Il mondo immenso di ogni animale

15 Settembre 2023

L’idea risale al 1909, quando lo zoologo estone Jakob von Uexküll, partendo dal presupposto che l’animale sia un essere senziente e non una macchina, elabora il concetto di Umwelt. La Terra “brulica di paesaggi”, percorsi “da suoni e vibrazioni, odori e sapori, campi elettrici e magnetici”. Ma ogni animale può cogliere solo una parte della ricchezza ambientale. Ciascuno è chiuso all’interno della propria “bolla sensoriale” e vede il mondo secondo la sua prospettiva, inevitabilmente ristretta. Il problema è che non ce ne accorgiamo. A renderlo esplicito a un pubblico di lettori che ci si augura ampio è il ricchissimo saggio del divulgatore scientifico inglese Ed Yong, Un mondo immenso, ottimamente tradotto da Stefano Travagli e pubblicato da La nave di Teseo. 

A nessuno il mondo in cui vive pare una porzione di un mondo più grande e diverso. E poi i sensi – quelli interni, come la propriocezione – ci giocano uno strano scherzo, perché scollegano la nostra esperienza della realtà dagli organi che la producono. In altre parole, ci spingono a pensare che l’idea del mondo sia un costrutto mentale distante dalla realtà fisica. Che, cartesianamente, ci sia una mente opposta a un corpo. È il motivo per cui il tema della metamorfosi riempie miti e leggende. È l’origine di numerose opere letterarie in cui la voce narrante assume il punto di vista di un non umano. Ma “il mondo sensoriale di un animale è il risultato di tessuti solidi che rilevano stimoli reali e producono cascate di segnali elettrici. La mente umana in un corpo di pipistrello non funzionerebbe”. Quanto appare evidente a più di un secolo di distanza dall’intuizione di Uexküll è che il livello di conoscenza degli Umwelten degli altri animali è incredibilmente cresciuto. 

Il contributo di più discipline – la biologia, l’etologia, la fisiologia, la neurologia, la zoologia – ci ha condotto a intuire cosa può essere l’orizzonte di vita di un animale non umano. Intuire non significa capire del tutto, impresa che possiamo tranquillamente ritenere impossibile. Significa invece ricostruire attraverso quali percorsi una balena o un calamaro gigante agiscono nel mondo. Cosa sentono del mondo. Per arrivare a questo risultato la nostra specie deve innanzitutto evitare di affidarsi soltanto al senso guida, alla vista. E deve poi, ricostruita la fisiologia dell’apparato sensoriale altrui, accettare l’idea di vivere a contatto con colori, suoni, “consistenze” e scenari che, letteralmente, non coglie. Apparirà così inequivocabile che il concetto di Umwelt è “un’idea meravigliosamente espansiva”, in grado di farci comprendere “che non tutto è ciò che sembra e che tutto ciò di cui facciamo esperienza è solo una versione filtrata di tutto ciò di cui potremmo fare esperienza”. Si tratta di una prospettiva per molti versi sconvolgente, che determina un frastagliato spettro di ricadute. Perché rende la realtà un intrico di piani più complesso di quanto si possa supporre, permettendoci di cogliere “che c’è luce nell’oscurità, rumore nel silenzio, ricchezza nell’insignificanza”; perché accetta che gli altri animali abbiano una complessità sensoriale e cognitiva e non agiscano sulla base di un indefinito “istinto”; perché ci riallinea, ancora una volta, ma in questo caso in modo ancor più marcato, alla natura, facendo dell’uomo uno dei tanti abitanti del pianeta. Anche se poi, in effetti, la nostra capacità di affacciarci alla mente altrui, sembra distinguerci dalle altre specie ed essere la “nostra più grande abilità sensoriale”. Entrare nell’universo animale attraverso la strada dei sensi, in definitiva, allarga le dimensioni del mondo. I sensi infatti non servono solo a fare ordine, strutturando la vita dei viventi. Non sono quindi, come inizialmente il concetto di Umwelt potrebbe far credere, soltanto la prigione che esclude dal contatto con gli altri viventi. La loro funzione è anche quella di definire “il futuro di una specie, le sue possibilità evolutive”, filtrando gli stimoli “relativi a cibo, riparo, minacce, alleati o partner”. Ma c’è di più. Leggendo Yong, non si può fare a meno di pensare quanto la comprensione di altri viventi ci aiuti a stabilire empatia, a costruire relazioni con animali non umani e anche con i nostri simili che hanno una diversa percezione del mondo per via di menomazioni sensoriali. 

