L'orso polare e altri animali
Willem Barents, timoniere, nella storia olandese diventa un eroe più di due secoli dopo la morte, avvenuta in occasione della sua terza spedizione artica, nel 1597. Oltre a essergli intestato il mare che ha attraversato affrontando le insidie dei ghiacci, è solo nel pieno dell’Ottocento che gli vengono riconosciuti lo spirito del martire, l’abnegazione, il coraggio. In un’ottica tradizionale quanto ha compiuto si configura come un contributo all’estensione delle conoscenze umane. Arrivando a rivelare il passaggio a Nord-Est verso la Cina si è affiancato a Marco Polo. Barents è un esploratore che ha dato prestigio all’umanità, che ha permesso alla civiltà di spingersi oltre i limiti conosciuti. Un simbolo nazionale anche, campione di quell’operosità olandese che ha sottratto al mare il ventisei percento della superficie del paese. Ma se fossero gli animali, quelli che lui ha incontrato, quelli che hanno avuto a che fare con le sue avventurose spedizioni, ad essere al centro dell’attenzione? Se fossero, cioè, il fuoco della narrazione quei viventi – originari dell’area polare – che dalla colonizzazione di Sapiens hanno tratto più svantaggi che altro, quali storie leggeremmo? Come potremmo valutare chi, come Barents, ha invaso ecosistemi che non gli appartenevano? È questa la direttrice lungo cui si muove un romanzo-reportage come Bestiario artico, scritto dall’olandese Frank Westerman e tradotto per la casa editrice Iperborea da Francesco Panzeri, in cui i protagonisti sono sette animali: il narvalo, il lemming, l’anguilla, l’oca colombaccio, l’orso polare, la renna, il granchio rosso.
Diventare protagonisti non significa però annullare la presenza umana. La convinzione di Westerman – talvolta sofferta, come se fosse una insopportabile cappa – è che sia impossibile entrare nella “bolla” (von Uexküll è una delle sue letture) degli altri animali. L’antropocentrismo è inaggirabile e perlomeno inopportuna sarebbe stata l’opzione di dare voce agli animali in prima persona, pur essendo altrettanto legittimo ipotizzare cosa avrebbero potuto sentire e forse addirittura pensare in alcune circostanze. Ma non è solo questo. Westerman non può rinunciare alla presenza umana perché quanto ci dicono gli altri animali – il loro trasformarsi in storie da raccontare – deriva dall’incontro con la nostra specie. Se siamo la causa delle loro difficoltà per incuria o per aver agito nella convinzione che il mondo fosse la nostra stanza o per spirito predatorio, siamo anche coloro che li abbiamo vissuti (e li viviamo) raccontandoli. Ogni storia su un animale, ogni espressione di “prosa zoologica”, è quanto di più intimamente umano sia immaginabile. Non possiamo parlare degli animali senza parlare di noi: anche se avessimo la facoltà di superare le barriere interspecifiche, ogni discorso sull’animale può essere soltanto nostro e su di noi perché l’affabulazione è propria della sola specie umana e perché la parola sull’animale diventa un modo per guardarci attraverso lo specchio.
Ora tutto questo scorre continuamente tra le pagine del Bestiario artico, anzi ne ritaglia la forma attraverso l’azione combinatoria del narratore, che, inevitabilmente, dentro al fluire delle storie si muove con tutte le sue esperienze. In pratica, Westerman fa dell’impossibilità di scalfire il limite con l’animale – del no a qualsiasi speranza di sentire la sua vera voce; e della prospettiva suggerita da Heidegger che solo gli umani si interroghino sul senso di ciò che fanno – la forza che moltiplica il narrabile. Il suo romanzo è allora un inseguimento (di motivi, di effetti, di coincidenze) condotto non per giungere a un risultato, ma per attirare con la forza attrattiva di un magnete tutte le storie possibili. Se lo si legge con attenzione – è un libro che la richiede – Bestiario artico nega la prima impressione di disordine. Meglio: rivela il senso del suo disordine. Raccontare un animale significa cercarne le tracce, ovunque siano. E dire cosa prova chi le sta cercando. E, costeggiando la consapevolezza che abbiamo ritagliato noi i margini delle loro esistenze, riconoscere cosa è stato delle loro vite dopo l’incontro con la nostra “specie erratica”.
