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“Totò, Peppino e la... malafemmina”, 1956 / Due uomini e una lettera

8 Aprile 2017

Quello che mi ha sempre colpito di Totò è lo sguardo. Gli occhi densi di una malinconica serietà, che mai lo abbandonava, nemmeno nelle scene più esilaranti. Mi è sempre parso che ci fossero due Totò, e non parlo della differenza tra l’uomo pubblico e quello privato, che pure c’era e che spesso è stata raccontata; parlo di quella particolare capacità di farti vivere due sensazioni quasi opposte. Totò che ti fa ridere e, contemporaneamente, ti mostra un uomo povero e carico di speranza, che ha fame ma che non perde mai l’ironia, come il Felice che scrive la lettera sotto dettatura in Miseria e Nobiltà (di Mario Mattoli, 1954); e questo tutto insieme, perché alle parole e alla mimica facciale è abbinata – e per sempre – la tristezza che emanano i suoi occhi. Queste caratteristiche risultano ancora più evidenti se esaminiamo la scena della scrittura della lettera in Totò, Peppino e la... malafemmina (di Camillo Mastrocinque, 1956). 

 

 

Totò che detta la lettera (che dovrà salvare il nipote dalle grinfie della malafemmina) a Peppino De Filippo è uno dei vertici della comicità italiana. Intanto: la “spalla”. Lo straordinario talento comico di Totò, qui e in moltissimi altri film, è supportato dalla bravura di quell’attore unico che è stato Peppino De Filippo; che riusciva con poche battute e con le espressioni del viso a integrarsi perfettamente con quello che diceva o faceva sul set Totò. Nella scena della scrittura della lettera è addirittura meraviglioso, perché è quasi sempre inquadrato di profilo, con la testa china sul foglio di carta, eppure è importantissimo: nella maniera in cui scuote il capo, muove la penna, si asciuga il sudore (perché scrivere è per lui un’impresa), risponde e completa le battute di Totò. 

 

E veniamo al principe De Curtis. Cominciamo a ridere già dal momento in cui detta l’attacco della lettera che è la parola «Signorina», scatenando il primo dei grossi ed esilaranti equivoci tra chi detta e chi scrive. Totò tiene le mani infilate nel panciotto, con posa autoritaria da vecchio professore, le agita solo quando De Filippo non capisce, indica il foglio quando vuole calcare la punteggiatura: «Punto. Due punti!». Il dramma dei fratelli Caponi, due ignoranti, e della sorella confinata nell’altra stanza (perché è bene che questa cosa la sistemino gli uomini). E quel dramma è rappresentato benissimo da Totò, da quel particolare sguardo di cui ho scritto all’inizio. Quegli occhi mobili eppure fermi, che tengono fuori molto e lasciano intravedere un aspetto che va oltre la comicità: la paura di due persone che non si sono mai mosse dal paese al cospetto di una grande città (Milano), e di una donna che – a loro avviso – sta distraendo il nipote dagli studi e quindi da tutto. 

 

 

Gli occhi di Totò diventano meravigliosi quando il suo genio si esprime nella sublime sequenza di frasi: «Quest’anno – che lui chiede tutto attaccato: Questanno – c'è stato una grande moria delle vacche come voi ben sapete». Inarrivabile. Totò che sale con la voce perché il momento è topico. Totò che spiega la difficoltà di rinunciare alle settecentomila lire nell’anno in cui c’è stata la moria degli animali. Totò che, considerando quella sciagura “la” sciagura, fa aggiungere «come voi ben sapete». Perché il mondo che loro non conoscono non esiste, esistono soltanto la campagna e le vacche morte, ed è quindi impossibile anche solo immaginare che qualcuno non sappia. Per questo la donna è automaticamente la malafemmina. Per questo Totò sale col tono della voce, eccede in punteggiatura per dimostrare meno miseria (e riuscendo nell’effetto comico). Per questo ad ogni parola che detta agita la mano, puntandola su De Filippo e poi sul foglio. La scrittura della lettera rappresenta tutto. Dentro ci sono la povertà, un’antica forma di onore, l’orgoglio e la responsabilità dei fratelli verso il nipote e la sorella. Questo dramma è fissato solo dagli occhi di Totò, ché tutto il resto a noi fa morire dal ridere. Eppure il dramma c’è, così come è sotto gli occhi dello spettatore un’Italia che c’è stata. Ed è esistito, nel cinema di Totò, quel modo unico di arrivare al cuore delle persone. 

 

De Filippo continua a scrivere la lettera che Totò arricchisce con dettagli sempre più divertenti. La lettera zeppa di errori è anche piena di cattiveria: questo potrebbe leggervi chi la riceverà, qualcosa di peggio dell’insulto. In realtà contiene solo le preoccupazioni di due poveri cristi che non sanno che fare (cosa che è sempre capitata agli uomini, ignoranti o meno). Totò inarca un sopracciglio, assume un’aria rigorosa, da uomo di mondo, per dettare la più straordinaria serie di errori grammaticali della Storia, in una lettera il cui esito è questione di sopravvivenza.

Totò non si accontenta di chiudere con un altro surplus di punteggiatura, vuole che ridiamo ancora e chiede a De Filippo di aprire «una parente» per aggiungere «che siamo noi», l’ulteriore specifica della firma. E poi l’esigenza di sbrigarsi, perché la faccenda è seria. La lettera infilata nel pacco con i soldi, i cappelli indossati, i saluti alla sorella (col tono di voce deciso di entrambi) e subito la prima difficoltà, che è quella di aprire la porta. Totò e Peppino, in pratica, non ridono mai in tutto il film. Noi, invece, non riusciamo a smettere dopo tutti questi anni.

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