Il primo senso a cui si dedica Yong è l’olfatto. Per la nostra specie è un senso poco nobile, i filosofi greci ritengono che produca esclusivamente “impressioni emotive”. Freud lo lega al disgusto. Se noi tendiamo a sottovalutarlo, per molti animali però è fondamentale. Cani, elefanti e formiche annusano in stereofonia. Usando una coppia di narici o di antenne, tracciano paesaggi chimici. I serpenti fanno la stessa cosa ricorrendo alla lingua biforcuta che guizza continuamente sul terreno. Le lucertole compiono l’operazione in modo simile, dando però solo qualche colpetto al terreno. I salmoni tornano nei torrenti dove sono nati inseguendo gli odori dell’infanzia. Gli orsi polari lasciano scie di odori attraverso le ghiandole poste nelle loro zampe. Nonostante a lungo si sia creduto il contrario, anche molte specie di uccelli, soprattutto marini, sono sensibili agli odori. Chi punta sull’olfatto ha a disposizione una diversa fisiologia: i cani hanno uno scompartimento separato, che fa restare nel naso gli odori che noi espelliamo respirando. Con le due fessure poste ai lati delle narici, inoltre, incamerano aria anche quando espirano. Il vantaggio degli odori è che si muovono in ogni condizione problematica per la vista. Persistono e ci raccontano una storia. Permettono di fare previsioni, precedendo chi li produce. Gli animali se ne servono per raccogliere informazioni, soprattutto sul cibo e sul partner. Ci sono civiltà animali fondate sull’olfatto. Le formiche hanno visto un’esplosione dei geni che codificano i recettori olfattivi quando sono passate da un’esistenza solitaria ad una sociale. Si coordinano con i feromoni, in cui senza saperlo anche noi siamo immersi, diventando “un vero e proprio superorganismo”.

Rispetto all’olfatto, il gusto è un senso più semplice e serve per prendere decisioni binarie sul cibo: buono da mangiare o no? Lo facciamo noi – fin dalla nascita evitiamo ciò che è amaro – e lo fanno gli altri animali. Rettili, uccelli e mammiferi assaggiano con la lingua, la maggior parte degli uccelli con le zampe. Il senso del gusto più esteso in natura è dei pesci gatto. Gatti, iene maculate e molti mammiferi esclusivamente carnivori non hanno il senso del dolce. I panda, che si nutrono solo di bambù, hanno un’ampia batteria di geni per percepire l’amaro. Ma i mammiferi che ingoiano prede intere, come i delfini, lo hanno perso. I piccoli dinosauri predatori avevano perso la capacità di sentire lo zucchero e hanno consegnato questo “palato ristretto ai loro discendenti, gli uccelli”. Ma gli uccelli canori hanno riacquisito il senso del dolce. Il processo è avvenuto in Australia, dove i fiori sono ricchi di nettare e gli alberi di eucalipto rilasciano dalla corteccia una sostanza sciropposa. Grazie a queste eccezionali fonti di energia, gli uccelli canori si sono diffusi negli altri continenti e ora sono la metà delle specie di uccelli esistenti al mondo. 