Tutte le creature del Bestiario artico sono dunque il motore di storie. Le avviano e le accompagnano. Quelle storie le connotano, ne sagomano il profilo, misurandone la distanza che le separano da noi, gli inquieti invasori. A tenerle insieme è la voce che le racconta, è lei a rendere possibile l’incontro, è lei che suggerisce direzioni, che ci accompagna oltre i frequenti incroci (è un libro ricco di angoli, con punti che sarebbero ciechi senza la guida del narratore), che suggerisce quali riverberi possano avere avuto sulla sua vita e, più ampiamente, su quella degli umani di ieri e di oggi.

Per orientarci, scegliamo degli esempi. Il primo animale, il narvalo, lo incontriamo in occasione di un attentato di matrice jihadista. A metterlo in atto, sul London Bridge, è Usman Khan, che colpisce a morte due persone nei corridoi di Fishmonger’s Hall, la corporazione dei mercanti di pesce, dove era stato invitato alla cerimonia di premiazione di un progetto riabilitativo basato sulla scrittura a cui aveva preso parte in carcere. A fermarlo, ferendolo gravemente prima dell’arrivo delle forze antiterrorismo, sono un funzionario di stato, Frost, e Gallant, un altro ex detenuto presente in sala. Qui entra in gioco l’animale. Le armi di cui si sono serviti i due uomini sono infatti zanne di narvalo, appese nell’atrio di Fishmonger’s Hall. Che ci fanno lì? La ricerca accumula indizi. Il “Prime Warden” (una carica onorifica a rotazione annuale) che ha donato le zanne potrebbe essere stato il principe ereditario Filippo II, consorte della regina Elisabetta II, visto che la Corona ha la prerogativa su tutti i cetacei rari spiaggiati sulle coste britanniche. Ma averne la certezza è impossibile, il riserbo della corporazione sull’argomento è totale. Tra la monarchia e il narvalo, d’altra parte, c’è una connessione antica: Elisabetta I, nel Cinquecento, conservava il “Corno di Windsor” insieme ai tesori della corona nella Tower of London. Lo aveva trovato nel 1577 Martin Frobisher, un corsaro inglese, mentre tentava di individuare il passaggio verso la Cina da Nord-Ovest. Non si sa che fine abbia fatto quella zanna. Esattamente come non si sa dove sia finita la zanna che Barents portò con sé dalla sua seconda spedizione, l’ultima informazione certa risale al 1910, quando viene venduta a un’asta. Quanto è sicuro è invece il fascino del narvalo. La sua scoperta sembrò essere una conferma dell’esistenza dell’unicorno, visto che si pensava che “ogni animale marino avesse il suo omologo terrestre”. Era legittimo pensare che la zanna avesse poteri particolari: finemente tritato il suo avorio curava epilessia e aveva qualità afrodisiache. A questo punto è evidente che non essere arrivato a una “verità” per il narratore-ricercatore non è importante. Oppure lo è, ma in senso opposto a quanto ci si aspetta. La “verità” del narvalo è quella di essere una “favola incarnata”, di cui tutti abbiamo bisogno e che quindi, a pieno diritto, mantenendo la sua affascinante indecifrabilità, fa parte della “liturgia della realtà”.
