Generazioni, eredità letterarie, fatiche

16 Gennaio 2013

Tempo di fare il punto, dunque. Molti gli scrittori incontrati nelle ultime settimane, qualche giornalista e critico. Lunghe conversazioni, ripetute poi a distanza di giorni per il necessario approfondimento. Voglia di capire e, con mio piacere, voglia di essere capiti espressa dalla maggior parte di questi uomini e donne, pochissimi tra loro mi sono apparsi restii, tutti invece aperti alla discussione. La voglia di parlare c’è, anche la voglia di confrontarsi con noi europei: diciamo che le curiosità erano reciproche, e il saluto che molti di loro mi hanno rivolto negli ultimi giorni - “ora siamo amici” - non è di maniera, non solo cortesia alla cinese, ma la presa d’atto che sì, il contatto c’è stato. Got it.

 

Credo, in questo, di essere stato favorito dalla difficoltà in Cina di dibattere a viso aperto. Il ruolo dello scrittore, la Cina che cambia, il mercato e il partito, l’editoria e le associazioni statalizzate degli scrittori, la libertà di espressione e la censura. La chiacchierata informale con me, che tutti sapevano non sarebbe mai stata trascritta in intervista vera e propria, li rasserenava. Parole semplici, libere. E siccome mi interessava la generazione dei quarantenni, da loro cominciamo.

 

Un autore minore, He Yi, docente di lingua e letteratura cinese alle prese con molti studenti stranieri, mi ha un giorno raccontato per filo e per segno la sua avventura anni ottanta: la fioritura culturale intorno alla metà del decennio, gli anni convulsi della sua gioventù e di tanti altri: lui si riferiva a Nanchino, al gruppo che si riunì intorno alla rivista Taman, (‘Loro’) con Han Dong e Zhu Wen, rivista illegale eppure inizialmente tollerata, poi chiusa quando calò la scure del 4 giugno 1989, il massacro in Piazza Tien an Men.  Mi ha spiegato: l’89 non va menzionato in pubblico, non potrei parlarne se sapessi che poi tu riporterai le mie parole, ma oggi è una conversazione privata, e non c’è proibizione, anche se siamo in un luogo pubblico e chi sta seduto al tavolino di fianco ci può ascoltare.

 

 

E io, ora, come mi comporto?

 Io non riporto le sue parole su questo blog.

Però posso ricordare che in molti mi hanno parlato del 1989 come della svolta fondante delle loro vite. Tutta la generazione dei nati negli anni sessanta (nella seconda metà in particolare), fioriti (diciamo: universitari) in quegli anni ottanta in cui l’editoria cinese poteva finalmente tradurre tutta la narrativa occidentale (e lo faceva gratis, di solito, senza andar troppo per il sottile in quanto a diritto d’autore), e la filosofia, la politica. E giravano di mano in mano, finalmente, i romanzi degli autori cinesi della prima metà del secolo, i modernisti più recenti che dopo il ’49 erano scomparsi dai testi accademici e dagli scaffali e ora ricomparivano – è il termine usato più spesso – underground – parola che certo in Cina ha un’accezione diversa che nei nostri.

 

He Yi ha scritto nell’ultimo decennio un paio di romanzi curiosamente centrati sugli amori tra cinesi e giovani europee – e bisogna naturalmente prenderlo con le pinze: mi dice che per i cinesi l’amore era comunque faccenda più seria di quanto non fosse per le disinibite studentesse occidentali negli anni novanta – ma la sua cosa più interessante è una raccolta di racconti intitolata Vite contraffatte, scritta più avanti, nei novanta: racconti di disillusione: nei confronti di  sé stessi. He Yi vuole dire: eravamo giovani idealisti, e poi abbiamo scelto di integrarci. Volevamo spaccare il mondo, cambiare il nostro paese, e invece ci siamo adagiati in comode professioni. Nei fatti, quel che He Yi voleva comunicare con il suo esordio letterario era: vorrei fare lo scrittore, ma non posso. Non posso dire ciò che più mi sta a cuore, non lo posso praticare. Non aspettatevi granché da me, in futuro.

