Il libero arbitrio è un'illusione

11 Agosto 2022

La domanda di partenza è una di quelle che più classica non si può: perché facciamo quello che facciamo, e cosa determina il nostro comportamento? La risposta, in estrema sintesi, è la seguente: “L’uomo si illude di decidere, mentre in realtà non fa ciò che vuole ma – al meglio, aggiungeremmo noi – vuole ciò che fa […] L’illusoria libertà dell’arbitrio è un espediente evolutivo della mente emerso e selezionato per conciliare l’uomo con la propria interiorità, alla quale attribuisce e riconosce la capacità di decidere. [Il senso di essere liberi] è prezioso perché aiuta ad accettare la vita.” Niente di più. 

Nientemeno! viene da aggiungere. E come se non bastasse, secondo Arnaldo Benini, fresco autore di Neurobiologia della volontà (Raffaello Cortina, 2022), riferendosi nell’ultimo capoverso del volume a un pensiero del neuroscienziato tedesco Wolf Singer, si tratta di una “sintesi realistica della condizione umana, scevra di illusioni”.

Sintesi difficile da mandare giù. Bel boccone: l’illusione funzionava e ora lo sconcerto è palpabile. D’altra parte l’argomentazione serrata che accompagna questo libro, breve come lo sono spesso quelli di Benini, professore emerito di Neurochirurgia e Neurologia presso l’Università di Zurigo, non lascia molto spazio a repliche che non si appoggino a dati solidi e riferimenti bibliografici condivisi dalla comunità scientifica.

Come invece sorprendentemente accade, denuncia lo stesso Benini, nelle ben 638 pagine del The Oxford Handbook of free will, pubblicato nel 2002 a cura del filosofo dell’Università di Austin-Texas Robert Kane, e dove si legge di un solo contributo scientifico (ancorché, bisogna aggiungere, sicuramente il più appropriato) quello di Benjamin Libet: di libero arbitrio scrivono un giudice, un neurologo, un matematico-filosofo… e ventidue filosofi! Ancor più curiosamente è il giudice David Hogson a discutere di meccanica quantistica e libera volontà, sostenendo, per altro, come la fisica classica nulla possa avere a che fare con la coscienza (e chissà come avrebbe commentato Ernest Rutherford, secondo il quale, com’è noto, nella scienza esiste solo la fisica, tutto il resto è collezione di francobolli).

Ma tornando ai nostri: nessuno dei filosofi, lamenta Benini, fa un cenno anche solo marginale alle neuroscienze cognitive, il loro è “un procedere sempre e solo teorico, senza verifica”. Oggi difficilmente concepibile, in effetti. Nonostante tutti i limiti che possiamo e abbiamo il dovere di mettere in evidenza, pure è solo con metodologia scientifica – e da almeno qualche decennio grazie alla ricerca neuroscientifica – che si può cercare di indagare la “volontà” e la sua neurofisiologia. “Il dilemma dell’arbitrio, per sua natura, non è né filosofico né religioso. È scientifico.”

C’è stato un tempo ovviamente – e certo, almeno fino agli anni ’60 del secolo scorso – quando l’evidenza per cui la domanda fosse filosofico-teologico poteva andare de plano, ma dalle ricerche e dalle scoperte, prima di Hans Helmut Kornhuber e poi di Benjamin Libet, circa sessanta’anni orsono, la volontà come aspetto essenziale dell’autocoscienza e della moralità diventa campo centrale delle neuroscienze.

Dati assai corroborati (le certezze assolute non appartengono al mondo della scienza) confermano che decisioni e azioni sono prodotti dalla macchina elettrochimica del cervello; le tecniche del neuroimaging mostrano che i meccanismi nervosi della coscienza vengono attivati quando i centri della decisione sono attivi già da un po’: io, tu, voi, noi tutti ci illudiamo di decidere. Come sostiene il neuropsicologo Louis Cozzolino, il libero arbitrio è un’illusione benefica per la sopravvivenza perché trasmette sicurezza di sé, e come abbiamo anticipato all’inizio, non facciamo ciò che vogliamo ma vogliamo (dopo) ciò che abbiamo già fatto (prima). 

