità, a presentare quello che tu vedi, quindi non più il bianco e nero che ti può dare anche delle possibilità di immaginare, mentre se tu hai di fronte una “presentazione” di quello che è il colore della carne, della pelle e di altre cose che sono così reali, molto semplici, molto quotidiane, per me l'importante è che non ci siano effetti. È un colore molto neutro.
EG: Però c'è una coincidenza che ho notato, anticipando quella che sarà la serie più recente, anche lì c'è un lavoro nuovo sul colore e ancora il tema è il rapporto del bambino con il genitore. Sembra quasi che i passaggi di questo tipo formale avvengano su questa tema.
MBC: Sì, c'è un filo, c'è sicuramente un filo.

EG: Quarta immagine, i Parchi. Cosa hai scelto?
MBC: Io avrei scelto un trittico, anche se si vedrà meno bene.
EG: Sì, bene un trittico, così affrontiamo anche questo argomento.
MBC: Questo a me piace molto perché è tutto “sbirolo”, cioè è uno smontaggio, non è un montaggio, perché non sono in ordine, non c'è una continuità. Nei miei trittici c'è sempre la discontinuità, la non-narrazione, l'interruzione della narrazione, della lettura da sinistra a destra. Com’era già la sequenza della Bretagna, Il limite.
EG: A proposito, non abbiamo parlato di altri artisti che hai guardato. Qui per esempio a me viene in mente la serie Duration pieces di Douglas Heubler sul tempo.
MBC: Sicuramente di Huebler anche l’aspetto del presentare le cose come sono. Altri riferimenti sono, come citavo anche prima, quelli del cinema americano indipendente, Jonas Mekas, o Chantal Akerman, come videoartisti o filmaker. Come fotografi e artisti citerei Henri Le Secq, Raul Hausmann, Lewis Baltz, che è stato importante per me. Poi c'è stato Gabriele Basilico.
EG: La percezione che si ebbe quando tu presentasti la serie dei parchi fu che ti fossi un po’ allontanata dal tuo percorso, un po’ per le immagini non più ravvicinate, non più periferiche, un po’ perché qui è piuttosto l'argomento che pare prendere il sopravvento,
perché sono gli extracomunitari che si ritrovano nei parchi delle città, quindi temi sociali, ecologici e così via.
MBC: Però non c'è una veduta, ma anche qui ci sono delle scene che tu vedi quotidianamente ma non guardi attentamente. Non c'è una costruzione della scena, io tengo molto a questo.
EG: Anche l'inquadratura del basso è molto vicina a quella di Primo campo.
MBC: E anche il fuori fuoco. Certo, era un tema molto difficile.
EG: Qui l’argomento sociale è più presente. Ricordo che facesti anche una serie sui rifiuti abbandonati nelle strade di Milano.
MBC: E poi ho fatto anche i video in carcere, Agente apri (2007), e anche in ospedale, Frammenti di una notte (2004), è vero.

EG: Passiamo alla serie su Piazza Duomo di Milano, quale hai scelto?
MBC: Mi piacerebbe questa che è l'alba, il momento proprio del passaggio dalla notte al giorno, che è una delle cose a cui sono legata.
EG: Ah sì, ricordo che c’era anche un video sul Parco Sempione, in quel caso sul momento di passaggio dal giorno al venir meno della luce, molto suggestivo, con le persone che lasciavano il parco e le luci dei lampioni che si illuminavano. Ma, tornando a Piazza Duomo, la serie l’hai preparata apposta per la mostra in coppia con Basilico oppure l’avevi già in mente per conto tuo?
MBC: Ne avevamo parlato da tempo con Basilico, che poi purtroppo si era ammalato. Avevamo pensato di fare una mostra insieme e ci siamo detti: Cosa facciamo? Se ne parlava anche con Marco Belpoliti. Sono venute fuori tante idee e alla fine siamo rimasti su una cosa di una difficoltà estrema, l'ho buttata lì io stessa, ho detto: Ma secondo te Piazza Duomo è così dura? Mi ha guardato sorpreso ma: In effetti, ho detto, forse la cosa più difficile alla fine è quella che conviene di più. Allora ci siamo detti: Proviamo, e lui è andato e ha fatto le foto dall'alto e io un po’ dal basso, con la mia visione ad altezza di bambino.
EG: Dicci qualche parola sul tuo rapporto con Basilico.
MBC: All'inizio, quando mi sono appassionata alla fotografia, ero già laureata da tempo in Filosofia e lavoravo come psicoterapeuta nel servizio pubblico, era la fine degli anni ’80, ho cominciato a comprare i libri, a seguire le mostre, così ho conosciuto Gabriele. Quello che mi aveva colpito erano delle foto dove c'è l'aspetto dell'ambiguità, soprattutto delle luci, qualcosa che ti porta non solo a vedere quello che stai vedendo ma proprio l’esperienza dello stare lì. Poi ci siamo frequentati e lui era una persona carinissima, oltre che un grande secondo me della fotografia italiana e non solo. Bravo per me anche perché lui nel rapporto – come anche Baltz devo dire, di cui avevo seguito un seminario e poi eravamo rimasti in contatto –, riusciva a far parlare me, senza dire che cosa dovevo fare o che cosa devo cambiare, ma proprio di essere curioso di quello che era il tuo modo di vedere le cose. Anche Baltz è stato molto importante per me.
