I pipistrelli di Inès Cagnati
È uscito in Italia il terzo libro di Inès Cagnati I pipistrelli (traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, Adelphi 2024), pubblicato per la prima volta nel 1989. Sono sette racconti, dallo stile unitario, un insieme di vicende umane che si dipanano sotto gli occhi del lettore con una scrittura limpida, serrata; sette storie unite dall'arte di un'autrice – "i cui bei libri non hanno avuto l'attenzione che meritano" (Annie Ernaux) – che va in profondità nella descrizione dei suoi personaggi e, pur nella misura contenuta di poche pagine, affonda nella miseria, nell'aridità della loro ignoranza, come le rane nel fango degli stagni nelle campagne pietrose che fanno da scenario, dove "non vien voglia né di nascere né di vivere", e dove soffocano e muoiono per la siccità. Sulla disperazione vigila la ricchezza della natura con i suoi colori, il profumo della menta calpestata, le esplosioni di bellezza umile e rigogliosa: "Un po' discosto dal cortile, un guazzabuglio di lillà violacei e di viti si arrampicano sul grosso melo dalle mele verdi e succose", "nelle siepi le acacie sono irte di spine nere come diavoli", "i rami storti dei meli selvatici sono ammantati di nuvole di fiori rosa, poi, più avanti, da una fitta picchiettatura di piccole mele rosse".
Dovunque un sentimento di amore per "le erbe che curano il corpo", di cui la protagonista di uno dei racconti conosce tutti i nomi, per il ruscello "la cui frescura è protetta dai giunchi arancioni e dai sambuchi con i loro grappoli rossi ombrellati e in riva all'acqua è tutto un intrico di calle, iris, menta e le libellule si rincorrono", per il lotus, la parola d'ordine che la avvicina a una bambina con la quale non si capiscono perché non conoscono il francese, essendo lei figlia di italiani, l'altra di polacchi; dovunque, questo sentimento d'amore per la natura, dicevamo, è il contrappunto necessario all'oscurità che alberga nelle pagine – e nelle cantine, dove i pipistrelli stanno appesi ai muri nel buio – e risveglia una speranza straziante, quella della felicità che sembrerebbe possibile. Animali, piante e paesaggi sono soggetti vivi, con i quali Cagnati intesse quel dialogo che sembra impossibile tra adulti e tra adulti e bambini. La narratrice sogna di partire, "verso luoghi lontani, dove nessuno parlerà con me (...) e resterò là per sempre, a guardare, senza aspettare niente".
La protagonista dei racconti di Pipistrelli si unisce all'universo vegetale e animale in totale simbiosi (l'acqua del fiume, dove sdraiarsi nuda per lavarsi, e la terra, "che attira ogni cosa") consapevole della bellezza della natura e del suo essere inspiegabile, indifferente, spietata. Cagnati non usa metafore, non c'è filosofia della natura nei suoi libri, c'è la natura in dettaglio: la lucertola, la rana, la menta, i fiori azzurri della cicoria selvatica, le foglie di granturco, il cane, le vacche, i maiali. Inès Cagnati (1937-2007) è figlia di una coppia di immigrati italiani, come i quasi coetanei Anne-Marie Blanc (1931-2022) e François Cavanna (1923 -2014), uniti dal destino di diventare scrittori in una lingua che in casa non sentivano parlare, e che Inès Cagnati ha dovuto imparare, mantenendo per tutta la vita l'inflessione italiana nel suo perfetto francese. Tutti e tre vittime di esclusione sociale se non proprio di razzismo: Cavanna ha scritto un libro diventato famoso, Les Ritals, termine dispregiativo con il quale venivano chiamati gli italiani e che, spiega Cavanna, corrispondeva alla sigla R.Ital. (République Italienne) scritta, in forma abbreviata, sulle carte di soggiorno degli immigrati.