 

Diverso da lui è Zhu Wen (che non è un autore ‘off’, come qualcuno ha scritto, ma è invece tradotto nei principali paesi europei, e regista cinematografico premiato a Venezia e Berlino). Me lo ha spiegato chiaro e tondo: l’89 è stata la cosa più importante della mia vita. In negativo e in positivo: da un lato la scelta di abbandonare una possibile carriera letteraria e entrare a lavorare come ingegnere in fabbrica. Dall’altro la decisione di tornare dagli amici poeti, a Nanchino, e convincerli a riaprire Taman. Ma l’89 resta lo spartiacque, la professione dello scrittore è sintomo di una condizione instabile, precaria: Zhu Wen oscillerà tutta la vita tra il mestiere di ingegnere, di scrittore a tempo pieno e di regista cinematografico: e le fratture che lo segnano (in particolare alla fine degli anni novanta, quando tutto di un botto decide di abbandonare la scrittura per il cinema: proprio nel momento in cui la sua fama in patria e all’estero era all’apice), hanno sempre la stessa origine: si rende conto che le riviste e le case editrici cambiano a sua insaputa titoli, frasi, cancellano paragrafi interi dai suoi scritti: Zhu Wen se ne accorge solo quando si trova tra le mani il libro bell’e che stampato. Non ne può più, e di nuovo cambia rotta: e tenta con il cinema: non scriverà più una riga di narrativa dalla fine dei novanta, a parte l’amata poesia che resta però nei suoi cassetti.

 

 

Ou Ning, che scrittore non è, ma invece artista poliedrico (graphic novelist, documentarista – anche lui a Venezia, alla Biennale – organizzatore di eventi musicali, direttore della biennale d’arte di Shenzen, grafico autodidatta, editore di libri d’arte e recentemente della rivista letteraria più importante del paese, Chutzpah: e per di più seguace convinto del pensiero anarchico di inizio novecento, che in Cina ebbe larga diffusione), mi dice invece che la svolta vera lui la vide all’inizio dei novanta. Nel ’92 Deng Tsiao Ping apre al libero mercato, che ben presto si trasforma in Cina in un liberismo selvaggio per quanto riguarda le condizioni di vita dei lavoratori e dei contadini, ma selvaggiamente e ferocemente regolato dall’alto per quanto attiene al controllo e ai vari livelli di governance. Mi dice: non ci siamo mai resi conto che i carri armati in Piazza Tien an Men non spianavano la via al ritorno della dittatura comunista, ma al contrario avevano il compito di aprire la strada a un liberismo che in Cina – come in molti paesi occidentali, certo – si è presentato radendo al suolo ogni welfare. È lì, allora, a cavallo dell’89, che comincia la sua carriera da poliedrico operatore culturale e artista.

 

Ora: io non sono un teorico, né uno studioso di letteratura cinese. Sono solo un osservatore… interessato (nel senso che la faccenda mi interessa: mi fa da grimaldello per capire ciò che accade nel Paese di Mezzo, oggi). Tutta questa lunga introduzione mi serve a spiegare che secondo me l’89 ha determinato una frattura insanabile, nella pur asfittica (intendo dire: ridotta quantitativamente ai minimi termini) letteratura contemporanea cinese (capiamoci: un miliardo e tre-quattro di abitanti, un umano su cinque nel mondo). E che le narrazioni di chi è rimasto al di là di quella faglia (chi, cioè, trae comunque la sua origine dai primi decenni del comunismo e dallo spaventoso dipanarsi della rivoluzione culturale) nascono in quel contesto: che obbligava all’esilio, o all’integrazione. Integrazione: accettazione incondizionata del limite, della necessità di girare attorno alle problematiche reali della Cina di quei decenni. E la rimozione ha prodotto un suo linguaggio, che a volte viene definito come realismo magico (guardate che me l’hanno detta in molti, questa: sapevamo che uno scrittore latinoamericano aveva così successo in Europa con il suo realismo magico, e ci siamo detti; siamo un paese del terzo mondo anche noi: proviamoci), a volte più sobriamente come ‘rural literature’: nella sostanza innocua. E non importa che i narratori abbiano e avessero un talento immenso: di sé non hanno lasciato eredità alle generazioni successive: questo è il punto. Da qui il motivo della mia critica alla generazione che comprende Mo Yan come Jia Pingwa, ma anche i successivi Su Tong e Yu Hua e Bi Feyu (nati all’inizio dei sessanta ma a mio parere meno toccati dall’89, e incardinati invece sul registro precedente). (E provo a chiarire: penso a quando si commenta un romanzo con una frase tipo: “usando i toni del comico e del grottesco, e una lucida e sferzante ironia…”)

