Linneo e Buffon: mettere ordine nel vivente
Il passato deve essere spesso riposizionato. C’è bisogno di correggere i difetti della nostra vista, ma anche le amnesie che, rispettivamente, distorcono e annebbiano le prospettive. Chi sono per noi oggi Linneo e Buffon? Poco più di nomi, forse sappiamo qualcosa più del primo per via della sua nomenclatura binomiale, con cui ancora la scienza identifica le specie, globalmente però ne conserviamo una debole traccia. Ma, come spiega e racconta lo scrittore americano Jason Roberts in Una prodigiosa moltitudine (edito da Mondadori con traduzione di Pietro Del Vecchio), è proprio a loro che dobbiamo fare ritorno se vogliamo trovare il punto d’avvio degli studi naturalistici. Per molti aspetti, è anche attraverso le loro ricerche che si arriva al nome chiave di Darwin. Per opposizione, certamente. Perché se Buffon intravede il cambiamento e apre le porte alla modernità, Linneo rappresenta l’opposizione a qualsiasi variazione di paradigma. Un atteggiamento però li accomuna: il desiderio di capire la complessità della vita, che per Linneo ha confini ben determinati, mentre per Buffon sfugge a qualsiasi limite. Contrapporli, nel clima settecentesco arroventato dalle nuove idee, è inevitabile, e Roberts lo fa con efficacia, servendosi di una scrittura icastica che dà ampio spazio al dettaglio: lo percorre il desiderio di non trascurare nulla, di inseguire ogni traccia in cui si imbatte. In qualche modo, anche lui, come i suoi “personaggi”, si muove sulla strada della complessità. E, non nascondendo la sua predilezione, fa di Buffon l’eroe positivo, attribuendo a Linneo i tratti dell’antagonista. Lo schema narrativo funziona, anche perché asseconda quanto realmente emerge nel corso delle vite dei due savants (il termine scienziati entrerà nell’uso solo nel 1833), coetanei (entrambi nascono nel 1707), ma separati su tutti i fronti a tal punto da non essersi mai incontrati.
Lo svedese Linneo, piccolo di statura, egocentrico, convinto della propria eccezionalità, è, nonostante le difficoltà che incontra per laurearsi, un uomo dell’Accademia. Per tutta la vita insegna botanica nell’ateneo di Uppsala, mettendo a punto metodi rivoluzionari – le lezioni aperte a tutti gli studenti, i dibattiti, le esplorazioni sul campo – e costruendo una squadra di devoti collaboratori – gli “apostoli” – che manda in esplorazione per il mondo, incurante dei rischi spesso mortali a cui li sottopone. Ha un progetto grandioso: catalogare e dare un nome a tutte le specie vegetali e animali esistenti, che, secondo lui, non sono più di quarantamila. La furia tassonomica è come una febbre: raccoglie enormi quantità di esemplari, li battezza con straordinaria fantasia, li inscatola in strutture rigide distribuendoli in regni, classi, ordini, generi e specie. La ricchezza del mondo per lui non ha segreti. Se qualcosa gli sfugge, è soltanto perché non è arrivato a mettergli sopra le mani. Nel 1735 pubblica in Olanda il Systema naturae, l’opera a cui dedicherà la vita. Ai più appare soltanto come una curiosità, ma per Linneo è solo l’inizio: le 12 pagine della prima edizione saranno destinate a diventare 2400 nell’edizione definitiva, alcuni decenni più tardi. Nonostante le resistenze, il suo metodo attecchisce. Linneo diventa un riferimento. La zoologia e la botanica non possono evitare di fare i conti con lui. E le sue convinzioni costruiscono il quadro di riferimento degli studi naturalistici. Per cui nessuno deve dubitare della fissità delle specie, che sono esattamente quelle che, come racconta il Genesi, Dio ha creato all’inizio dei tempi. Nessuno deve parlare della possibilità che le specie abbiano subito delle trasformazioni nel tempo o che, addirittura, il piano provvidenziale abbia previsto la loro estinzione. Dio, nell’arca, ha salvato tutte le creature. Nessuno deve inoltre mettere in discussione l’aristotelica “scala naturae”: esiste una rigorosa gerarchia dei viventi, che al suo vertice ha l’uomo. La nostra specie è il perno del sistema. Linneo le attribuisce il nome che ancora oggi ci identifica, Homo sapiens. Ma, soprattutto, dopo averle dato il primato, la suddivide al suo interno in quattro varianti distinte per il colore della pelle e conseguenti caratteri fissi, definendo il nucleo originario del razzismo. Insomma, Linneo traccia una linea nettissima oltre cui, a suo dire, si esce dalla scienza. In qualche modo la profondità del fossato ha contribuito a far chiarezza. Chi mette in dubbio le sue convinzioni, sa dove non deve mettere i piedi. Se si vuole cambiare, bisogna andare dove lui non c’è.

