Ha il suo trono nel cuore dei re / La follia nella gratitudine

3 Ottobre 2018

“Se ti faccio un regalo, tu pensi: ‘Oh! che cosa vorrà in cambio?’, e dici: ‘No no no, grazie, non posso accettarlo, sei troppo gentile’ [risate], ‘Sì sì sì, ci tengo!’ Che rapporto di forze! Te lo metto in mano, te lo ficco in tasca…” ( Gilles Deleuze, Il potere, Ombre Corte, p. 47). 

 

Gratitudine e ringraziamento

 

Gratitudine e ringraziamento non sono la stessa cosa. Il ringraziamento consiste in un gesto, la gratitudine è sentimento. Il gesto è qualcosa che si fa, il sentimento qualcosa che si sente. Si dice: ringrazio l’altro perché provo un sentimento di gratitudine, ma è sempre così? Oppure il ringraziamento, soprattutto di questi tempi, nasconde sentimenti di sottomissione, ben diversi dalla gratitudine? 

Da piccoli abbiamo imparato le raccomandazioni che ci accompagnano durante il corso della vita: “Saluta la signora Bice!”, “Ringrazia lo zio che ti ha regalato il trenino!”, “Telefona al signor Augusto, che ti ha raccomandato per quel posto di lavoro!”, “Forse è il caso che offra una cena al professore, che mi ha aiutato per passare il concorso”, oppure “Magari gli parlo del mio concorso”, “ Non voglio disturbare”, “Permettimi di insistere”. 

Non sto sostenendo che ciò sia disdicevole, sono interazioni, pratiche educative palesi o nascoste, costitutive del nostro sistema di vita. Sono le nostre “ontologie”, detta in volgare: così vanno le cose qui da noi. Non si tratta di esaltare queste pratiche, come accade al moralista, né di condannarle, come accade al radicale. Per me, si tratta di descriverle. Come ha fatto Norbert Elias (1897-1990) che ha compilato interi volumi per descrivere in dettaglio le formazioni storiche compromissorie – che, nel mio linguaggio, sono i sintomi nevrotici di un’epoca – e ha chiamato quest’epoca “civiltà delle buone maniere”. 

 

L’ultimo uomo

 

Friedrich Nietzsche (1844-1900), prima di Elias, criticò questi sintomi sostenendo che l’ultimo uomo ammicca, è un adulatore. I sentimenti dell’ultimo uomo, così lo chiama Nietzsche, sono dissimulati, mostrano il loro carattere di merce di scambio, ma se glielo riveli, l’ultimo uomo lo nega e si offende. Come si permette il filosofo di dubitare dei miei sentimenti? Nasce l’ermeneutica del sospetto, di cui si occupa Paul Ricoeur (1913-2005). Chi è l’ultimo uomo? Nietzsche risponderebbe: l’ultimo uomo è chi ringrazia sempre chi sta sopra e disprezza sempre chi sta sotto. Ma l’adulazione viene smascherata dal fanciullo: “Il Re è nudo!”. 

 

Opera di Hiroshi Nagai.


Tuttavia le cose assumono reciprocità. Un tempo, quando le “buone maniere” non c’erano, il gioco dello scambio era governato dalla rovina delle parti, le “buone maniere” hanno cacciato la dissipazione nell’inconscio. Ciò che in alcuni contesti – tra i nativi nord-americani – è stato chiamato potlatch è un sistema di scambi destinato a dissipare le ricchezze delle parti per stipulare gerarchie di potere all’interno di una comunità, pratiche di umiliazione da parte di chi è potente, verso chi non lo è. La riparazione di queste pratiche consiste nell’immolazione periodica del potente; sacrificio per gli dei. Ne hanno scritto in molti: Marcel Mauss (1872-1950), Georges Bataille (1897-1962), alcuni autori della Scuola di Francoforte (sorta intorno agli anni Venti del secolo scorso) e, più recentemente, René Girard (1923-2015). Bataille definisce tutto questo processo di scambio simbolico come “dissipazione”. La dissipazione è un processo sociale remoto, dimenticato, tanto da essersi trasformato in un processo sociale inconscio, coperto dalle regole delle buone maniere, che tuttavia ribolle nell’animo di ognuno di noi. 

