Mi agito quindi penso / L’Umanesimo secondo Massimo Cacciari

11 Giugno 2019

L’ultima fatica di Massimo Cacciari, La mente inquieta. Saggio sull’Umanesimo (Einaudi, Torino 2019), è un saggio che ha lo scopo di ripensare l’Umanesimo del Quattrocento. Ripensarlo per riconoscergli la piena dignità di pensiero filosofico che finora gli è stata negata. In modo intenso e originale, il filosofo veneziano compie la sua raffinata meditatio in omaggio a chi, come Eugenio Garin, lo ha illuminato e avviato sul rovesciamento di un canone o, sarebbe il caso di dire, stereotipo interpretativo, che ha sempre ricondotto la rilevanza dell’esperienza culturale dell’Umanesimo, in quanto sprovvisto di un’identità filosofica, all’ambito artistico-letterario e alla pratica erudita e filologica degli studia humanitatis. Non si tratta, allora, solo di recuperare, seguendo le indicazioni di Garin, la filosofia depositata proprio nella filologia, nella pittura, nell’architettura, nella storia, degli umanisti e il modo vivificante in cui essa le innerva, ma di allontanare l’ombra di eclettismo sulle stesse dispute e sui sincretismi filosofici di quel tempo, considerandoli, invece, in stretto rapporto con l’autocoscienza della crisi della cristianità, e quindi dell’Europa, e della conseguente esigenza di renovatio, avvertite in un secolo cruciale che si apre e si chiude, drammaticamente e simbolicamente, con due roghi, quello di Jan Hus e quello di Girolamo Savonarola, con al centro la caduta di Costantinopoli. Parimenti, per Cacciari, diventa preliminare “distruggere” l’idolum theatri che, complice più di ogni altro la filologia tedesca di fine Ottocento, impegnata nelle controversie pedagogiche dell’età guglielmina, ha ridotto l’Umanesimo a Humanismus, cioè alla definizione di un’essenza dell’uomo, orientata dall’esaltazione antropocentrica della nobilitas umana, a partire dallo studio dei classici greci e latini. 

 

Il che spiega anche la stupefacente miopia di Martin Heidegger, il quale, accodandosi a questa scia, nella sua Lettera sull’umanismo del 1947, non riesce a cogliere la sintonia della libertà umana descritta nell’Oratio pichiana con la natura ek-sistente del suo Dasein, l’esserci umano “gettato” nello sforzo costante di determinarsi, o a non avvertire l’eco della “grammatologia” di Valla o Poliziano nella sua concezione del linguaggio come “dimora dell’Essere”, enunciata solennemente nel testo. Al contrario, Heidegger si affretta a catalogare ogni umanesimo (sia quello storico, sia quello recente, esistenzialista e sartriano, con cui la Lettera direttamente polemizza) nella rubrica della metafisica moderna della soggettività.

 

 

Cionondimeno, l’agorà filosofica umanistica che Massimo Cacciari disegna in cinque magnifici paragrafi-tableaux, rimane composita e polifonica, a cominciare dalla dissonanza tra l’“ottimismo” edonistico di matrice epicureo-lucreziana di Valla e l’umanesimo tragico di Alberti e Machiavelli, e giungere alla tensione di quest’ultimo con la linea neoplatonica di Ficino e Pico, e, all’interno di questa, alla divaricazione tra l’aurea catena teologico-platonica del primo e la concordia discors tra le tradizioni (in primis, platonismo e aristotelismo) intessuta dal secondo. A conferma di come nessun’altra epoca come quella dell’Umanesimo corrisponda meglio all’immagine del grande storico e critico d’arte tedesco Aby Warburg di un ‘arazzo’ composto da più fili e di più diversi colori e materie. E, pur nella sintesi, il saggio riesce mirabilmente anche a ricostruire nel Dante del De vulgari eloquentia e nell’antiaverroismo e nell’idiosincrasia per un’etica intellettualistica del Petrarca il retroterra dei nuclei filosofici dell’Umanesimo, così come a segnalarne in modo chirurgico i riverberi in Bruno, Vico, Leopardi. 