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La vista dà vita a moltissimi Umwelten. Ovvero, il mondo non è solo quello che noi vediamo. La visione frontale, la sensazione che le cose ci stiano davanti, è prevalentemente nostra. Lo spazio visivo degli uccelli è tutto intorno a loro e ci si muovono attraverso. Lo sguardo fisso delle mucche non nasce dalla noia ma dal fatto che non hanno bisogno di girarsi perché il loro campo visivo copre quasi tutta l’area attorno alla testa. Molti animali vedono al buio. Cani e gatti col tapetum lucidum, alcuni con occhi e pupille eccezionalmente grandi, come l’allocco o, nelle profondità oceaniche, il calamaro gigante e il calamaro colossale, che devono cogliere i lampi di bioluminescenza prodotti dal loro predatore, il capodoglio, quando si scontra con meduse, crostacei e plancton. Nulla è più variabile dei colori del mondo. E nulla è più controintuitivo dell’idea che il colore esista solo nell’occhio di chi guarda e nel suo cervello. Il passaggio alla visione del colore probabilmente si è verificato con l’esplosione del Cambriano, 541 milioni di anni fa, quando molte creature che vivevano nelle acque basse dei mari ne hanno avuto bisogno, perché i riflessi del sole per i monocromatici sono disorientanti. Il colore invece è costante e stabilizza la visione del mondo. Per percepirlo basta il dicromatismo. È la condizione dei cani (e della maggior parte dei mammiferi, compresi i daltonici umani), che vedono il mondo in sfumature di blu, giallo e grigio. I primati sono invece tricromatici, avendo un gene che aggiunge ai blu e ai gialli anche i rossi e i verdi, con cui hanno potuto con più facilità individuare frutti e foglie nelle foreste. Gli umani però sono tra i pochi che non vedono la luce ultravioletta. Formiche, cani e gatti ci riescono. Grazie ad essa i pesci vedono il plancton, i roditori il profilo degli uccelli, le renne i muschi e licheni. Molti uccelli hanno raggi ultravioletti nel piumaggio, i fiori hanno chiazze ultraviolette per attirare gli impollinatori. L’assenza dell’ultravioletto crea negli umani un vuoto percettivo: la natura ha un volto diverso da quello che noi le attribuiamo. Spesso il colore è una risposta all’ambiente. I pesci delle barriere coralline hanno colori tra il blu e il giallo perché il rosso viene assorbito dall’acqua. Ma la scelta di quelle tinte è fatta per nascondersi ai predatori: il giallo scompare contro i coralli, il blu si confonde con l’acqua. L’atto di vedere ha ricolorato il mondo, ha creato la bellezza. 

Come il colore, il dolore è soggettivo – non c’è nulla di intrinsecamente doloroso – e, avvertendoci di una lesione o di un pericolo, è fondamentale per la sopravvivenza. Mentre la nocicezione è il processo sensoriale attraverso il quale rileviamo un danno, il dolore è la sofferenza successiva, in cui è coinvolto il cervello: il dolore richiede un certo grado di elaborazione consapevole. Filosofi come Cartesio e Malebranche erano dell’idea che gli animali non sperimentassero dolore. Oggi non possiamo supporre che tutti gli animali lo provino: la coscienza non è una proprietà intrinseca di tutte le forme di vita. Potrebbe però esistere una condizione intermedia tra provare dolore e non provare nulla. Estremamente variabile è anche la percezione del calore. Ogni specie viaggia autonomamente. Così se la formica d’argento del Sahara va in cerca di cibo quando la sabbia raggiunge i 53 °C, le mosche del genere Chionea sono attive a -6 °C. Noi, come tutti i mammiferi e gli uccelli, abbiamo imparato a separare la nostra temperatura da quella dell’ambiente. Il vantaggio ci ha però resi facili da individuare per i parassiti, soprattutto quelli in cerca di sangue.

Il tatto, pur essendo il senso dell’intimità e dell’immediatezza, a cui si affidano soprattutto gli animali che operano dove la vista è limitata, funziona anche a distanza. La talpa dal muso stellato usa le appendici rosa che ha attorno al naso per toccare l’ambiente circostante. Alcuni uccelli, come le anatre, hanno sensori tattili nel becco, altri nella peluria rigida sulla testa. Forse in origine le piume avevano la stessa funzione. I topi e i ratti, agitando continuamente le vibrisse avanti e indietro, esplorano la zona che si trova davanti e intorno alla loro testa. Il tatto guida i movimenti dei pesci. Quando i predatori si avvicinano, il banco reagisce come se fosse una sola cosa, perfettamente coordinato. A guidarlo è un sistema di sensori detto linea laterale, costituita da pori presenti sulla testa e sui fianchi e da canali pieni di fluido che scorrono sottopelle, destinata ad attivarsi quando il movimento dei predatori sposta l’acqua verso i pesci vicini. 

La civiltà soprattutto occidentale si è allontanata dal terreno con le scarpe, le sedie, i pavimenti, per cui quasi tutti noi umani siamo esclusi dal “paesaggio vibrazionale a cui partecipano altre specie”. Non percepiamo i “sensi sismici”. Ma circa duecentomila specie di insetti comunicano così. I membracidi emettono vibrazioni che, registrate, si rendono percepibili come “suoni lunghi, inquietanti, sorprendenti”, i cosiddetti “canti vibrazionali”, che conservano energia anche sulle lunghe distanze. Ci sono molti animali che vi fanno ricorso. Lo scorpione della sabbia se ne serve per individuare i passi della preda. I lombrichi corrono verso la superficie se percepiscono le vibrazioni di una talpa impegnata a scavare. I gatti hanno sensori delle vibrazioni nei muscoli dell’addome. I leoni sdraiati non sono pigramente abbandonati all’inerzia, ma stanno valutando la situazione guidati dalle vibrazioni. Anche gli elefanti le usano e riescono anche a capire se sono prodotte da esemplari che conoscono o da estranei. Quando stanno al centro della ragnatela, i ragni tengono le zampe sui raggi che canalizzano le vibrazioni verso di loro. In precedenza hanno programmato la ragnatela, scegliendo quali vibrazioni devono essere percepite. La ragnatela è insomma un’estensione della loro consapevolezza.  

