L’uguaglianza dei diritti trascende qualsiasi diversità / L'antirazzismo scientifico e la Costituzione

15 Marzo 2018

È del 2016 l’appello al presidente della Repubblica Italiana per l’abolizione del termine razza nell’articolo 3 della Costituzione Italiana (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali…”). L’appello è stato di recente appoggiato dalla senatrice a vita Liliana Segre (sopravvissuta ad Auschwitz); e in piena campagna elettorale si sono detti favorevoli anche Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Nel 2013, l’allora presidente della Repubblica Francese Nicolas Sarkozy, aveva annunciato con enfasi trionfale lo stesso provvedimento in Francia, sostenendo che l’eliminazione della parola “razza” dalla Costituzione francese era un passo fondamentale nella lotta al razzismo (il che non ha impedito a una deputata del suo partito, Nadine Morano, di dichiarare nel 2015 che la Francia è un paese “giudaico-cristiano di razza bianca”). 

 

Sul termine razza grava il ricordo delle leggi razziali e dei crimini nazisti, e questo potrebbe di per sé essere un motivo per eliminarlo dalla Costituzione (basta che non si creda di eliminare così anche il razzismo). La Costituzione non è un testo sacro, la sensibilità alle parole cambia col tempo, e in linea di principio può essere giusto che la lingua istituzionale vi si adegui. Si pensi, ad esempio, alla parola “negro” (che a differenza dell’inglese nigger non ha un’origine spregiativa), fino a qualche decennio fa era di uso comune, condiviso dagli stessi africani (da cui il movimento identitario-razziale della negritude), ed ora diventata offensiva. 

Resterebbe il problema di quale parola mettere al posto di “razza”. Qualcuno ha parlato di “etnia”, termine di difficile definizione concettuale; che tra l’altro, assieme a “lingua” e “religione”, secondo la definizione che ne dà il dizionario, crea una fastidiosa ridondanza. Forse per questo ho sentito parlare anche di “discendenza ancestrale”; che mi pare strida non poco con la lingua usata dai padri costituenti (di cui giustamente si elogia l’elegante semplicità dello stile).

 

Comunque sia, messa in questi termini, la questione parrebbe esaurirsi nei limiti del cosiddetto “politically correct” (per cui basta sostituire una parola con un’altra per modificare la realtà). Non è così. L’appello dei firmatari (gli antropologi Olga Rickard e Gianfranco Biondi, sostenuti dall’Istituto Italiano di Antropologia) è invece motivato dal fatto che per la scienza “il concetto tassonomico di razza non può essere applicato alla nostra specie”, per cui “le razze umane non esistono”. Pur ammettendo che “il problema del razzismo… non attiene alle scienze sperimentali”, i firmatari concludono affermando che il razzismo non ha alcuna base scientifica, e con questa affermazione intendono “rapportarsi a quella grave degenerazione dei cittadini” (che appunto è il razzismo).

Vorrei richiamare l’attenzione su due punti dell’appello: 1) dalla semplice non operatività tassonomica della nozione di razza si deriva la “non esistenza delle razze” 2) si sostiene che affermare la non scientificità del termine razza abbia un effetto sul razzismo. I due passaggi sono un esempio di come, dietro l’apparente neutralità scientifica, possano spingere fatti ideologici. L’ideologia è l’egualitarismo astratto che dal dopoguerra ha caratterizzato l’antirazzismo scientifico. 

 

Già negli anni ’60 gli antropologi avevano stabilito che non si poteva parlare di razze umane, ma solo di gradienti (le razze venivano così relegate a quel tipo d’insiemi che i logici definiscono sfumati, come lo sono gran parte di quelli che utilizziamo quotidianamente per classificare il mondo). Poi con gli studi sulla genetica delle popolazioni, la genetica molecolare e le recenti acquisizioni sul genoma umano, si è visto che la parte più consistente della diversità umana, a livello dei geni, è tra individui e non tra popolazioni.

Ma ridurre le persone al loro genoma in chiave antirazzista ha poco senso. Il razzismo è un fatto relazionale, che si gioca su un livello di realtà diverso (in cui il colore della pelle è più importante del gene della melanina). 

 

L’appello è solo l’ultima puntata della storia dell’antirazzismo scientifico.

 

Storia che comincia nel 1949, quando l’Unesco decide di creare un documento contro il razzismo. Vengono interpellati a tal fine esperti di varie discipline, nella maggior parte antropologi, ma anche biologi e genetisti. La commissione di esperti internazionale si riunisce a Parigi dal 12 al 14 dicembre di quell’anno con l’incarico di definire la nozione di razza, fare il punto sulle conoscenze scientifiche, e indicare possibili nuove piste di ricerca. Il gruppo passa due giorni a litigare; con i biologi che non sono d’accordo con gli antropologi, e divisioni tra gli stessi antropologi. Quando ormai non ci sono più speranze di trovare un accordo, un ricercatore antropologo americano, Ashley Montagu, autore di vari libri di divulgazione, prende la parola e vantando approfondite conoscenze circa le ultimissime scoperte della genetica americana, chiede all’intero consesso che gli sia affidata la redazione del documento. Gli antropologi, che sono in maggioranza, ma un po’ in soggezione di fronte alle acquisizioni della genetica, dopo un primo momento di perplessità acconsentono. Montagu scrive in una notte, da solo nella propria stanza d’albergo, “La dichiarazione dell’Unesco sulla razza” (1950). Il testo afferma l’inesistenza di prove scientifiche circa una disuguaglianza intellettuale o morale tra le diverse razze.