 

Il primo grande nucleo del pensiero “forte” degli umanisti si può rintracciare, secondo Cacciari, nel nesso profondo stabilito tra ratio e oratio, tra filosofia e filologia, che discende dal concepire il pensiero come sempre incarnato dalla parola, il cogito come sempre pensato dalla parola: Dico ergo cogito. Come il demone Eros del Simposio platonico è l’intermediario tra ignoranza e sapienza, tra i mortali e gli immortali, così il dio Ermete è intermediario tra Filologia e Filosofia: “Filologia resterebbe cieca senza orientarsi attraverso la fatica dell’esegesi a Filosofia, senza osare spingersi, guidata da Ermete, verso i ‘misteri di Platone’. E un Ermete, anche se tentato da Saturno, è lo stesso Ficino, l’insuperabile ‘traduttore’. Ma Filosofia, d’altra parte, non sarebbe che vuoto esercizio scolastico se non l’alimentassero continuamente le scienze particolari e le arti tutte, cioè l’autentica anthropine sophia. Filosofia si ingravida dei pragmata che Ermete le trasmette da Filologia e, a sua volta, di essi illumina, fa comprendere il significato più essenziale e riposto” (p. 39). Ma, ancorché inestricabile dalla parola, ogni pensiero, ogni cogitatio è sempre ‘agitazione’. È il sintomo dell’inguaribile irrequietezza e instabilità dell’uomo, sempre insoddisfatto dello “stato” raggiunto. L’esercizio filologico, la fedeltà ai testi antichi e al loro récit, conducono al realismo antropologico, sia per Leon Battista Alberti sia per Niccolò Machiavelli. Da questa inquietudine nascono la virtù e la malvagia, la pace e la violenza, la creazione e la distruzione, la trasparenza e la dissimulazione, in breve, l’eterna vicissitudo umana.

 

Cosicché, se trovasse miracolosamente la quiete e l’appagamento, l’uomo cesserebbe di essere vulnus per l’altro, ma anche di essere ancora ingegnoso, produttore, ‘civile’: “Destino è l’esserci inquieto e insaziabile; a noi tuttavia spetta la decisione in quale forma assumerlo, come prendervi parte, conoscerlo e affrontarlo” (p. 59). Il magnum miraculum dell’uomo è allora proprio quel non essere fissato ‘naturalmente’ in nessuna condizione o essenza, quell’essere aoikos, celebrato dall’Oratio de hominis dignitate di Pico della Mirandola, che si traduce nel portare con sé i semi e l’apertura a diversi possibili, tutti egualmente ‘possibili’: ferinitas, humanitas, divinitas. Certo, mai assolutamente ‘angelico’ o ‘divino’ potrà essere l’uomo, mai l’ascendere e la resistenza all’abbrutimento potranno diventare definitiva ascesi, mai potrà raggiungersi la pace. Quindi, la libertà non sarà mai la possibilità del trascendimento della sua condizione tragica, che gli umanisti Alberti e Machiavelli avevano rappresentato e “dipinto” con toni più cupi e disincantati come incurabilis. Ma il tentativo indefesso di Pico di trovare la ‘pace impossibile’ (è il titolo dell’ultimo paragrafo del libro) tra le tradizioni, le dottrine, le filosofie, le religioni, le civiltà, testimonia di come l’uomo possa dimostrare tanto la potenza del dialogo interculturale, dell’unificazione attiva dei distinti, quanto l’impotenza della divisione ‘bruta’. L’‘estremo’ impossibile dell’indiamento diventa così misura e pungolo per una possibilità umana.

 

Verrebbe da chiedersi se non parla di noi ancora questo “umanesimo tragico” di Cacciari. Pace, unità molteplice, resistenza della virtù di fronte ai colpi della fortuna, lotta all’estenuarsi del linguaggio nel vortice della comunicazione, progetto rinnovato per conoscere, raccontare e dipingere ciò che siamo: non sono aspetti e volti sempre da assumere, altrettanto possibili peraltro come quelli opposti, orizzonti “celesti”, detto pichianamente, di cui essere ancora affamati e assetati, nella nostra inestinguibile insaziabilità? E lo spirito umanistico non è la volontà eroica, mai illusa, di continuare a “nutrire” la fame e “dare da bere” alla sete? Di continuare ad “armarsi” contro la violenza, a domarla, come la Minerva della Pallade e il Centauro di Botticelli (una delle sedici icone illustrate da Cacciari in appendice al libro)? L’ostinazione a voler uscire da una tragedia che non ha via di uscite, che si radica nell’ontologia umana. Ecco, forse, umanesimo è, in ogni tempo e in ogni luogo, anche questo: trarre il meglio dal peggio. 

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