La scandalosa “Lady” di Šostakovič

6 Dicembre 2025

«In questi ultimi tempi ho sofferto molto e ripensato molte cose. Per ora sono giunto a queste conclusioni: la Lady Macbeth, con tutte le sue imperfezioni, rimane per me una tale composizione che non potrò mai annientarla. È certamente possibile che mi sbagli, che non mi basti, invero, il coraggio di farlo. Ma mi pare che occorra avere il coraggio non soltanto di assassinare le proprie cose, ma anche di difenderle. Visto che ciò adesso non è possibile, non farò nulla in questo senso. (…) La cosa più importante è l’onestà. Mi basterà per sopportare tutto? E quanto a lungo? Se un giorno sentirai dire che mi sono “dissociato” dalla Lady Macbeth, sappi che l'ho fatto con la coscienza pulita al cento per cento. Ma non penso che ciò accadrà molto presto. Non certo prima di cinque o sei anni: io sono lento a pensare, e riguardoso della mia arte».

La lettera è indirizzata a un compagno di studi nel Conservatorio di Leningrado, fraterno amico per tutta la vita, e risale all’aprile del 1936. Da pochi mesi il ventinovenne Dmitrij Šostakovič aveva cessato di essere considerato il compositore più brillante dell’Unione Sovietica ed era diventato un emarginato che poteva a ragione temere per la sua libertà, se non per la sua stessa esistenza. Pochissimi avevano il coraggio di manifestare una qualche forma di solidarietà o apprezzamento nei suoi confronti, dopo che alla fine di gennaio era stato messo nel mirino dal regime sovietico e condannato senza appello con un durissimo articolo sulla Pravda per il suo secondo lavoro di teatro musicale, appunto Una lady Macbeth del distretto di Mcensk.

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Dmitrij Šostakovič era sotto i trent’anni quando compose “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk”, fra il 1930 e il 1934.

In realtà, sarebbe trascorso un ventennio prima che Šostakovič cominciasse a immaginare una revisione della sua opera “scandalosa”. Il passo sarebbe avvenuto dopo che il compositore aveva recuperato un ruolo centrale nella musica sovietica grazie agli exploit musical-patriottici durante la Seconda Guerra mondiale (specialmente con la Settima Sinfonia) e soprattutto dopo la morte di Stalin e il successivo parziale cambiamento del clima politico nel Paese. Ci sarebbero però voluti quasi altri dieci anni, prima che nel 1962 l’opera tornasse in scena in una versione “attenuata”, con il titolo Katerina Izmajlova. E tuttavia, per quanto fosse sostenuta dallo stesso autore, la presenza sulle scene del lavoro in questa revisione ha avuto vita marginale e tutto sommato breve. Scomparso Šostakovič nell’estate del 1975, sul finire degli anni Settanta la versione originale è stata riscoperta ed è diventata quella corrente dapprima in Occidente e quindi, dopo la caduta del comunismo, dai secondi Anni Novanta anche in Russia, grazie in particolare all’impegno del direttore d’orchestra e violoncellista Mstislav Rostropovič, grande amico del compositore.

In Italia, la prima esecuzione della Lady Macbeth si ebbe l’11 settembre 1947, quando la Biennale di Venezia inaugurò alla Fenice con questo titolo il decimo Festival internazionale di musica contemporanea, direttore Nino Sanzogno, regia di Aurel Milloss. Proposta precoce e notevole, visto che in Unione Sovietica l’opera era scomparsa dalle scene nel 1936 (ma la cosa a giudicare dai resoconti giornalistici non era risaputa: si era ancora in piena era staliniana), rispetto alla quale la critica ebbe tuttavia parole tutt’altro che tenere. Sul Corriere della Sera, Franco Abbiati parlò di “opera orribilmente realistica e insuperabilmente ingenua”, di “disordine morale e incertezze estetiche”, segnalando che alla fine la rappresentazione era stata salutata da “molti dissensi, altrettanti applausi e disorientamento quasi generale”. «Il capace letto di Caterina – aggiungeva il critico bergamasco – era la divertente ossessione della serata, costituiva il principale agente di reazione nell’animo degli spettatori». Proprio quel letto (realizzato su un bozzetto di Renato Guttuso) e la necessità per il soprano protagonista di cantare in camicia da notte e di baciare il tenore durante la torrida scena dell’adulterio furono al centro di uno “scandalo” in cui ebbero una parte, secondo il racconto del critico Rubens Tedeschi (I figli di Boris, Feltrinelli, 1980, di recente ristampato da Edt, 2018), il Patriarca di Venezia e il giovane sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giulio Andreotti. Il risultato fu che «alla seconda esecuzione il sipario venne calato sulla scena incriminata per riaprirsi ad adulterio consumato». E fu anche che la Lady Macbeth scomparve dalle scene italiane (sporadicamente sostituita durante gli Anni Sessanta, alla Scala e a Bologna, da Katerina Izmajlova) fino alla ripresa avvenuta al Festival di Spoleto nell’estate del 1980.

