Bidibibodibiboo. Dipende tutto da te!

8 Marzo 2024

Il titolo, Bidibibodibiboo, è tratto da una celebre opera di Maurizio Cattelan del 1996, nella quale uno scoiattolo è riverso su un tavolo in formica giallo, nello squallido interno di una cucina anni Cinquanta, con ai piedi la pistola con la quale si è appena tolto la vita. Da quell’immagine di fredda desolazione, che rovesciava la formula magica della fata madrina disneyana (nessuna bacchetta fatata arriva in soccorso dei sogni), Francesco Alberici – attore, autore e regista classe 1988, Premio Ubu come performer under 35 nel 2021 – ha tratto l’ispirazione emotiva per uno spettacolo che parla di molte cose: di lavoro nelle sue retoriche più subdole, di sfruttamento e autosfruttamento, di tirannia del tempo, del falso mito che “volere è potere”, ma soprattutto di quant’è difficile mettere a fuoco un’aspirazione e andarle dietro fino in fondo, di quanto sembra poco serio, concreto, da adulti, fidarsi dei sogni. 

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Il testo, arrivato in finale al Premio Riccione del 2021, ruota attorno a due fatti: l’esperienza di mobbing subita da Pietro, fratello minore dell’autore (qui chiamato Daniele), in una grande multinazionale della quale non si può rendere noto né il nome né l’ambito operativo, perché il caso è oggetto di una controversia legale (la scena, comunque, è ingombra di scatole e scatoloni: ognuno traduca come meglio ritiene); e il progetto di Daniele di raccontare a teatro questa storia. In estrema sintesi, la parabola di Pietro è la seguente: fin da giovanissimo, proprio come il fratello maggiore, il ragazzo rivela un talento artistico, suona il pianoforte e frequenta il Conservatorio. Al momento di iscriversi all’università decide però di smettere di suonare e sceglie Statistica. Dopo la laurea accetta un tirocinio formativo e poi un contratto a tempo indeterminato in un’azienda con una solida cultura progressista, di quelle con il volto amico, con orari flessibili, orientamento al risultato, attenzione al benessere del lavoratore, referenti sempre disponibili al confronto. Salvo poi ritrovarsi anno dopo anno in una spirale di disturbi alimentari, psoriasi diffusa e depressione latente perché quella presunta libertà è la retorica ingannevole di una cultura della performance e della competitività che fa qualcosa di peggio del padrone cattivo: cancella il volto dell’oppressore, ti isola, ti rende responsabile degli obiettivi che non porti a termine, delle sfide che non riesci ad affrontare. Insomma, ti fa sentire una persona sola, fallita, colpevole della vita ingrigita che ti ritrovi a vivere in un’azienda assai più simile a un genitore attento che ti segue passo passo e ti manipola coi sensi di colpa (perché se ti ho dato tutto e non ce la fai dipende solo da te) che a una figura di potere apertamente oppressiva contro la quale puoi almeno tentare una ribellione. Nello specifico, a Pietro, giudicato poco performante dai piani alti, viene a un certo punto proposto – da una responsabile con fare subdolamente materno (nello spettacolo interpretata da Maria Ariis) – di licenziarsi con una bella buonuscita, oppure di sottoporsi a un periodo di messa alla prova firmando però un foglio di dimissioni in bianco (da tirar fuori se gli sfidanti obiettivi non venissero raggiunti). Il caso finisce in mano a un avvocato, e l’azienda arriva infine al licenziamento inventando di sana pianta una giusta causa. Da questa brutta storia Daniele intende appunto trarre uno spettacolo teatrale, di cui vediamo in parte lo svolgimento, per poi scoprire, con l’arrivo del “vero” Pietro in scena, che il lavoro era ancora in prova e che forse non arriverà al debutto, perché il ragazzo non vuole più vedersi rappresentato a teatro.

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Quel che si vede sul palco, però, non è così lineare, innanzitutto perché gli attori si scambiano continuamente i ruoli. L’autore, per esempio, interpreta prima sé stesso, Daniele, poi suo fratello Pietro, mentre un altro attore (Daniele Turconi) interpreta Daniele e un altro ancora più tardi (Salvatore Aronica) vestirà i panni del vero Pietro. Un groviglio di figure più facile da vedere in scena che da spiegare. Il punto, in effetti, non è tanto raccontare una storia, quanto disseminare elementi che la destabilizzano, che la interrogano, che aprono altre questioni più profonde. Sfruttando una grammatica che, come tanti registi della sua generazione, domina ormai perfettamente (il metateatro, l’autofiction, il gioco tra realtà e finzione), Alberici evoca per esempio – per bocca sua o quella di altri personaggi – i vari possibili fraintendimenti di un teatro che tratta temi d’attualità come fosse giornalismo d’inchiesta (sarebbe ingenuo, fa dire all’Avvocato – interpretato da Andrea Narsi – credere che un teatro di denuncia possa davvero incidere sulle coscienze del pubblico); il rischio che si corre a farsi carico di una storia altrui (ma sei sicuro, fa dire al vero Pietro, di sapere davvero quello che ho vissuto? Sei sicuro di non avermi trattato come un incapace, uno che non capiva il compromesso che stava facendo mentre tu sì perché sei il più intelligente di tutti? Sei sicuro che non sei come tutti quelli che detesti, che prendono una bella storia col tema forte e politico che va tanto di moda, e se la intestano per fare un bello spettacolo che piace ai critici e ai direttori?); la paura che il lavoro culturale in fondo non sia diverso da tutti gli altri (vivo con “l’ansia di essere all’altezza, di dover restare sempre in gara, lottare sempre perché nulla è garantito” dice l’autore); e soprattutto la consapevolezza che il teatro non può parlare del mondo, ma sempre e solo della propria personale reazione al mondo, la consapevolezza cioè che l’altro è un metro per misurare sé stessi, pur sullo sfondo di una società e un tempo storico che fa la sua parte nel modellare prospettive, desideri, scelte. (“Non sapevo più se stavo parlando di me o di mio fratello, dei suoi problemi o delle mie paure, se stavo, insomma, stavo raccontando la sua storia o la mia”, dice ancora lui stesso). 