Perché le cose starebbero così? Evolutivamente, s’intende! “È lecito pensare – nota Benini – che i meccanismi nervosi dell’epifenomeno dell’illusione della libera volontà siano emersi nel corso dell’evoluzione, in seguito allo sviluppo dei lobi prefrontali dell’autocoscienza [la parte del cervello che fa di noi quel che siamo, l’ultima parte, che è maturata circa un milione e trecentomila anni fa], soprattutto per consentire la convivenza, senza la quale la specie umana, morfologicamente più fragile di altre specie, verosimilmente sarebbe stata sopraffatta”. Ci torniamo.

Centrale, nel volume di Benini, il 6° capitolo sulle ricerche, già più volte ricordate, di Benjamin Libet. Le scoperte sono abbastanza note ma vale la pena conoscerne la storia, i contenuti, magari riassumendo in breve qualche puntata precedente. L’elettro-encefalografia, nata dagli studi dello psichiatra Jena Hans Berger, circa un secolo fa, fu la prima tappa di ciò che oggi intendiamo per neuroimaging: la visualizzazione in tempo reale dell’attività del cervello. Fu grazie a quei primi elettrodi piantati nel cervello di alcuni pazienti arruolati che è stato possibile registrare frequenze e ampiezze di potenziali elettrici, e “vedere” un’intensa e ritmica attività corticale prima del movimento cosiddetto volontario, e senza riscontro cosciente.

Abbiamo già fatto cenno al ruolo di Hans Helmut Kornhuber il quale, studiando i comportamenti-movimenti di 12 studenti in 94 sedute, nel 1965 individuò l’RP, il readiness potential, ovvero l’espressione corticale elettrica dell’intenzione – ovvero della “volontà” – di muoversi e non già del movimento stesso. L’RP è considerato, fin da quelle iniziali ricerche, “il segnale elettrofisiologico della pianificazione, preparazione e inizio degli atti volontari”.

Tutte le ricerche che sono seguite non hanno potuto che confermare come “prima” dell’inizio di un movimento “volontario” l’area corticale motoria che lo genera ha un’intensa attività elettrica a partire da circa un secondo e mezzo in anticipo, senza attivazione delle aree frontali della coscienza, cioè prima che la persona si renda conto di volersi muovere. Ma quando se ne diventa coscienti? A questa domanda, quando si manifesta la volontà di agire, ha riposto Libet.

E così la riassume Benini: egli ha dimostrato che “l’RP di un movimento volontario non pianificato da tempo, inizia 550 millisecondi prima dell’attivazione dell’area corticale motoria di entrambi gli emisferi, e la persona che lo compie diventa cosciente di voler fare quel movimento 350-400 millisecondi dopo l’insorgenza dell’RP e 200 millisecondi prima che il movimento inizi, cioè prima dell’attivazione muscolare […] l’RP (ricordiamo: il segnale elettrofisiologico della pianificazione, preparazione e inizio degli atti volontari) inizia quindi un secondo (o anche più di un secondo) prima che inizi il movimento […] il cervello prepara, e inizia i meccanismi del movimento prima che la persona, cioè le aree cerebrali della sua autocoscienza, avverta la volontà di farlo […] il senso della volontà libera non è l’origine del movimento ma la presa di coscienza di un evento nervoso già in atto”.

Libet per altro, ricorda Benini, non se la sentì di eliminare del tutto la libera volontà. Da successivi esperimenti emerse che se si considerano i 150 millisecondi che seguono la presa di coscienza, il movimento può essere interrotto volontariamente negli ultimi 50 millisecondi, non di più. Piuttosto curiosamente, insomma, mentre spazzava via il free-will, dava invece una chance al free won’t: ipotesi che non ha convinto i più.

Piuttosto convincenti, invece, sono tutte le ricerche sui meccanismi nervosi della coscienza e della volontà che sono seguiti e che hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI). Un solo esempio per dire della portata di questi studi: a una persona esaminata si chiedeva non solo di muovere un arto (quello che originalmente aveva chiesto Libet) ma di scegliere tra due alternative: col dito indice, a libera scelta di destra o di sinistra, la persona doveva pigiare un tasto dalla parte del dito. Scelta “cosciente”.

Ebbene, la regione cerebrale fronto-polare della parte che poi procedeva a pigiare il tasto (contro laterale alla mano mossa) si attivava nella fMRI ben 7 secondi prima della coscienza della decisione. In altre parole: chi osservava l’fMRI sapeva prima della persona indagata quale dito sarebbe stato mosso. C’è anche una possibile obiezione, posta nel 2014 dal filosofo Mark Balaguer: che l’RP venga prima della coscienza di voler compiere un atto, è indubbio, ma quel segnale elettrico potrebbe anche non avere nulla a che fare con la volontà di agire.

