“Ora sei diventata donna”
Seguire le linee del selciato senza derapare, contare il numero di semafori verdi lungo la strada, avere una divisa portafortuna per le occasioni importanti e così via: la ripetizione è un sentimento di calma e profondo controllo, serve a sentirsi padroni della propria vita, a limitare le incertezze e la paura degli imprevisti.
“Avevo appena letto che la ripetizione costituisce la serietà della vita, che la ripetizione rappresenta il pane quotidiano dell’esistenza, che ci sazia e ci nutre con la sua benedizione”.
Scrive così Vidgis Hjort nel suo ultimo romanzo, Ripetizione, in libreria per Fazi editore.
Ma la ripetizione ha molte facce, e talvolta perde la sua aura rassicurante e benedetta per farsi incubo, ossessione, dolore rimosso.
In quest’opera l’autrice norvegese parte da quel che di meglio la ripetizione può offrire per arrivare a ripercorrere la strada dolorosa del ricordo fino a ritrovarvi l’origine della propria scrittura. Non si può infatti sfuggire al ricordo, nemmeno con la ripetizione: “Quello che vuoi dimenticare ritorna, ti perseguita in maniera così intensa da darti l’impressione di riviverlo”, ed è così che una scrittrice di mezza età, durante un concerto di Natale a Oslo, si ferma a osservare una famigliola composta dai due genitori e dalla figlia adolescente, e nel disagio della ragazzina rivede sé stessa, la ragazza che era, aprendo le porte al ricordo e al suo ciclico ritorno.
Il lettore viene così catapultato negli anni ’70, all’interno di una casa borghese in Norvegia dove una ragazzina adolescente, la primogenita di una famiglia numerosa, si ritrova ad affrontare le ansie della propria madre riguardo la sua crescita. La donna tenta di proteggerla o, forse, protegge sé stessa dalle dicerie della gente e dalla sua riprovazione fino a rendere lo sviluppo della figlia, con il suo diventare donna, la sua più grande preoccupazione e una incessante fonte di angoscia. Teme che la figlia esca la sera, fumi, beva, abbia i primi rapporti sessuali: l’ansia della madre si traduce in un controllo nevrotico, ossessivo, che mira a mantenere la figlia in un’eterna infanzia attraverso il senso di colpa.
Ed è così che il terrore che la genitrice apprensiva prova verso il mondo e il suo dolore al pensiero che la figlia possa venirne intaccata, si annidano nel cuore adolescente della ragazza, che cresce dilaniata tra emozioni opposte: il desiderio di compiacere la madre, che la tiene lontana dagli eccessi, e la voglia di trasgredire, essere libera, assaggiare il mondo, farsene trascinare anche a costo di precipitare con sé la sua famiglia.

Le normali esperienze che una ragazzina dovrebbe svolgere serenamente, come le prime feste in casa, i primi baci, le sigarette rubate e il primo approccio agli alcolici, si caricano così di una segretezza colpevole mista a potenza eversiva e liberatoria, iniziando a tracciare una distanza incolmabile tra la protagonista e sua madre.
Si apre così un abisso domestico fatto di sospetti e controlli, di trucchi e camicette nascosti in borsetta per uscire di nascosto di sera, di mentine ingurgitate in fretta per coprire l’odore di birra e tabacco, di bugie per poter sgattaiolare a una festa con le amiche invece di studiare.
Com’è normale nei ragazzi di quell’età, nella voce narrante si spalancano le porte del desiderio, tanto più forte quanto negato dai controlli materni, e il bisogno di acquisire quella stessa sicurezza che cambia gli occhi, lo sguardo e l’andatura delle amiche che hanno già sperimentato la sessualità. L’adolescenza è un rito d’iniziazione, la linea di ombra e inquietudine che determina quello che diventeremo da adulti, e se per nessuno è semplice attraversarla per qualcuno arriva a segnare per sempre un destino.
Con uno stile asciutto e misurato, Vidgis Hortis conduce così il lettore nell’abisso di una lotta interiore senza quartiere, dove il corpo femminile diventa un campo di battaglia in cui si alternano gioia e rabbia, attese e disillusioni, dove si diventa adulti non senza dolore, scegliendo di deludere i propri genitori e correndo così il rischio di perderli per sempre.
Ma questa non è solo la storia personale di un’iniziazione alla vita attraverso uno scontro generazionale, bensì una riflessione universale sul diventare sé stessi e soprattutto sulle differenze di genere legate al tipo di controllo che la società impone alle ragazze e ai loro corpi più che ai ragazzi.
Il romanzo di Hjort riporta l’attenzione sull’educazione sentimentale delle giovani donne, alle quali la riprovazione sociale insegna presto l’arte dell’inganno e della menzogna, la discrasia tra il proprio desiderio di uguaglianza e libertà e la necessità di mentire per poter essere considerate, in eterno, “brave ragazze” ed essere così ammesse nel consesso di una comunità che addomestica e reprime la loro essenza più vitale.
Quando la protagonista conosce Finn Lykke, un ragazzo poco più grande di lei con cui avvengono i primi approcci sessuali, la narrazione si avvia a una svolta e porta la protagonista sulla strada che le farà incontrare il suo destino: la scrittura.
È qui che si origina la deflagrazione interiore necessaria ad avviare un processo di crescita che si realizza per contrasto e affinità attraverso la ribellione ai dettami della propria educazione familiare, ma anche cercando la propria voce tra le maglie strette di una formazione rigidissima tra cui si insinua l’identità di una scrittrice. La paura della madre non riesce nell’intento di annientarla, al contrario, dà origine alla personalità complessa e sfaccettata di un’artista: “La sua paura mi inventava, perché la paura, l’invenzione e la scrittura sono strettamente collegate”.