Come il tatto, l’udito è un senso meccanico, che rileva i movimenti del mondo esterno. Mentre i mammiferi hanno un ottimo udito e orecchie simili, gli insetti sono prevalentemente sordi e quelli che ci sentono hanno sviluppato orecchie in ogni parte del corpo. Producendo e ascoltando suoni, gli insetti si scambiano segnali a velocità superiori: questo forse spiega perché, milioni di anni fa, grilli e catitidi cominciarono a cantare. Ma nel mondo naturale l’udito si lega soprattutto al canto degli uccelli, di cui noi possiamo cogliere solo alcuni aspetti. Si tratta di un campo di studi ricco di sorprese: si è scoperto, per esempio, che gli uccelli sentono in modo diverso a seconda della stagione e del sesso. Tra i suoni più affascinanti in natura ci sono i richiami a bassissima frequenza della balenottera comune e della balenottera azzurra. Il loro canto, che può propagarsi per ventimila chilometri, serve a comunicare e a mappare la densità della crosta oceanica durante le lunghe migrazioni. Gli infrasuoni sono sfruttati anche dalle famiglie di elefanti, che, pur separate da grandi distanze, si muovono nella stessa direzione per settimane, emettendo borbottii per noi impercettibili. Topi, ratti e roditori invece hanno un ampio repertorio di versi ultrasonici. Usati nei laboratori fin dal XVII secolo, chiacchierano animatamente tra loro senza che noi ce ne accorgiamo. Gli insetti con orecchie sentono gli ultrasuoni. Il motivo? Non farsi sorprendere dai loro nemici più pericolosi, i pipistrelli. Proprio i pipistrelli sono uno dei due gruppi che ha perfezionato il sonar biologico. L’altro è quello degli odontoceti, cioè i delfini, le orche e i capodogli. L’ecolocalizzazione serve per evitare collisioni e per cacciare. A differenza degli altri sensi, coinvolge l’emissione di energia nell’ambiente: si produce uno stimolo per poi rilevarlo. Nell’acqua il suono si propaga più velocemente e va più lontano, inoltre le onde sonore penetrano la carne e rimbalzano sulle strutture interne come ossa e sacche d’aria. Altri animali acquatici, in particolare i pesci elefante e i pesci coltello, usano i campi elettrici per percepire quanto li circonda. L’elettrolocalizzazione attiva è un senso istantaneo, funziona a distanza ridotta e permette di “toccare” l’ambiente da lontano. Squali e razze non producono elettricità ma hanno gli elettrorecettori con cui percepiscono i campi elettrici creati da tutti i corpi animali immersi nell’acqua: è l’elettrolocalizzazione passiva. I campi elettrici esistono anche lontano dall’acqua. Le api, per esempio, rilevano gli aloni elettrici invisibili dei fiori per l’impollinazione. Tartarughe marine e aragoste, da milioni di anni, si muovono guidate dai campi magnetici. Gli uccelli vi si affidano quando migrano. Le balene hanno una bussola interna che permette loro di andare dall’equatore ai poli tornando al punto di partenza l’anno successivo. Lo dimostrano le tempeste solari: quando si verificano, mandano in tilt il campo magnetico e le balene si spiaggiano. 

Percorrendolo in questo modo, il mondo diventa davvero immenso. Anche perché i sensi vengono usati dagli animali in combinazione tra loro e ce ne sono alcuni, i cosiddetti sensi interni, che servono a distinguere i segnali prodotti da altri da quelli autoprodotti. Quanto fa riflettere è semmai che nel momento in cui siamo arrivati a conoscere i mondi sensoriali degli altri animali, quei mondi li abbiamo profondamente riplasmati, ritagliandoli sul nostro Umwelt. Ma un mondo antropizzato e invaso da luci e rumori annulla gli stimoli che connettono gli animali tra loro e con l’ambiente, restringendone – drammaticamente – il campo percettivo.

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