Marguerite Duras al Wiener Festwochen
Nel 2013 il suo adattamento teatrale di Les Particules élémentaires di Michel Houellebecq conquistò il pubblico di Avignone e la ribalta internazionale. All’epoca Julien Gosselin aveva appena ventisei anni ed era già alla sua terza produzione. Oggi di anni ne ha trentotto e oltre a essere uno dei registi di spicco della scena internazionale, dal luglio 2024 è anche direttore dell’Odéon di Parigi, tra le più prestigiose istituzioni teatrali d’Europa. Una nomina importante, che ricorda (a chi ha orecchie per sentire: evidentemente poche nel nostro paese) che il teatro pubblico per fare il suo lavoro ha bisogno di energia, visione e rischio. Cioè di direttori e direttrici che provino nostalgia del futuro più che del passato. Nel mezzo – tra molti altri lavori – c’è una corposa produzione che comprende un monumentale adattamento di ben dodici ore di 2666 di Roberto Bolaño, una trilogia dedicata a Don DeLillo (Players, Mao II, The Names), un adattamento di testi dello scrittore russo Léonid Andreev, e ancora un’opera (Extinction) tratta da Thomas Bernhard e Arthur Schnitzler. Le durate lunghissime e la predilezione per la scrittura romanzesca sono insomma i segni distintivi di un regista noto per i suoi affondi originali nella letteratura, dalla quale evidentemente trae una linfa immaginifica superiore a quella offerta da testi pensati per la scena. Si capisce quindi quanto fosse atteso al Wiener Festwochen il suo ambizioso Musée Duras, un’immersione lunga dieci ore nell’universo letterario di Marguerite Duras, nata come esito finale di un laboratorio di due mesi con quindici giovani attori e attrici del Conservatoire National Supérieur d’Art Dramatique di Parigi. Una pratica, questa sì, che conosciamo bene anche in Italia, grazie a diverse esperienze dirette da artisti che proprio dai contesti di formazione traggono creazioni particolarmente felici (basti pensare alle varie avventure pedagogiche di Antonio Latella, da Santa Estasi del 2016 a Gli Ultimi giorni dell’umanità di qualche settimana fa in Biennale).

Milo Rau – attuale direttore del Wiener – ha voluto fortemente Musée Duras nel programma della sua Republic of Love, un’edizione del festival austriaco (la seconda di Rau) che ha rivolto lo sguardo alle tante forme dell’amore, dalle passioni sensuali alle lotte, allineando grandi riletture dei classici, monologhi intimi, teatro musicale, artivismo in forme varie e feste mitologiche alla Funkhaus. Bello e significativo è stato quindi lo spazio riservato a questo progetto speciale di Gosselin dedicato a Duras, che dura dieci ore divise in cinque blocchi (visibili anche singolarmente) separati da brevi pause di dieci minuti circa. Nel corso della giornata si attraversa l’intero arco narrativo dell’autrice francese, con undici estratti da altrettante opere, da L’homme assis dans le couloir a Savannah Bay, da L’Amant a Hiroshima mon amour. L’insieme, complice la musica elettronica di Maxence Vandevelde e Guillaume Bachelé mixata in diretta, ha il merito di far immergere il pubblico in un universo coerente di segni e senso, una sorta di compendio di temi e ossessioni della scrittrice. La fine dell’amore, la morte, il sesso, l’infanzia in Indocina, le spiagge della Normandia, i bar degli hotel, le menzogne e la follia. Ma a venire in primo piano è soprattutto la martellante memoria della violenza e del dolore. In uno spazio molto semplice – sala quasi vuota, gradinate bifrontali, schermi su tre lati e cronometro per le pause – Gosselin allestisce una galleria di figure e di suggestioni verbali, silenzi, corpi e musica, traducendo ogni singola opera di Duras in una forma teatrale diversa e specifica, spaziando tra realismo mimetico e performance, opera filmica e rappresentazione, con pezzi che vanno dal monologo al duetto alle composizioni corali. Riuscire a traslare lo stile di ogni scrittura letteraria in un una partitura scenica autonoma ma pienamente corrispondente al senso è d’altronde proprio il talento che il mondo gli riconosce. Gli esiti, va detto, sono altalenanti e non sono tutti all’altezza dell’idea. Alcuni adattamenti sono bellissimi, soprattutto i meno naturalistici – come quello dell’Amante, interpretato da Alice Da Luz Gomes. Altri invece spingono esageratamente sul pathos e su un naturalismo parossistico, con l’effetto (noioso) di lasciare in primo piano l’esercizio di stile e togliere profondità alla scrittura. Un rischio che aveva previsto la stessa Duras, scettica nei confronti della parola letteraria recitata. “La recitazione toglie presenza al testo, profondità, muscoli, sangue” scrisse nella raccolta La Vie matérielle. Ma Gosselin sa tutto, corre volentieri il rischio, e la cita apertamente richiamando esattamente queste parole sullo schermo in un momento dello spettacolo. Vale lo stesso per l’uso delle riprese dal vivo, uno strumento che il regista usa massicciamente con scopi diversi. A volte per inquadrare momenti fuori scena, altre volte per inquadrare noi (toccante il passaggio di Hiroshima mon amour in cui una lunga carrellata sui nostri volti di spettatori ci trasforma nei sopravvissuti all’atomica); altre volte ancora moltiplica i punti di vista, ovvero ciò che possiamo guardare, aggiungendo alla scena una prospettiva cinematografica di primi piani e piani lunghi. Anche in questo caso con esiti alterni, nel senso che la molteplicità non sempre si traduce in ricchezza di senso.

Per il momento questo lavoro non è in programma in Italia, ma è certo che il fenomeno Gosselin non tarderà ad esplodere sui nostri palcoscenici più attenti alle tendenze internazionali. Si vedrà invece in autunno a Romeuropa (che del regista francese aveva già ospitato due lavori, tra cui Les Particules élémentaires nel 2017) l’ultima creazione di Lia Rodrigues, Borda, anch’essa passata al Wiener nei giorni scorsi dopo il debutto in prima nazionale al Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles. Lo spettacolo, che vanta un assetto co-produttivo stellare, arriva da quel luogo incredibile che è il Centro de Artes da Maré, centro artistico e formativo che la coreografa e danzatrice brasiliana (tra l’altro una delle prime interpreti di May B di Maguy Marin) ha fondato oltre vent’anni fa in una delle più grandi favelas di Rio de Janeiro. Lo spettacolo è un omaggio alla capacità di superare i limiti – Borda in portoghese significa decorazione, ma anche confine, qualcosa che separa. Partendo dall’energia del collettivo e utilizzando materiali semplici come tessuto e plastica, Rodrigues crea una serie di quadri che si fanno e disfano, un movimento (come la vita) che include ed esclude, salva e condanna, rigenerandosi continuamente tra scarti e liquami. Si segnala però che occorre un po’ di paziente fiducia per godere del passaggio da un quadro iniziale di lentissimo (sebbene affascinante) svelamento di volti e corpi tra stracci e fagotti, all’esplosione energetica travolgente che caratterizza tutte le opere della compagnia.
Nell’ultima foto: Musée Duras (Julien Gosselin), ph. Christophe Raynaud de Lage.