EG: Torniamo a Milanopiazzaduomo. Qui dunque c'è il passaggio, la trasformazione, il cambiamento della luce.
MBC: Sì, è l'alba e l'idea di questa cosa che vedi sempre, il Duomo, e questa facciata che cambia, cioè prende luce, prende luce e diventa un'altra cosa.
EG: C’è la cattedrale di Rouen di Claude Monet!
MBC: Eh sì, certo.
EG: Anche qui è molto importante l'inquadratura.
MBC: Sì, che non si vede il Duomo, si vede solo una parte.
EG: Sì, occupa proprio metà dell’immagine. Nel video è molto efficace anche il momento in cui la città si anima con l’arrivo delle persone, i rumori, che in fotografia si perde. Poi questo aspetto della luce cangiante l'hai sviluppato anche in altre serie.
MBC: Sì, nei cieli, Centotrentunominuti di cielo (2018-2019), e nell'acqua, Le ore blu (2017).
EG: È voluta questa idea degli elementi primordiali, acqua, terra, aria?
MBC: Non l’ho progettata in precedenza, ma è venuta da sé. E il tempo anche, nel cielo in particolare c’è molto il senso del tempo, perché il lavoro sul cielo è proprio sulla sparizione delle stelle, quando scompaiono le stelle nel cielo, spariscono alla vista, quando il nostro occhio non le vede più.
EG: Passiamo all'ultima serie, Tatay. Partiamo dal titolo.
MBC: Il lavoro è partito dal video dei padri che cantano la ninnananna ai loro bambini (Tatay, 2021). Sono dodici papà stranieri, uno dei quali è filippino e “tatay” vuol dire “papà” in filippino. Mi piaceva la parola come suono, e poi c'è “tatta”, che anche in altre lingue vuol dire papà.
Quel lavoro nasce come intreccio, intersecazione, sovrapposizione, anche dissonanze se vuoi, tra le voci dei padri. Quello è stato l’elemento principale della videoinstallazione. In seguito sono passata a fare le fotografie, con colori molto forti.
EG: Non abbiamo ancora richiamato questa parola che però ricorre nei tuoi discorsi ed è la parola “empatia”. Tiriamola fuori in questo caso, perché a proposito del video io ho proprio pensato che fosse una ninnananna anche per lo spettatore, che è moltissimo coinvolto, ancora una volta fino quasi ad essere lui il piccolo. Voglio aggiungere che credo che questa dimensione dell'addormentamento sia molto importante anche come preliminare alle fotografie, che a me, con la loro elaborazione del colore sovraesposto, senza ombre, vivissimo, sono sembrate...
MBC: Ci ho lavorato moltissimo, a un certo punto volevo dipingerci sopra, poi tra le varie cose ho riguardato i due ultimi film di Jean-Luc Godard e ho visto il colore che cercavo, questa forza dirompente, questa dissonanza veramente molto forte.
EG: L'argomento è sempre il rapporto tra il papà e il bambino o bambina in situazioni diverse.
MBC: Sì, è il contatto, il loro contatto, la zona del loro incontro, del braccio, del tenere, dell'accogliere. In cui non vedi mai loro, vedi proprio il punto di contatto.
EG: E dunque la lavorazione del colore in questo modo era per ottenere che cosa?
MBC: Volevo fare qualcosa che fosse non realistico, non volevo la scena di quel papà con quella bambina che esce da casa sua oppure in piscina o altro, ma che rappresenta qualcosa di che va al di là.
EG: Ecco, come avevo iniziato a dire, a me sembra che abbia un aspetto onirico, quasi allucinatorio...
MBC: Allucinatorio mi piace.
EG: Be’, viene appunto dopo la ninnananna. Diciamo meglio uno stato di passaggio dalla veglia al sonno, come i passaggi dal buio alla luce o viceversa, eccetera, qui addirittura una dimensione percettiva altra.
MBC: Era quello che volevo, volevo che non fosse la scena realistica.
EG: E perché il papà?
MBC: Credo che c'entri col mio percorso lavorativo. Facendo la psicoterapeuta ho visto negli ultimi vent'anni un cambiamento incredibile della figura paterna. Però non è stato progettato, razionale. Quello che per me conta molto è quello che sta sotto il pensiero razionale. Per esempio io scopro che a me vengono molte più idee verso la mezzanotte, cioè ci sono dei momenti in cui secondo me funziona di più il preconscio, o comunque l'aspetto intuitivo, l'aspetto per cui arrivano a te delle cose che probabilmente sono lì da un po’ appena sotto il livello razionale, poi però ti viene fuori quello che potresti fare. Poi ci si lavora su.
In copertina, Tatay #3, 2022-2023.
Leggi anche:
Elio Grazioli | Mario Cresci a ritroso
Elio Grazioli | Le soglie di Silvio Wolf
Elio Grazioli | Campigotto extraterrestre
Elio Grazioli | Paola Di Bello: sparizioni
Elio Grazioli | Paola Mattioli: lo sguardo e il ritmo
Elio Grazioli | Alessandro Calabrese, liquidare e liquefare la fotografia
Elio Grazioli | Pierluigi Fresia: l’errore del nulla
Elio Grazioli | Antonio Biasiucci in controluce