Buffon è l’antitesi di Linneo. È alto, ha un corpo atletico, è ricco per via dell’insperato lascito di un prozio, trascorre la giovinezza diviso tra lo studio, i piaceri e i duelli, contemporaneamente attratto dalla sregolatezza e dalla solitudine. Nonostante le brillanti intuizioni in campo matematico – risolve il problema definito l’“ago di Buffon” – è la botanica ad attirarlo. Per tutta la sua lunga vita alterna i soggiorni a Montbard, il villaggio borgognone dove è nato e ha allestito un parco con migliaia di specie vegetali, e a Parigi, dove ricopre quello che sarà il suo unico incarico ufficiale, Intendente del “Jardin du roi”. All’osservazione della vita naturale Buffon abbina il gusto per la scrittura. Gli piace scrivere di scienza. In francese. Possiede uno stile piacevole, accattivante, a cui si dedica con cura riscrivendo più volte i testi dopo averli letti ai suoi collaboratori. Anche lui ha in mente qualcosa senza precedenti: una meticolosa ricognizione delle specie animali, vegetali e minerali, che lo conduce alla stesura della Storia naturale. Il primo volume viene pubblicato a Parigi nel 1749 e fa di Buffon una celebrità, superiore per fama addirittura ai philosophes del calibro di Voltaire, Rousseau e Montesquieu. Nel 1787, l’opera consta di 35 volumi. Anche se ha solo in parte realizzato il piano originario, nulla di simile è mai stato scritto da un solo essere umano. Ma a colpire sono i suoi presupposti teorici. Buffon rifiuta di chiudere la natura in un “sistema”. Linneo sbaglia. Il suo metodo è “il meno sensato e il più mostruoso di tutti”, perchè confonde “l’impalcatura con l’edificio”, costruendo un monumento all’arroganza. “In natura”, scrive Buffon, “esistono solo gli individui, mentre generi, ordini e classi esistono soltanto nella nostra immaginazione”. La sua dottrina è il “complessismo”: la vita naturale è ricca, stratificata e, soprattutto, in divenire. Per studiarla bisogna avere la consapevolezza del suo “stato di incertezza permanente”, senza avere la speranza di arrivare a comprenderla del tutto, “poiché gli stessi uomini (fanno) parte dell’equazione”. Affiora la convinzione che le specie siano molte di più di quanto si ritiene e che siano soggette a un continuo cambiamento in risposta all’ambiente (scrive che “tutte traggono un’impronta dal clima in cui vivono”) e, di fronte ai fossili, risulta evidente che alcune si siano estinte. Probabilmente tutte le specie possono essere ricondotte a un antenato comune: Buffon usa il termine “degenerazione”, spiegato da Stephen Jay Gould come “distacco da una forma iniziale di umanità al momento della creazione”. Sono i prodromi della teoria dell’evoluzione. Legati alla convinzione che la vita non discenda da un unico atto creativo e che la storia della Terra superi abbondantemente il breve arco di tempo considerato nell’Antico Testamento. Altrettanto certo è che tra gli esseri umani e gli appartenenti ad altre specie non ci sia differenza qualitativa: gli animali sono in grado di sperimentare, “quanto c’è di meglio dell’amore”, ovvero possiedono l’anima. Tantomeno è sensato determinare partizioni all’interno della nostra specie, le linee di distinzione tra le specie sono date dalla possibilità di riprodursi: tra gli uomini chiunque può incrociarsi con chiunque. Le specie umane quindi non esistono e la schiavitù è ingiustificata. Ma c’è dell’altro. Attraverso l’uso del microscopio, Buffon capisce che la riproduzione implica una commistione tra maschio e femmina. È l’epigenesi: Il feto si forma per l’interazione tra i due sessi sulla base di un prototipo generale che modella ogni individuo. Lo stesso microscopio lo porta a comprendere che “esiste in natura un’infinità di particelle organiche, che condividono la stessa sostanza degli esseri organizzati”. A suo parere, lo studio delle forme più semplici è “la chiave per comprendere la vita nel suo complesso”.