Sennonché l’applicazione di un campo magnetico al cranio – come si dice, una stimolazione transcranica – tale da indurre un innocuo impulso di corrente all’interno della corteccia, è in grado di “distruggere” un processo nervoso in fieri.

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Riferendoci agli esperimenti di Libet: se quell’impulso magnetico viene dato dopo RP I o RP II, e prima della coscienza di voler muovere, non succede più nulla. Come dire che c’è un elemento piuttosto decisivo a favore del rapporto casuale, e non accidentale, fra la complessa attività elettrica incosciente e la volontà che ne consegue. Ogni decisione è di natura corticale e indipendente dai meccanismi della coscienza: ciò vuol dire che “il cervello crea sia il pensiero sia l’azione, illudendo che il pensiero sia la causa dell’azione”.

Quel che sappiamo insomma, lo abbiamo già detto, è che “la coscienza è informata a decisione presa”: ma per quale motivo si è determinata una circostanza evolutiva tale da selezionare nel cervello degli esseri umani un meccanismo che ci convince che la nostra volontà sia, invece, libera? Torniamo a un milione trecentomila anni fa, alla comparsa dei lobi frontali: grazie a questa fortunosa variante evolutiva, homo ha acquisito, unico fra i primati, l’autocoscienza, ovvero la capacità di porre sé stesso a oggetto della propria riflessione.

Grazie al linguaggio interiore ha capacità di pensare, di valutare la propria condizione e di avvertire con viva consapevolezza la contingenza, la brevità e la durezza dell’esistenza. Questo lo ha portato a riflettere sull’inevitabilità della morte, a comprendere sofferenze e angosce che, mettendo in dubbio il senso della vita, potevano tradursi in un pericolo per la sopravvivenza della specie. Pericolo sventato grazie all’invenzione della fede religiosa e della certezza della sopravvivenza. Tanto la religione come l’illusione della libertà sono stati selezionati dall’evoluzione così da metterci al riparo.

O ancora, con le parole di Benini, la libertà dell’arbitrio è un mito, evidenza sulla quale i neuroscienziati con pochissime eccezioni son concordi: “per superare il senso opprimente del vincolo assoluto ai meccanismi nervosi della volontà, l’evoluzione ha selezionato il meccanismo nervoso dell’illusione della sua libertà”.

Nei primi capitoli di questo libro per molte ragioni imperdibile, c’è anche una sezione dedicata al “dilemma della volontà nella storia”, da Tito Lucrezio Caro, a Boezio, a Erasmo e Lutero. Ma è sul pensiero dell’umanista Lorenzo Valla, vissuto tra il 1407 e il 1457, che Benini torna a più riprese, quando questi nega la possibilità stessa di risolvere il dilemma se siamo liberi di volere e di agire, “se dovessimo affliggerci per tutto quello che non sappiamo, ci renderemmo ben dura e acerba la vita”.

E infatti, sottolinea Benini, non ci si deve scandalizzare, come il filosofo John Searle, se dopo 2500 anni di riflessione filosofica, religiosa e scientifica “si deve riconoscere che del funzionamento del cervello, in particolare di quello umano, artefice dell’autocoscienza, si sa poco o nulla”: la verità, l’ovvietà, è che c’è un’intrinseca impossibilità del cervello di capire sé stesso, ed “è lecito dubitare che il cervello riesca a trovare un’idea del cervello”. Inutile “affliggerci”, appunto, anche se, sulla scorta del filosofo Mark Balaguer qui già citato, il problema della volontà non può che riferirsi a un processo cerebrale e può e deve essere studiato esclusivamente dalla scienza, abbandonando le teoriche, esclusive speculazioni della filosofia e della teologia. “Il cervello – come affermava il grande biologo, entomologo e naturalista Edward O. Wilson, scomparso alla fine di Dicembre dello scorso anno – è una macchina assemblata non per capire se stessa, ma per sopravvivere”.

Potrebbe bastare, ce n’è già a sufficienza da ruminare, provando a digerire una consapevolezza che, lo scrivevamo all’inizio, lascia sconcertati: quel che pensiamo di volere, in realtà, è ciò che abbiamo già fatto. Punto. E la responsabilità, allora? che fine fa, dove la mettiamo?