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Šostakovič all’epoca della famigerata e minacciosa stroncatura dell’opera apparsa sulla “Pravda”.

Negli ultimi trent’anni la presenza italiana di questo lavoro è stata tutto sommato significativa: dal 1998 si contano una decina di allestimenti, oltre che a Milano anche a Firenze, Roma, Bologna, Ravenna e Napoli. Ora Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk assurge per la prima volta anche all’attenzione mediatica generale, privilegio del titolo scelto per l’inaugurazione di stagione alla Scala in diretta televisiva su Raiuno. Si tratta della terza volta nel teatro milanese, dopo l’edizione diretta da Myung-Whun Chung nel 1992 e quella del 2007 con Kazushi Ono sul podio. In quell’occasione, 60 anni dopo la stroncatura di Abbiati, il Corriere completava la revisione del giudizio critico, all’epoca ormai unanimemente positivo, già iniziata nel 1980 con il resoconto da Spoleto firmato da Mario Pasi. Quest’opera è “uno dei vertici del teatro musicale del Novecento”, si legge in un elzeviro firmato da Paolo Isotta sul quotidiano milanese. E non si può che consentire.

La famigerata stroncatura anonima della Lady Macbeth, pubblicata il 28 gennaio 1936 dalla Pravda con il titolo “Caos anziché musica”, è stata un momento cruciale non soltanto per quanto riguarda la definitiva irreggimentazione della musica dentro ai canoni del cosiddetto “realismo socialista” propugnato dal sistema autoritario sovietico, ma anche per il tagliente “avvertimento” alla critica che vi è contenuto e più in generale perché si tratta di una tappa decisiva nel controllo da parte del regime staliniano sul mondo letterario e artistico, rappresentativo e non. Non diversamente da quanto si stava realizzando nell’ambito politico in senso stretto, negli anni seguenti la sorveglianza sempre più opprimente e la censura dei suoi protagonisti sarebbe spesso sfociata nella violenza, nella persecuzione, nel delitto. La morte per fucilazione, dopo essere stato torturato, sarebbe stato ad esempio il destino, nel 1940, del grande regista Vsevolod Mejerchol’d. E il fatto che nell’articolo contro Šostakovič si parli, ovviamente in negativo, di “mejercholdismo” fa capire quali rischi abbia corso il compositore. Il cui talento non viene negato ma considerato protagonista di un rovesciamento di valori, usato per rifiutare «la semplicità rappresentativa, il realismo, la chiarezza delle immagini e della parola».

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Il compositore e il regista Vsevolod Mejerchol’d nel 1936, l’anno della grande crisi con il regime.

Al centro del discorso, un ideologismo minaccioso e culturalmente evanescente: «Il potere della buona musica di parlare alle masse è stato sacrificato a un tentativo piccolo-borghese e formalista di creare originalità attraverso buffonate a buon mercato. È un gioco che può finire molto male. Il pericolo di questa tendenza per la musica sovietica è chiaro. La distorsione di sinistra nell'opera deriva dalla stessa fonte della distorsione di sinistra nella pittura, nella poesia, nell'insegnamento e nella scienza. Le “innovazioni” piccolo-borghesi portano a una rottura con la vera arte, la vera scienza e la vera letteratura».

Due giorni prima della pubblicazione, il lavoro era stata “verificato” in teatro da Stalin (come sua abitudine semi-nascosto nel palco A del Bol’šoi), accompagnato da influenti personaggi del Politburo come Ždanov, Molotov e Mikojan. Evidentemente, il successo fino a quel momento incontrastato dell’opera, rappresentata oltre un centinaio di volte solo a Leningrado e a Mosca dopo il debutto assoluto del gennaio 1934, aveva stuzzicato la curiosità del dittatore. Senza contare che l’immediata accoglienza della Lady Macbeth nell’Occidente borghese e decadente (rappresentazioni a Cleveland – dove la vide Stravinskij, senza nessun entusiasmo – e a New York, a Londra e a Praga, a Copenaghen e a Stoccolma) suscitava ovviamente molti sospetti e altrettanti fastidi. Il paradosso è che mentre la critica sovietica, fino al minaccioso contrordine pubblicato sulla Pravda, si era mostrata entusiasta, quella occidentale lo era stata molto meno. Specialmente quella americana, che aveva parlato di “lurido colore comunista” e di “pornografia musicale”. Alla lettera, “pornofonia”. Un’idea non dissimile doveva avere chi ottenne che a Venezia, nel 1947, la scena dell’adulterio si svolgesse a sipario abbassato.