La prima volta diventa così un rito di iniziazione anelato con tutta sé stessa, un passaggio obbligato fatto di determinazione eversiva, la chiave per una mutazione possibile che esorcizza le angosce materne e reinventa lo stare al mondo dalla protagonista attraverso le ripetizioni che verranno. A sedici anni un appuntamento può cambiare vite e prospettive e persino le strade consuete sembrano diverse, se ad attenderci c’è la promessa di una nuova possibilità di vita, l’inizio di una ripetizione in grado di cambiare tutto.
“Ora vi salivo in modo nuovo. Non si trattava di una ripetizione perché anche ciò che si ripeterà, forse molte volte, deve accadere una prima volta”. Eppure, qualcosa va storto.
Durante una delle festicciole organizzate dai ragazzi in casa, Finn e la protagonista si chiudono in una stanza e tentano un goffo rapporto sessuale in cui non avviene alcuna penetrazione, e quando il ragazzo le dice “Ora sei diventata donna” è proprio l’assurdità di quella bugia, di quella aspettativa disillusa, a innescare il cambiamento. La ragazza torna a casa e, in preda all’amarezza di quella mancata emancipazione, racconta nel suo diario la propria versione della storia, quella in cui il rapporto sessuale c’è stato, la penetrazione è avvenuta e con lei la sua trasformazione in adulta.

“Permisi che nel diario accadesse ciò che avevo anelato, che anelavo ancora, che si riempisse la cavità, che la mia brama enorme venisse soddisfatta, lo scrissi con la stessa veemenza di cui avevo bisogno, come un grido di voluttà e di protesta contro mia madre. […] Tutto corse, gocciolò e schizzò liberatorio come il vomito, benefico come il vomitare, scrissi, scrissi, riempiendo con le parole il mio grande vuoto”.
La menzogna della vita, subita e agita, si mescola indissolubilmente alla finzione letteraria, si fa urgenza, e se non è la donna quella che nasce a seguito di quella narrazione, sicuramente lo è la scrittrice.
La gioia di quel resoconto fittizio infatti dura poco, finché sua madre non scopre il diario e lo legge, segnando per la figlia il passaggio all’età adulta che avviene quando i nostri genitori ci deludono e noi deludiamo loro, in un reciproco disvelamento. Persino il padre, figura quasi marginale nel romanzo non fosse per quel suo “lasciala in pace” rivolto alla madre durante i continui controlli sulla figlia, si allontana da lei con una sola frase “è difficile essere una brava persona”, che continua a risuonare nelle orecchie della ragazza, abbandonandola alla solitudine, alla creazione di quelle menzogne e con loro della sua vita futura.
La ragazza “dal nome duro” smette di essere bambina e forse anche di essere figlia, la separazione con la famiglia è netta: la parola e la scrittura si frappongono tra loro e scrivere diventa salvezza e ostacolo, identità e distacco, un modo per padroneggiare l’ansia ed emanciparsene al tempo stesso. La pagina scritta si fa più vera del vero, serve a bilanciare un senso di autodistruzione e di morte e la storia raccontata diventa essa stessa ripetizione del ricordo.
Quando la protagonista, a seguito di quella brutale violazione della sua intimità, smette di tenere il diario e lo fa a pezzi, inizia a lavorare sulla parola: deve nascondere, occultare, deve trovare un modo per dire senza dire, per rendere sulla pagina quella verità obliqua cara a ogni scrittore e in grado di mettere in scena un segreto in pieno giorno.
“Da quel momento in poi, quando scrivevo, e solo quando dovevo farlo, a scuola o facendo i compiti a casa, i miei genitori erano mentalmente presenti nella stanza e seguivano la mia penna con occhi sospettosi, quindi sceglievo le mie parole con cura. […] Correggevo ed eliminavo tutto quello in cui, a mio avviso, trovavo tracce di me stessa, scrivevo e correggevo come se fossi stata sotto sorveglianza e potessi essere punita per le mie parole, e potevo”.
Correggere, riscrivere, limare, rileggere si fanno strumenti di ripetizione, scandiscono le ore, diventano i metronomi di un tempo nuovo in cui si cerca la litania rassicurante della propria voce, delle proprie bugie.
Nasce qui lo stile sobrio, asciutto e chirurgicamente preciso dell’autrice, con le sue emozioni trattenute in punta d’inchiostro, messe a nudo senza sentimentalismi ma non per questo meno affilate e dolorose.
Quando la protagonista va incontro al suo destino e si fa davvero adulta e scrittrice, diventa inevitabilmente il peggior nemico dei suoi genitori, la verità preme e la parola non può contenerla, come un vulcano che covi sotto la cenere della perfezione linguistica: “Temevano soprattutto la mia scrittura perché vedevano, e molto prima di me, l’ignara, come essa, pubblicazione dopo pubblicazione, si avvicinasse inesorabilmente allo scottante indicibile. […] Temevano la mia scrittura e a ragione, perché fu essa a portare alla svolta”.
La scrittura diviene un dispositivo perfetto per capire il rimosso familiare e il mistero dell’esistenza, per prendere un segreto indicibile e portarlo alla luce, perché “a essere misterioso non è come è il mondo, ma il fatto che c’è”, ed esiste forse un unico mezzo per riconciliarsi con esso, e con sé stessi: smettere di seguire le linee del selciato, uscire dalla strada già segnata e invece prendere la penna per ritrovarsi, attraverso la rassicurante ripetizione della creazione che mistifica il ricordo rendendolo letteratura.