Queste e molte altre – smonta, per esempio, la credenza che “l’abbondanza sulla terra (sia) illimitata” – sono idee dall’effetto dirompente, che Buffon riesce a fare arrivare al pubblico, spargendole qua e là nell’oceano della sua opera e negandone la portata con “generose clausole retoriche” di salvaguardia. Se da un lato la strategia si rivela vincente – la Chiesa cattolica non riesce a fermarlo – dall’altro è quanto sta all’origine del fraintendimento di Buffon.
Che succede infatti dopo la sua morte, avvenuta l’anno prima dello scoppio della rivoluzione? Alla splendida fama che lo aveva accompagnato in vita e che aveva fatto scendere nelle strade ventimila parigini al momento del funerale, subentra una progressiva metamorfosi della sua fisionomia. Lo scienziato Buffon diventa il grande divulgatore. La penna brillante che chiacchiera di animali amabilmente, ma senza profondità. Un dilettante di genio. Concorrono alla deformazione le strategie editoriali. In assenza di eredi che pretendano di mantenere la Storia naturale nella sua versione originale, l’opera viene smembrata e ricostruita in porzioni più snelle e addomesticate, spingendosi, in alcuni casi, a fare di Buffon un autore destinato ai bambini. Ma, soprattutto, il suo prestigio viene oscurato dall’affermazione del “neolinneismo”. Linneo, che aveva concluso la sua vita in stato di demenza e aveva avuto esequie in tono minore, da morto diventa irrinunciabile per chi si dedica alla disciplina che finalmente viene definita biologia. Il suo successo postumo nasce da una combinazione di motivazioni. I rivoluzionari se ne impossessano facendone l’icona dell’intellettuale che con la sua chiarezza – concettuale ed espressiva – si è posto al servizio del popolo. Gli uomini di scienza si convincono che la strada che Linneo ha indicato sia quella da percorrere. Il fissismo, come ritiene Georges Cuvier, è una certezza. Come lo è il razzismo con Johann Friedrich Blumenbach, che elimina il colore della pelle come criterio distintivo, ma stabilisce una gerarchia tra le razze, assegnando il primo posto a quella caucasica, la linea dell’Eden; o con Charles White, che diffonde il poligenismo: gli esseri umani variano nell’aspetto perché Dio li ha creati in tempi diversi e con scopi diversi. I seguaci di Buffon battono in ritirata. La sua squadra si sfalda. Eppure uno di loro, Lamarck, persevera nella sua ricerca. Nel piano narrativo organizzato da Roberts, Lamarck è l’elemento inaspettato che sconvolge il progetto dei vincitori della prima ora. Formatosi sotto lo sguardo di Buffon al “Jardin du roi”, Lamarck è colui che mantiene viva la sua convinzione di un continuo cambiamento delle specie. La sua teoria è il trasformismo: le mutazioni sono risposte dirette date dagli organismi viventi agli ambienti in cui vivono. Siamo alle soglie di Darwin, il quale, come è noto, a differenza di Lamarck, punta su mutazioni casuali che determinano il successo o l’insuccesso della specie a seconda delle condizioni ambientali più o meno adatte in cui si trova a vivere. E, finalmente, abbiamo l’agnizione. Come racconta Roberts, Darwin non conosce Buffon, ma, quando lo scopre – siamo nel 1865, L’origine delle specie è stata pubblicata sei anni prima – non può fare a meno di scrivere a Thomas Huxley, che glielo ha consigliato: “Ho letto Buffon – intere pagine sono incredibilmente simili alle mie. È sorprendente quanto ci si senta ingenui a rintracciare il proprio punto di vista nelle parole di un altro uomo. Mi vergogno un po’ per tutta la faccenda…”.