 

Opera di Edson Chagas.

 

La natura dell’uomo non si esprime con l’egoismo e la guerra tra le razze, ma con una tendenza a cooperare con i propri simili. 

 

Alcuni tra biologi e genetisti protestarono, sostenendo che non c’erano prove scientifiche neanche dell’uguaglianza tra le razze. Quello che colpiva di più era il tono perentorio del documento, però non privo di coerenza. Soltanto in un secondo tempo ci si accorse che il testo riproduceva pari pari le tesi dell’undicesimo capitolo del Mein Kampf, soltanto rovesciate punto per punto. 

Per l’Unesco, il male era il razzismo scientifico, alla base della politica razziale dell’hitlerismo, e andava contrastato sul suo stesso terreno. Ma siccome, dal punto di vista scientifico, la nozione di razza dell’immediato dopoguerra era la stessa dell’anteguerra, il proclama finiva per essere più una dichiarazione di buoni sentimenti che un documento scientifico. In realtà, il cambiamento di rotta del discorso sulle razze non era stato imposto da novità scientifiche, ma da Auschwitz (dei cui orrori si era da poco preso coscienza). Ma a sostenere le ragioni dell’antirazzismo si erano incaricati proprio gli antropologi fisici, la cui disciplina era stata alla base delle teorie razziste. 

 L’anno dopo l’Unesco interpellò altri esperti, questa volta quasi tutti biologi e genetisti, per redigere un documento più scientifico. In “La razza secondo l’Unesco” (1951) si sostenevano più o meno le stesse cose della precedente dichiarazione; con solo l’aggiunta finale che “… i gruppi nazionali, religiosi, geografici, linguistici e culturali non coincidono necessariamente con i gruppi razziali, e gli aspetti culturali di ciascun gruppo non ha con i caratteri propri alla razza nessun rapporto dimostrabile”. Che non fa una piega, essendo la confusione tra razza e cultura, e l’ipotesi di una loro (tuttora) indimostrabile relazione causale, uno dei terreni su cui si annida il razzismo. 

 

E tuttavia, la solenne dichiarazione che dal punto di vista scientifico non c’era niente che giustificasse la discriminazione razziale, turbò alquanto la comunità israelitica. Alcuni tra i loro più eminenti rappresentanti erano preoccupati dal fatto che la loro sorte dipendesse dal parere degli esperti. Pensavano che fosse comunque giusto non perseguitarli, anche qualora i verdetti della scienza – che possono cambiare da un momento all’altro – avessero giustificato la loro eliminazione. (cfr. Roger Caillois in una nota del suo articolo “Illusioni a ritroso”, in Diogene coricato, Ed. Medusa, 2004).

L’epistemologo e storico delle scienze André Pichot ha indagato il rapporto tra biologia, politica e ideologia in un bellissimo libro (La societé pure, de Darwin à Hitler, Ed. Flammarion, 2001), purtroppo (e stranamente) mai pubblicato in Italia. Libro ricco e istruttivo, che rende conto della temperie culturale in cui presero corpo le teorie razziste, e l’ideale di una società pura del nazismo. Vi sono capitoli sulla relazione tra biologia e sociologia nella seconda metà dell’Ottocento, le derive eugenetiche della genetica (e le loro applicazioni giuridiche), le teorie razziste succedutesi tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale. L’ultimo capitolo è dedicato al rapporto tra biologia e società nel dopoguerra (e fa impressione leggere che tra i redattori de “La razza secondo l’Unesco” c’era anche un ex medico nazista; e che il direttore dell’Unesco dell’epoca, il famoso biologo Julian Huxley, in un libro del 1941, L’Homme cet être unique, scriveva: “… considero come assolutamente probabile che i negri autentici abbiano un’intelligenza media leggermente inferiore a quella dei bianchi o dei gialli…”).

 

Così Pichot, sulla riduzione degli esseri viventi al loro genoma: “ … certo si può far valere la piccola differenza che c’è tra i genomi di individui appartenenti a razze diverse per sostenere l’unicità della specie umana (differenza che non è più marcata di quella tra individui di una stessa razza). Si può però parimenti far notare che la differenza tra il genoma dell’uomo e quello dello scimpanzé è anch’essa inferiore all’1%. Il che offre il fianco a teorie razziste, per cui se una differenza dell’1% è sufficiente a separare l’uomo dallo scimpanzé, una differenza dello 0,1% tra Bianchi e Neri è sufficiente a fare di questi ultimi degli semi-scimpanzé...” (pag. 433). 