 

Enorme è il distacco tra questi autori e la muraglia che si trovano davanti oggi (e che si trovavano di fronte vent’anni fa) i quarantenni e ancor più i più giovani: una Cina da interpretare e reinterpretare, esistenze letteralmente spazzate da tornado di varia natura (carri armati e betoniere, incarcerazioni e ‘mercato del lavoro’), che questi ultimi cercano, disperatamente, di raccontare senza avere una forma di riferimento, incapaci di reinventare dal nulla un registro all’altezza della complessità che fronteggiano: “Cosa racconti, la storiella su tua nonna al villaggio? Suvvia!”, mi dice Ou Ning!

 

 

(Un discorso a parte, penso, va fatto per due autori tra i più anziani. Il primo è Acheng, che sembra venire da un altro pianeta, e infatti, mi sembra, poca gloria ha avuto in patria. Il secondo è Yan Lianke: grande è la sua storia del villaggio di Ding, con un linguaggio che sta sul confine tra narrativa e non fiction: vien da dire: il libro è così buono che glie l’han censurato in patria! (a riprova, appunto, che il problema della censura non è solo politico: è artistico). Ugualmente invece gracile mi pare la sua voce (“un registro fortemente satirico”: e dagli!) nei romanzi precedenti, per esempio Servire il Popolo scritto quando della Rivoluzione Culturale si poteva cominciare apertamente a dibattere, purtroppo di nuovo sprecato nel registro della commedia grottesca. Ma, ripeto: non ho nessuna voglia io di arrogarmi il diritto (e di prendermi il fardello) di far la storia critica della narrativa contemporanea cinese: è solo che mi sembra una buona chiave di ingresso alla Cina contemporanea: perché va in parallelo con il susseguirsi delle sue epoche e dei suoi ribaltamenti: di cui sì sono curioso, e voglio sapere che cos’è: il Paese di Mezzo con la crescente middle class delle grandi città.)

 

Insomma, tornando ai nostri: tanto più la frattura, lo scoglio, appare insormontabile, se da quella generazione (definiamola: degli anni ottanta perché anni della loro formazione, ma nati nei secondi sessanta: insomma quelli che su quel tempo di fioritura culturale hanno innestato la loro formazione di persone adulte, e poi di scrittori, certo) si passa poi ai più giovani ancora. E sono coloro che, nati già nei settanta, l’89 lo hanno visto da ragazzini, forse con gli occhi sbarrati dallo stupore. E che hanno iniziato a scrivere sicuramente dopo, già con i piedi ben piantati nell’incombente trasformazione economica e sociale, sicuramente costretti loro a ‘misurarsi con il mercato’, e quindi più professionisti che poeti (nota a margine: quanti della generazione degli ottanta mi hanno a lungo parlato di poesia, mi hanno reso l’idea di come invece le loro scarpe di quel benefico fango siano incrostate, esibendo una condizione a noi quasi sconosciuta: io sono un poeta!).