Come che fosse, la sera del 26 gennaio 1936 Stalin se ne andò prima della fine, forse dopo il terzo atto, durante il quale la polizia zarista (l’opera è ambientata nel secondo Ottocento) fa mostra di autoritarismo in maniera grottesca e caricaturale. Quella sera al Bolš’oj il sipario calò per l’ultima volta – come sempre fra entusiastici applausi – sulla tragica e disperata morte di Katerina Izmajlova. Due giorni dopo, la sentenza di condanna a mezzo articolo di giornale avrebbe avuto un ulteriore effetto: nei quasi 40 anni che gli restavano da vivere, Dmitrij Šostakovič mai più avrebbe affrontato l’opera se non a livello di progetti presto abbandonati o di approccio occasionale all’operetta. Per la musica del Novecento, una perdita irrimediabile. Tanto più se si considera che il compositore progettava di realizzare una trilogia di opere dedicate a figure femminili, di forte impatto drammatico.

Una giovane donna di modestissime origini ha sposato il figlio, più anziano di lei, di un ricco proprietario terriero del distretto di Mcensk, piccolo centro agricolo, sperduto nell’immensa pianura sarmatica a sud di Mosca. Oppressa dalla noia e tormentata dall’inappagamento sessuale, la giovane si lascia sedurre da un manovale ingaggiato dal suocero e precipita in un gorgo di torrido erotismo ed efferati delitti. Dapprima uccide il suocero – che peraltro meditava di sostituirsi al figlio nell’espletamento dei doveri coniugali – aggiungendo veleno per topi ai funghi che gli ha cucinato; quindi, strangola il marito con l’aiuto dell’amante, con il quale decide di sposarsi dopo avere nascosto in cantina il corpo dell’ultima vittima. Durante la cerimonia nuziale, un contadino ubriaco scopre il cadavere e avverte la polizia, che arresta gli assassini. Nell’ultimo atto, i due fanno parte di una colonna di condannati in cammino verso la Siberia. Durante una pausa, lei scopre che l’uomo a cui si è unita ha avviato una relazione con un’altra prigioniera. Disperata, la uccide gettandola in un lago sulle cui rive la colonna si è fermata per la notte, e la segue trovando la morte nelle acque gelide e oscure.

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L’articolo comparso sulla “Pravda” il 28 gennaio 1936. La “Lady Macbeth” scomparve immediatamente dalle scene russe.

Questa storiaccia di cronaca nera era il soggetto, forse almeno in parte ispirato a fatti realmente accaduti, di un racconto di Nikolaj Leskov (1831-1895) pubblicato in Russia nel 1865 ma ancora molto popolare sessant’anni più tardi, anche grazie a un film muto di buon successo uscito nel 1926, intitolato Katerina Izmajlova. Šostakovič si occupò personalmente della stesura del libretto insieme ad Aleksandr Prejs, che aveva collaborato con lui anche per il lavoro precedente, Il naso, da Gogol’. Rispetto alla fonte – apprezzata per il suo realismo acceso e crudo, riflesso anche in un linguaggio denso di espressioni popolari – il musicista scelse peraltro di omettere un ulteriore orribile delitto commesso dalla protagonista, ma dichiarò apertamente di preferire il racconto di Leskov (conservandone il titolo shakespeariano, oggettivamente fuorviante e probabilmente nello scrittore sarcastico) al celebre dramma L’uragano di Aleksandr Ostrovskij (1823-1886). Anche questo popolare lavoro per il teatro – nel 1921 musicato da Leoš Janáček in Kát’a Kabanová – ha come tema centrale l’adulterio al femminile, ma resta molto distante dalla catena di feroci delitti descritta nel racconto di Leskov, delineando un contesto molto sofisticato psicologicamente, con l’unico elemento comune del suicidio finale della protagonista.

Sul soggetto, e sulle sue scelte nel modo di trattarlo, il musicista di Leningrado aveva le idee chiare, espresse mentre ancora stava lavorando alla partitura in un articolo pubblicato sul periodico Sovetskoe iskusstvo nell’ottobre del 1932 (lo si può leggere nella fondamentale monografia di Franco Pulcini, Edt, 1988-2021). «L’opera è per me tragica. Direi che la si potrebbe definire tragico-satirica. Anche se Katerina L’vovna è un’omicida – assassina infatti il marito e il suocero – ho per lei simpatia. Mi sono preoccupato di dare a tutti gli avvenimenti che la circondano un oscuro carattere satirico. Il termine “satirico” non è certo da intendersi nel suo significato di “ridicolo, canzonatorio”. Al contrario: con la Lady Macbeth mi sono preoccupato di creare un’opera che sia una satira larvata e, gettando la maschera, obblighi a odiare lo spaventoso arbitrio e i soprusi della classe dei commercianti».