La differenza evidente tra l’uomo e lo scimpanzé, a dispetto della minima differenza (l’1%) dei rispettivi genomi, è la prova di quanto sia assurdo ridurre gli esseri viventi al loro genoma. Più in generale, contrastare il razzismo scientifico sul suo stesso terreno espone a rischi e può produrre effetti perversi, poiché “… a voler fondare l’antirazzismo sull’affermazione (sbagliata) che le razze non esistono in biologia …, si rischia di trovarsi un giorno costretti ad ammettere il razzismo qualora fosse acclarata l’esistenza delle razze”.  

Sebbene la nozione di razza avesse ancora validità scientifica ai tempi in cui fu scritta la carta costituzionale, i padri costituenti l’utilizzarono con altra finalità: escludere le discriminazioni compiute in suo nome (come avvenuto solo qualche anno prima). E, così facendo, affermare l’uguaglianza di diritti e dignità dei cittadini nonostante le diversità. In una lingua per giunta chiara e semplice, che si rivolgeva al senso comune. Come ha detto il presidente della Corte Costituzionale Paolo Grossi, il testo è in questo senso ancora valido come “monito all’odio razziale”. 

 

L’uguaglianza dei diritti trascende qualsiasi diversità. Mentre, paradossalmente, la negazione scientifica dell’esistenza delle razze finisce per indebolire chi, come i padri fondatori, utilizza la nozione di razza in chiave antirazzista.

La strategia di questo antirazzismo scientifico, oltre a prendersela con un nemico ormai minoritario come il razzismo scientifico rispetto ad altre forme di intolleranza – anche se non estinto, soprattutto nel mondo anglosassone, si veda ad esempio il libro del giornalista scientifico Nicholas Wade, Una scomoda eredità (Codice Edizioni, 2015) – rischia così di ottenere il risultato contrario a quello auspicato. 

Le ultime pagine del libro di Pichot denunciano i rischi del porre una correlazione tra l’unità genetica della specie umana e l’uguaglianza dei diritti; che equivale ad applicare una logica specularmente rovesciata a quella di coloro che fondarono le disuguaglianze dei diritti sulla base di differenze anatomiche (che fossero il colore della pelle o la forma del cranio).

 

Queste considerazioni fanno pensare che su questioni riguardanti i diritti fondamentali dell’uomo le argomentazioni di tipo scientifico sono fuori luogo. Ben venga il contributo di chimici, biologi e medici in questioni tecniche, come i benefici della vaccinazione di massa, o la valutazione se continuare a usare o no il glifosate in agricoltura. Ma quando si tratta degli uomini e dei loro diritti fondamentali, le misurazioni scientifiche non devono entrare in gioco. Affermare l’uguaglianza dei diritti nonostante la diversità e le possibili disuguaglianze, significa affermare che nel loro essere uomini gli uomini non si riducono a un insieme di qualità oggettive, non sono cioè oggetti misurabili, “risorse umane” quantificabili. “Gli uomini non sono né ineguali né differenti, sono incomparabili. Ed è perché sono incomparabili che sono uguali, ma di quell’uguaglianza che non si fonda né sulla misura né sulla comparazione, l’uguaglianza nei diritti e nella dignità” (Pichot, p. 435). 

E viene da chiedersi come mai le esposizioni mediatiche di biologi e genetisti sui problemi del razzismo siano molto più numerose di quelle che riguardano i possibili utilizzi (anche commerciali) dei genomi umani.

 

L’antirazzismo scientifico si limita a contrastare il razzismo scientifico; come se questo fosse il razzismo tout court, e non una delle sue declinazioni storiche in un preciso contesto geografico. È vero che l’aggettivo “razzista” compare alla fine dell’Ottocento con le prime teorie sulla razza; ma talvolta, come sostiene il linguista Lucien Fèbvre, un contenuto può esistere prima del nome che gli dà espressione. Soprattutto se al razzismo diamo una definizione più ampia, che trascende l’accezione biologica di razza. Allora il fenomeno è molto più antico, e si presenta ogniqualvolta i pregiudizi etnici (che comprendono, in una nebulosa indefinita, sia la discendenza del sangue che la religione, la lingua e la nazionalità), vengono piegati politicamente alla legittimazione di pratiche discriminatorie e di sfruttamento. È questa la prospettiva adottata dallo storico Francisco Bethencourt nella sua vasta ricognizione sul fenomeno in Occidente (“Razzismi”, 2017, Il Mulino). Razzismi, appunto, declinati al plurale, per via del loro mutare secondo le diverse epoche: dalle crociate, all’espansione oltremare, fino ai nazionalismi della seconda metà dell’Ottocento. 

Il libro è molto erudito, e si termina la lettura arricchiti di nozioni. Ma non aiuta a definire il razzismo nel suo specifico, e in cosa si differenzia rispetto al pregiudizio etnico o alla xenofobia. Cosa di cui avremmo bisogno in un’epoca in cui si usa l’epiteto “razzista” a destra e a manca, svuotandolo di significato.

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