 

Ho parlato una paio di volte con Feng Tang, bellissima figura di manager d’alto livello, CEO di una società statale che gestisce sei grandi ospedali nelle maggiori città cinesi e che sta costruendo un oncologico, in collaborazione con il nostro Veronesi – voi italiani non parlate un buon inglese, mi dice soddisfatto mostrandomi la foto di lui e del professore, nella mia Milano lontana –. Di lui è apparsa (il primo volume anche in francese) una trilogia: anni giovanili, e un accenno appena appena a piazza Tien an Men come sempre mascherato: ma una scrittura tesa e nervosa, un affastellarsi di locali notturni e avventure sessuali, qualcosa di un po’ già visto da noi, fino a un ultimo romanzo (lo ho dato in lettura, vedremo) che lui mi definisce ‘the so called dirty novel’ – ma non c’è niente di più che in Miller, o Roth, mi dice – a cui farà seguito (è in lavorazione) ‘the so called novel on love and marriage’, scritta da un uomo che ha appena divorziato e che passa il tempo tra un aereo e l’altro e, mi dice e mi piace quel che dice, scrive perché ne ha bisogno, ne ha una voglia irrefrenabile: di notte, dunque, e solo di notte.

 

 

(Di nuovo un inciso: parliamo delle rispettive ascendenze famigliari, la mia è una famiglia di piccoli capitalisti, anch’io ho fatto il CEO: Feng Tang sbotta: con un ruggito: io vengo dal più povero dei più poveri ambienti di Pechino. Ecco, anche questa cosa l’ho sentita ripetere spesso, alla istruzione superiore e all’Università si accedeva per merito, e davvero molti di questi personaggi d’eccezione hanno alle spalle anche una frattura famigliare, irrompono nella contemporaneità provenendo dal terzo mondo profondo.)

 

Feng Tang mi piace, e su di lui metterei la mano sul fuoco (beh, diciamo un ditino), certo temo che la deriva di alcuni suoi coetanei (Murong Xuecun, Mian Mian, Wei Wei, Annie Baobei), l’appiattirsi cioè sugli aspetti più facili della nuova Cina, e allora il sesso, la vita notturna, gli sballi vari, la carriera le guerre d’ufficio, sia legata a problematiche mercantili più che a necessità poetiche (e usiamolo questo benedetto termine!). Ciò che è sicuro è che nessuno di loro può guardare alla generazione precedente (dunque: né gli scrittori, né i genitori!) per seguirne una traccia. E’ una frattura assoluta, che non guarda in faccia a nessuno. E fa seguito alle tante fratture di questa Cina: il ’49, la Rivoluzione Culturale.

 

Mi pare sia il dramma che vive la narrativa cinese d’oggi: perché anche negli autori invece ‘non mercantili’, quanto meno in apparenza, la frattura c’è. Ho parlato con Xu Zechen, un giorno, con l’aiuto di un interprete. Xu Zechen è, insieme a Sheng Keyi, riconosciuto come il miglior rappresentante di una corrente di ‘narratori del sociale’: storie di spiantati che dalla provincia arrivano in città, e ne restano ai margini: insomma in apparenza romanzi di denuncia, capaci di fornirci uno spaccato dei risvolti malati della shining China, dei buchi neri dello sviluppo a tappe forzate, delle nuove povertà e precarietà sociali. Ma Xu Zechen non riesce a raccontarmi molto di più circa le sue scelte stilistiche. Io vedo un racconto piatto – verrebbe da dire: poco ispirato! – e un modo di aggrapparsi ancora alla commedia, alla battuta comica che non disvela ma fa solo da supporto narrativo, da espediente. E così è anche per Sheng Keyi il cui Northern Girls viene oggi portato in palma di mano da molti.

 

E leggendoli, questi ultimi, viene persino da pensare: ma perché la forma romanzo? Perché mai solo e sempre quello? Perché non tentare altro? E, forse, l’eredità ci sarebbe: quella del Yan Lianke del Villaggio di Ding: che non a caso, ladies and gentlemen, in Cina è censurato.

Oggi ne ha dette anche troppe, fin qui, il vostro affannato esploratore di Asie in ebollizione.

Dei più giovani, alla prossima puntata. E sarà dura: che ne so io, più, della giovinezza?

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