 

L’opulenza

 

Thorstein Veblen (1857-1929) coglie una caratteristica della dissipazione, sotto il velo delle buone maniere, anche in epoca moderna quando descrive La società opulenta. Veblen smaschera l’ipocrisia di chi, come Max Weber (1864-1920), pensa al capitalismo come società razionale, governata dalle leggi calviniste del risparmio, abitata da attori che calcolano il rapporto costi-benefici. Veblen invece si domanda come mai esista ancora il lusso, come nelle società pre-capitaliste. 

Il lusso è plusvalenza e minusvalenza allo stesso tempo, produce sentimenti opposti: ricchezza/invidia, superiorità/risentimento, grandeur/gelosia, umiliazione/rancore, adulazione/odio. Un tempo questi sentimenti erano sublimati dal sacrificio periodico agli dei del potente, oggi sono censurati dalle buone maniere, ma si vedono negli sfrisi che subiscono le auto di lusso, nelle arrampicate politiche e manageriali orientate a vendicarsi, a fare piazza pulita, anziché ad amministrare la res pubblica. 

Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Nietzsche se la prendono con il mercato. Hanno visto lontano, oggi il mercato è un imperatore collettivo e crudele: decide se un governo è o meno buono, produce sindromi bipolari negli investitori, dilapida i risparmi dei sudditi, ecc. A differenza di Marx, chi sfida il mercato per Nietzsche non è la classe operaia; è il folle. Ricordate? “Cerco Dio! Cerco Dio!”, il mercato è la morte di Dio. Che significa questa frase detta da un ateo impenitente?

 

Gli antichi, sapevano di avere a che fare con la potenza distruttiva degli dei: le corde per ascoltare le sirene, il vino per ubriacare il ciclope, il travestimento da mendico, o, in altro contesto, l’arrivo dell’angelo che ferma la mano del padre, sostituendo il figlio con il capro. Le corde, i legami, il vino, l’ebrezza, il travestimento, la dissimulazione, il capro, la sostituzione sono gli elementi che salvano Anthropos dalle potenze distruttive. Tra gli antichi, accanto alla dissipazione, si trova anche il suo opposto: la sostituzione, la mediazione. Il primo elemento di illuminismo si incontra quando Ulisse si orienta secondo i suggerimenti di Atena, figlia di Metis.

 

La gratitudine: un’iperbole

 

Ma la gratitudine ha qualcosa che si sottrae al ringraziamento. Se lo scambio è costitutivamente ineguale, lo è anche la gratitudine, ma in senso opposto. La gratitudine trasgredisce lo scambio, è iperbolica. Come sostiene Jacques Derrida (1930-2004) nel suo lascito sul perdono (Derrida, Perdonare, Raffaello Cortina), ciò che è assente nel gesto di ringraziamento è presente nel sentimento di gratitudine, un sentimento che richiede coraggio. Va ben al di là dell’idea di giustizia. La gratitudine è un sentimento folle, capovolto, paradossale. Scorgo un ladro in casa mia, un clandestino nella mia comunità; gli offro qualcosa: prendi ciò che vuoi e, mi raccomando, torna a trovarmi, tu mi sottrai ciò che non mi permette di vivere una buona vita, mi sottrai l’eccedenza, il rischio di esagerare. Questo sentimento, nei versi di Shakespeare si può esprimere così:

La qualità della gratitudine non si forza./ Cade come la pioggia gentile dal paradiso/ Sulla terra in basso: è due volte benedetta:/ Benedice colui che la esercita e colui che la riceve./ È la più potente tra le potenze; diviene:/ Al monarca in trono migliore della corona./ Il suo scettro mostra la forza del potere temporale,/ Attributo di rispetto e maestà,/ Dove risiede il terrore che incutono i re./ La gratitudine sta sopra lo scettro,/ Ha il suo trono nel cuore dei re;/ È attributo di Dio stesso;/ E il potere temporale appare simile a quello di Dio/ Quando la gratitudine tempera la giustizia.

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