Barents incontra le oche colombaccio (probabilmente la varietà “pancia bianca”) in occasione del suo terzo viaggio. Più che scoprirle, le ritrova. Le oche colombaccio trascorrono infatti autunno e inverno nei Paesi Bassi e migrano verso nord in primavera, dove poi passano l’estate (quindi Barents si sbaglia, perché le oche “pancia bianca” sostano in Danimarca più che in Olanda, dove invece si fermano le “pancia nera”). Su di loro si hanno idee sbagliate. Si pensa che non siano uccelli ovipari, ma che i loro piccoli nascano da conchiglie grigioblu rinvenute sul legname galleggiante. Ma c’è anche chi ritiene che siano il curioso frutto dell’”albero delle oche”. Comunque sia, le oche colombaccio sono una presenza ricorrente in alcune zone delle Province Unite, ci sono villaggi dove proliferano cognomi legati al loro nome come Rotgans, cacciatori di oche (sono prede facili, con carne “che sa di pollo”). Tutto questo dura fino al 1932 quando, improvvisamente, le oche scompaiono. C’è chi attribuisce la causa alla costruzione dell’Afsluitdijk, la diga lunga trenta chilometri che chiude lo Zuiderzee (e completata proprio in quell’anno), che avrebbe alterato profondamente l’ecosistema, provocando anche la scomparsa dell’alga marina di cui si nutrono le oche. Qualcun altro è invece dell’idea che la scomparsa delle oche dipenda dalla caccia, come dimostrerebbe anche il fatto che la sua abolizione dia il la al ritorno degli animali sulle coste olandesi, a partire dal 1972. Quanto è certo è che se le oche colombaccio hanno cambiato le loro abitudini è per via di qualcosa fatto dagli uomini. Prima di avere le idee chiare sulla causa, si mette in moto la volontà di rimediare: negli anni Settanta dello scorso secolo, i biologi ottengono che lo stato olandese offra all’oca colombaccio “una nuova casa”. Per la prima volta, a livello mondiale, viene creato un nuovo habitat naturale in prossimità dell’ex polder agricolo Zeeburg. Il progetto però riesce solo in parte, perché le oche tornano ma spesso preferiscono alimentarsi con il fieno dei campi circostanti la loro “riserva”, suscitando le inevitabili e infuocate proteste dei contadini. La caduta dell’Unione Sovietica e la momentanea riconciliazione con l’Occidente producono un altro risultato, che viene reso noto da un biologo polacco, Eugeniusz Nowak. Comincia ad essere più evidente cosa sia successo negli anni Trenta, al momento dei mancati ritorni delle oche colombaccio in Olanda. Per sopravvivere alle stagioni fredde i prigionieri dei Gulag siberiani dovevano far incetta di cacciagione durante l’estate. Le oche colombaccio in agosto sono facili prede perché, facendo la muta, non riescono a volare. I detenuti ne facevano facile strage. Alle oche spetta quindi il ruolo di “specie indicatrice”: prima di Solženicyn, con la loro sconcertante diminuzione, hanno diffuso nel mondo la notizia delle atrocità dell’Arcipelago Gulag.
Con l’orso polare i rapporti non sono facili. Nel punto più a nord del pianeta, l’isola di Spitsbergen, può capitare che l’uomo sia attaccato ed ucciso da un orso, come è capitato a Job, un turista olandese colpito dall’orso Snow mentre dormiva nella sua tenda. Non è una situazione inedita. Era capitato anche a Barents, durante la seconda spedizione, quando un orso sbranò due marinai. L'uomo si deve difendere, anche per i turisti ci sono lezioni su come usare la pistola contro un orso che attacca. Ma oggi è meno evidente chi sia il cattivo. L’orso polare è tutelato ed è consentito ucciderlo solo per autodifesa. È avvenuta una metamorfosi, l’orso è passato “da bruto a peluche, da trofeo di caccia a icona ambientalista”. In ogni caso, non è mai considerato per quello che è. Impossibile è assumerne il punto di vista, come desidererebbe la voce narrante, e ancora più arduo è capire che immagine avrà l’orso di noi. La tendenza a “vedere ciò che si vuol vedere”, scrive Westerman, “è scivolata davanti alla nostra capacità di immedesimazione come una lente deformante”. Ce ne possiamo fare un’idea dall’esterno, sulla scorta delle osservazioni etologiche. Sappiamo così che, pur non essendo molto intelligente, impara in fretta, come rivela la capacità di adattamento alle temperature più alte, che lo ha condotto a vivere sempre più a terra, senza farsi trasportare dalla banchisa, e ad essere meno schizzinoso: l’identità della preda fiutata è un dettaglio, per sfamarsi va bene tutto, anche le “foche verticali”, cioè gli esseri umani. Come capita all’autore, però, l’orso polare possiamo osservarlo solo di sfuggita e a grande distanza. Pur sedotti dal suo aspetto e impietositi dalle sue difficoltà, quello che possiamo fare per lui è allora porgergli le scuse perché non siamo capaci di fermare lo scioglimento delle calotte polari. L’orso bianco è un atto d’accusa permanente nei nostri confronti. La sintesi di ciò che sono per Sapiens gli altri animali: una ricchezza violata.
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