Mentre Anne-Marie Blanc e Cavanna – cresciuti nella stessa Francia del Sud che accoglieva gli immigrati italiani tra le due guerre – sono esempi di integrazione riuscita, Inès Cagnati ha dichiarato di essersi sentita sempre straniera in Francia: "Quando i miei genitori mi hanno fatto naturalizzare, è stata una tragedia, ha detto in una intervista, "perché non ero francese. Non ero più nemmeno italiana. Quindi non ero niente": "Così sono diventata io, senza nome" dice la protagonista dell'ultimo racconto, che tutti chiamano "la pipistrella". Cavanna (poi tra i fondatori di Charlie Hebdo) ha dimostrato più volte la sua gratitudine alla scuola pubblica francese che gli aveva insegnato l'amore per la letteratura, Inès Cagnati ha avuto invece con la scuola un viscerale rapporto di rifiuto.
Nel primo racconto di questa raccolta, intitolato "La tacchinella", un umorismo amaro è la cifra stilistica che accompagna la bambina che non vuole andarci: la maestra la esclude, la rimprovera se osa fare una domanda, la tortura chiedendole di risolvere problemi astrusi: "per passare l'esame bisogna saper risolvere i problemi e io, per colpa della vasca da bagno, non ci riesco'. 'La vasca da bagno?' ha detto mio padre. 'Quella della maestra, ho spiegato. Ha una vasca piena di buchi e nei problemi vuole che le diciamo quanto tempo le serve per riempirla e fare il bagno. Ma io come faccio a saperlo?". La scuola c'è sempre nei romanzi di Inès Cagnati, anche nei precedenti Giorno di vacanza (1973) e Génie la matta (1976): è da un lato la promessa di emancipazione e dall'altro l'ennesima forma di esclusione, nella convinzione di essere respinta perché povera, non solo perché italiana.
"Il russo e la polacca sono come te. Non capiscono il francese (...) sono stranieri, ancora più stranieri degli altri (...). Te l'ho detto, sono ancora più poveri di noi. Come si fa a rispettarli?". Schivando sempre i trabocchetti del lirismo, è un realismo crudo quello che emerge da questi racconti, ambientati in case desolate, abitate da persone prigioniere di vite di sofferenza e privazione. Nel racconto più bello, "Le lucertole", Cagnati descrive l'attesa di due anziani genitori contadini per l'arrivo della figlia e del genero – entrambi professori – e del nipotino, i preparativi del cibo e della tavola per dimostrarsi all'altezza e il senso di soggezione verso la figlia istruita. È tutto pronto. Eppure, ha la sensazione di aver tralasciato, dimenticato qualcosa. Va su e giù per la cucina e a un tratto capisce. In casa non c'è neanche un fiore. Si rimette le ciabatte e corre in giardino, a raccogliere dalie, zinnie, calendule gialle e arancioni e qualche sottile rametto di tamerici per bellezza".
L'arrivo dei tre, simbolo di una vita colta e distante dal loro mondo, e la fretta con cui la famigliola poi se ne va, dopo aver cenato, segna la distanza incolmabile tra la loro esistenza semplice e un mondo estraneo, al quale appartiene ormai la figlia che, con grandi sacrifici, hanno fatto studiare. Senza enfasi, con una prosa essenziale, il racconto parla della solitudine di quelle due lucertole "vecchie", guarda come sono vecchie entrambe! Ahi, come piangono e piangono le due lucertole!": Cagnati affida a Federico Garcia Lorca la sua disincantata conclusione, in un esergo che mette in fondo invece che all'inizio, come negli altri racconti, perché – aveva spiegato a chi le chiedeva conto di questa scelta insolita, che si ritrova anche in Génie la matta – "Quando si apre un libro non si sa ancora di cosa parla ed è meglio che la frase rivelatrice che abbiamo individuato per riassumerlo sia posta alla fine, ha più senso". Come tutti i grandi della letteratura anche Inès Cagnati si è cimentata con la forma breve, esercitandosi nella lingua che aveva già sperimentato nei due romanzi che hanno preceduto I pipistrelli: ricercata precisione nella scelta delle parole, cui sa infondere una forza speciale, nel raccontare storie che prendono alla sprovvista, confondono e disorientano ma nello stesso tempo agganciano con la loro crudele purezza.
Leggi anche:
Paolo Landi | Inès Cagnati, la cattiva
Paolo Landi | Un romanzo di Inès Cagnati / Génie la matta