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Musicalmente, questa visione si riflette nel fatto che l’unico personaggio al quale Šostakovič affida una gamma espressiva completa, che passa dal lirismo alla tragicità, con una scrittura vocale comunque sempre tesa e tagliente, è appunto quello della protagonista, che delinea una sorta di tragica accettazione del male all’insegna di un pessimismo crescente. Attorno a lei, i numerosi personaggi maschili costituiscono una sorta di platea insensibile e violenta, interessata e meschina, che assiste alla tragedia annunciata di Katerina e la provoca come conseguenza del soddisfacimento delle proprie aspirazioni, siano esse erotiche o di ruolo sociale. E questo si riflette in linee di canto frante, non di rado caricaturali nel ricorso a linguaggi musicali estranei di effetto paradossale, spesso volutamente insignificanti, in uno spiazzante mix di ritmi di danza “leggeri”, allusioni jazzistiche, intrusioni di temi popolari, citazioni mahleriane.   

Come accade in Wozzeck, il capolavoro espressionista di Alban Berg – rappresentato a Leningrado nel 1927 e apprezzatissimo da Šostakovič – l’orchestra ha un ruolo fondamentale. Al proposito, Rubens Tedeschi arrivava a considerare che l’intera partitura, con la sua drammaturgia disorientante e desolante, si possa in fondo considerare una sorta di Sinfonia in quattro movimenti, l’ultimo dei quali, il quarto atto, ha la stessa cifra espressiva di cupo pessimismo che permea il celebre Adagio lamentoso che conclude la Patetica di Cajkovskij.

La scrittura strumentale ha ruoli molteplici, volutamente non di rado disallineati rispetto alla drammaturgia, secondo la concezione che il grande regista cinematografico Sergej Ėjzenštejn aveva della musica nei film, affermando la necessità del contrasto più che quella della sottolineatura delle situazioni. È questa la funzione che assumono non soltanto la maggior parte degli straordinari Interludi orchestrali posti a separare le scene all’interno degli atti, pagine cruciali per delineare il clima rappresentativo e allo stesso tempo per affermare il suo sovvertimento musicale, ma anche molti accompagnamenti. In essi, la “descrizione” strumentale di quel che avviene in scena in molti casi delinea una “interpretazione” divergente rispetto alla narrazione del momento, spesso anche in questi casi grazie all’adozione di linguaggi estranei alla tradizione melodrammatica classica e a quella russa.

Quanto al “naturalismo” del linguaggio musicale, così sgradito ai censori staliniani e così determinante nella cifra espressiva dell’opera, è inevitabile citare la scena di seduzione alla fine del primo atto. Qui i “glissando” dei tromboni – dentro alle frenetiche accelerazioni del resto dello strumentale – diventano protagonisti di quella che è forse la più sbalorditiva “rappresentazione sonora” di un rapporto sessuale di selvaggia intensità. Il dettaglio fu naturalmente denunciato nell’articolo sulla Pravda: «Il compositore di Lady Macbeth è stato costretto a prendere in prestito dal jazz la sua musica nervosa, convulsa e spasmodica per conferire “passione” ai suoi personaggi».  E subito dopo: «La musica starnazza, grugnisce, ringhia e si soffoca per esprimere le scene d'amore nel modo più naturalistico possibile». Descrizioni paradossalmente precise dentro a una totale incomprensione critica.

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Novant’anni dopo, considerata nella prospettiva del teatro per musica del XX secolo, Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk appare come una formidabile elaborazione e allo stesso tempo un affascinante superamento dell’espressionismo tedesco, un’invenzione modernista di originalità perfino sconcertante, della quale è ingrediente fondamentale anche la riflessione sull’eredità del più grande e visionario operista russo dell’Ottocento, Modest Musorgskij. Alle cupe profezie e al pessimismo sui destini del popolo russo di cui è imbevuto il Boris Godunov), non a caso oggetto di lì a pochi anni di una revisione da parte di Šostakovič,  tutto il quarto atto della Lady, con i suoi foschi cori di forzati e la disperazione della protagonista, rende omaggio con dolorosa poesia, lontana da qualsiasi barlume di speranza.

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