Già perché da un certo punto di vista, accettata (pur a fatica) la nuova definizione di ciò che il libero arbitrio è, quel che significa nella nostra quotidiana esistenza potrebbe rimanere immutato, e con quello tutte le nostre discussioni sul giusto e lo sbagliato, sul buono e il cattivo. Con ciò salvando millenni di speculazione del pensiero. Bel sospiro di sollievo! But… c’è infatti un “but”! Che al momento – come ci ricorda Benini in una conversazione che ci ha concesso in vista di questa recensione – conta già una bibliografia da far tremare i polsi: chissà che egli stesso non ci torni, più o meno a breve, certo ne saremmo felici e molto interessati. 

Nel frattempo se ne è occupato nel 2020, in un ’“Intermezzo. Nuovi problemi. Le neuroscienze e il diritto” di in un altro libro che volentieri raccomandiamo, La Scienza in Tribunale 2. La vendetta (Fandango), il giurista Luca Simonetti, segnalando come questa consapevolezza, in prospettiva, potrebbe avere un grosso impatto sul Diritto, in genere, e sul Processo in particolare. Difficile negare (anche se non impossibile, ammonisce Simonetti) che il Diritto si basi sul presupposto che i soggetti imputati siano, in linea di massima, capaci di capire, decidere e volere liberamente.

“Interi settori del diritto penale, ad esempio, si basano sul presupposto che solo chi è capace di rendersi conto del significato dei suoi atti e vuole effettivamente compierli può essere chiamato a risponderne.” In un’ipotetica radicale accettazione delle risultanze della ricerca neuro scientifica, finirebbero per entrare in crisi, “sia la finalità retributiva della pena (ti punisco perché hai fatto qualcosa di male, cioè retribuisco con un male inflitto dalla società il male che prima tu come individuo hai inflitto ad altri individui) sia la finalità rieducativa (ti punisco perché voglio che tu, con la prigionia, col lavoro, con lo studio, eccetera, comprenda il disvalore dei tuoi atti e ritorni, una volta scontata la pena, a essere un utile membro della società)”.

Ciò che è espresso dall’art. 27 della nostra Costituzione, vale la pena ricordare. Rimarrebbe, forse, argomenta Simonetti, il valore della sola finalità “special-preventiva”, ti punisco, magari incarcerandoti, così che tu non delinqua di nuovo, meno quella “general-preventiva” che dovrebbe servire a disincentivare dal commettere reati, che però se le azioni non sono né volontarie né libere…. Un bel problema! Le neuroscienze, infatti, introducono un sospetto che era già di Socrate e Platone: “se il male altro non è che un difetto (di saggezza, secondo i due filosofi greci; di salute, secondo le neuroscienze), chi lo commette non va punito bensì curato”. E questo, Simonetti lo scrive chiaramente, farebbe venir meno le basi di molte delle nostre istituzioni giuridiche.

Vi sono comprensibili resistenze in ambito giuridico all’ingresso delle neuroscienze e della neurogenetica nel processo penale (e anche nei paesi di Common Law): il rischio di un rigurgito positivista all’ombra di Lombroso e Ferri è particolarmente acido. Ma, conclude Simonetti, può essere un timore eccessivo. Un conto è sovvertire le basi del sistema, e quindi “via le pene, via la retribuzione con tutte le sue guarentigie (la proporzionalità della pena al reato, il gioco delle attenuanti e delle aggravanti, eccetera) e via anche la finalità rieducativa della pena; dentro invece la prevenzione e le misure di sicurezza”.

E via anche il giudice, sostituito da un funzionario che deciderebbe, con l’ausilio di psichiatri, assistenti sociali, e altri professionisti di tal sorta, il tipo e la durata delle misure di sicurezza da applicare al “come chiamarlo? Non colpevole, non reo, non imputato, non con-dannato...”. Al momento, invece, prevale un livello di applicazione pratica atta a stabilire la capacità di intendere e di volere, l’attendibilità di una testimonianza e anche la perseguibilità di alcuni soggetti, i più giovani per esempio – accade già in alcuni stati degli Stati Uniti – il cui non completo sviluppo dei lobi frontali induce ad un giudizio sospeso e consapevole delle necessarie attenuanti e discriminanti.

Certo, il brivido di una società che proponga una qualche fattispecie della “cura Lodovico”, non può non correre sulla schiena. Ma del presente e del futuro della ricerca scientifica non si deve mai aver paura. In scienza e coscienza (!), informare al meglio il salutare giudizio del popolo, come ci ricorda sempre Thomas Jefferson, è sempre la migliore strategia per confermarlo come il depositario dei poteri ultimi della società.

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