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Non sono cose nuove per Alberici. Se si guarda al suo percorso fino a qui, il rapporto tra persona e società è proprio il filo che tiene insieme tutte le sue esperienze artistiche: i primi spettacoli con Frigoproduzioni, che parlavano di sogni di successo, paura del fallimento e logiche di mercato, l’incontro fondamentale con Deflorian/Tagliarini, che sulla relazione tra figura e sfondo hanno costruito tutti i loro lavori (compreso Chi ha ucciso mio Padre di Édouard Louis, di cui Alberici era unico interprete), la passione per il teatro di Milo Rau, di cui con Silvia Gussoni ha curato la versione italiana degli scritti (Realismo Globale, Cue Press 2018); perfino le sue partecipazioni al format web Educazione cinica vanno in qualche modo in questa direzione. Alberici è un regista che legge, che studia, che osserva, che ha interiorizzato varie riflessioni sulle zone d’ombra del contemporaneo, su quella che Byung Chul Han ha chiamato Società della Stanchezza. Ma stavolta, in questo secondo spettacolo scritto e diretto interamente da lui (l’altro è il recente Diario di un dolore con Astrid Casali), c’è qualcosa che si affaccia oltre l’intelligenza, oltre la voglia – che comunque non viene meno – di capirci qualcosa di più del presente e di ragionare sui limiti del linguaggio. Come tutti gli artisti a un passo dalla piena maturità (leggere le lettere giovanili di Beckett apre un mondo in questo senso), in Bidibibodibiboo Alberici mette in discussione soprattutto una cosa: sé stesso, il suo talento, il suo posto nel mondo come artista. (Come non pensare che solo qualche giorno prima del suo debutto milanese al Teatro Grassi, in un’altra sala del Piccolo Teatro, Liv Ferracchiati, classe 1985, poneva questioni simili in una riscrittura de Il Gabbiano di Čechov). L’aspetto meno scontato e più intimo di uno spettacolo che si gioca tutte le carte possibili del cinismo, dell’umorismo, del senso dell’assurdo, sta infatti nel suo insistere sul fatto che nonostante tutto la prima cosa alla quale suo fratello ancora pensa la mattina sia la musica. Alberici fa uno spettacolo per spiegarci che non siamo del tutto responsabili delle nostre scelte, che è la società che ci ammala, che non c’è alcuna zona franca, ma quel che mette in scena alla fine è un giovane musicista che suona il pianoforte. Ferita, interrogata, maltrattata, l’arte rimane comunque l’unica scelta possibile, una scelta diversa che si fa per negazione, perché a forza di dire no al mondo, alle sue logiche, non resta molto altro da fare che trovarsi una pratica concreta per metterlo almeno in discussione.

Bidibibodibiboo è uno spettacolo prodotto da Gli Scarti, realtà spezzina molto attenta alla nuova drammaturgia. Dopo il debutto al Dialma Ruggero (La Spezia) è stato al Teatro San Giorgio di Udine e al Piccolo Teatro di Milano; dall’11 al 13 marzo si potrà vedere al Teatro Studio di Bolzano. 

Bidibibodibiboo
regia e drammaturgia Francesco Alberici
aiuto regia Ermelinda Nasuto
scene Alessandro Ratti
luci Daniele Passetìri
con Francesco Alberici, Maria Ariis, Salvatore Aronica, Andrea Narsi, Daniele Turconi
pianoforte Carlo Solinas (20 febbraio), Ario Sgroi (21 febbraio – 3 marzo)
realizzazione scene e costumi Officina Scenotecnica Gli Scarti
produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione
in coproduzione con Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Ente Autonomo Teatro Stabile di Bolzano
con il sostegno di La Corte Ospitale
si ringraziano Alessandra Ventrella, Davide Sinigaglia e Ileana Frontini
testo creato nell’ambito dell’École des Maîtres 2020/21, diretta da Davide Carnevali finalista alla 56a edizione del Premio Riccione per il Teatro

Le fotografie sono di Masiar Pasquali.

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