5 per mille

Ri-raccontare l’Odissea

3 Luglio 2025

In attesa dell’inevitabile successo di critica e di pubblico della nuova Odissea cinematografica di Christopher Nolan annunciata per il 2026, negli scorsi mesi gli spettatori hanno potuto godere di una pregevole versione del racconto omerico grazie a Itaca. Il ritorno di Uberto Pasolini (2024, ora disponibile on demand su varie piattaforme, a cominciare da Amazon Prime), interpretato da Ralph Fiennes: un film capace di riconfigurare stilemi narrativi e stereotipi eroici e spettacolari.

Distante anni luce dalle precedenti versioni cinematografiche, dal kolossal campione d’incassi di Mario Camerini del 1954 (con Kirk Douglas e Silvana Mangano), all’indimenticabile sceneggiato per la Rai Le avventure di Ulisse di Franco Rossi del 1968 (con Bekim Fehmiu e Irene Papas), questa nuova angolazione delle vicende dell’eroe – cui è programmaticamente restituito il nome greco Odisseo – merita una grande attenzione per diverse ragioni, nonostante le critiche e lo stupore del pubblico di fronte a un protagonista così dimesso e a uno scenario ben poco regale e monumentale. L’effetto è indubbiamente di forte scostamento rispetto alla rappresentazione canonica del personaggio, non solo nei film sopra ricordati o di altri meno significativi, ma scolpita in una tradizione iconografica che indubbiamente pervade il nostro immaginario: bello, forte, glorioso e sicuro di sé, vincente anche nelle sconfitte; protagonista di una leadership incontestabile e maestro di avventure e di fascinosi superamenti di soglia. E, soprattutto, figlio di una concezione del classico fatta di modelli altisonanti e traiettorie narrative immutabili.

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Ralph Fiennes in Itaca. Il ritorno di Uberto Pasolini.

Eppure, proprio il Novecento inaugurava, con Joyce, una nuova e non del tutto inedita possibilità di raccontare Ulisse attraverso l’epopea borghese della giornata ben poco avventurosa di un dublinese mediocre e del tutto umano; un’individualità, quella di Ulisse, ben diversa rispetto alla costruzione topica di Achille, figura di guerriero onnipresente in ogni saga epica, antica o contemporanea e destinato a restare sempre identico a sé stesso. Non a caso Leopardi annotava, dallo Zibaldone ai Pensieri, la superiorità della figura di Achille sul pubblico, considerato «amabile», vale a dire affascinante, per la forza, il coraggio e anche la «brutalità» rispetto alle virtù dei buoni, come appunto la «saviezza» e la «pazienza» di Ulisse.  E nel testo di estetica più significativo del mondo antico, Il sublime attribuito a Longino cui Leopardi attingeva, è spiegata la superiorità del poema di Achille, l’Iliade, appunto perché opera in cui prevale l’azione (dramatikón) e «soffia un vento favorevole alla battaglia» rispetto all’Odissea, il poema del racconto (dieghetikón): la giovinezza e la vecchiaia, insomma, al punto che, riprendendo una tradizione esegetica diffusa, a proposito dell’età di composizione più recente dell’Odissea, «si potrebbe paragonare Omero a un sole al tramonto»

Dal film di Pasolini risulta inevitabile il confronto tra lo sguardo sempre fiero ed eroico di Kirk Douglas e Bekim Fehmiu, rispetto a quello dolente e inerme di Ralph Fiennes, tra il corpo giovane e possente dei primi con quello vecchio e piagato dell’altro in cui la nudità non mette in scena la muscolarità virile ma la condizione inerme del naufrago; e questa scelta estetica diventa la chiave della ricezione del pubblico e della stessa critica che vi hanno percepito un tradimento rispetto al modello, confermando così  l’intuizione di Leopardi. Il nuovo Ulisse di Itaca. Il ritorno non è «amabile» ed è quasi considerato un intruso che nulla avrebbe a che fare con il venerato, e non sempre letto capolavoro di Omero.

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Bekim Fehmiu e Irene Papas in Le avventure di Ulisse di Franco Rossi.

E conviene forse partire da qui, da come si sia originariamente formata nel tempo l’ombra di Ulisse – per riferirsi all’imprescindibile ricostruzione di Piero Boitani (Il Mulino, 1992) – non soltanto personaggio omerico, ma protagonista di infinite e spesso antitetiche tradizioni mitiche, cioè narrative, al centro di almeno tre millenni di rielaborazioni, letterarie e visuali. L’Odissea nasce come autorevole e monumentale fissazione scritta di una rete infinita e varia di epopee orali; e nel teatro di Atene, giusto per fare un esempio, il personaggio Odisseo è continuamente rappresentato in termini negativi affatto diversi rispetto al modello eroico omerico.

Ulisse-Odisseo, nella tradizione mitica che ce lo consegna, è infatti il personaggio principale di una serie di sequenze narrative che partono dall’impresa troiana e arrivano alla riconquista della sua Itaca (Dante e Pascoli, come si sa, hanno spinto il racconto fino all’ultimo folle viaggio oltre le colonne d’Ercole). Ogni autore, da Omero in avanti, ha combinato o declinato queste sequenze in tutti i modi possibili, per raccontare il proprio tempo e la propria visione del mondo; e nello stratificato poema omerico dobbiamo leggerne almeno tre: quella originaria, mediterranea, del trickster astuto e viaggiatore, quella micenea del protagonista dei dolorosi ritorni degli eroi da Troia, e quella della Grecia arcaica in cui tutto si ricompone nella logica nuova della polis che sta nascendo.

E nella continuità di questo raccontare ogni volta, e di nuovo, Odisseo, i diversi episodi sono stati combinati e riferiti in modi diversi, offrendo al mito e alla sua plastica e molteplice capacità di adattarsi la voce del proprio tempo. Il mito, infatti, è come uno specchio in cui alcune strutture narrative minime e familiari riflettono, nella rielaborazione del racconto, valori e immaginario di ogni contemporaneità. E in questo il mito, proprio attraverso il continuo processo di variazioni e metamorfosi cui è sottoposto, riesce a essere sempre fedele e identico a sé stesso. Lo ha chiarito, e ben prima dei successivi e prolifici studi sulle variazioni e metamorfosi del mito, uno scrittore che aveva nella penna il sangue vivo della persistenza delle immagini e metafore narrative dei racconti classici nella contemporaneità, Albert Camus, nel Prometeo agli inferi: «I miti non hanno vita per sé stessi. Attendono che noi li incarniamo. Risponda alla loro voce un solo uomo, ed essi ci offriranno la loro linfa intatta».

Boitani, nel libro cui si faceva riferimento sopra, chiarisce la funzione di «segno» di questo eroe dei travestimenti e delle trasformazioni: «ciascuna cultura è libera di interpretarlo come tale nell’ambito del proprio sistema di segni», e quindi di attribuirgli nuovi ‘significati’, a loro volta costruiti attraverso nuove modalità del racconto.

Anche per questo, e non solo per il risultato artistico ottenuto, possiamo continuare a vedere nel Leopold Bloom di Joyce il nuovo Ulisse del Novecento – l’eroe omerico è archetipo dell’individuo borghese europeo anche secondo Horkheimer e Adorno – e ritrovarne la medesima fisionomia nel progetto di sceneggiatura affidato a Riccardo Molteni, il protagonista de Il disprezzo di Moravia (1954) e del film che ne ha tratto Godard (Le mépris 1963). Rheingold, il regista incaricato (interpretato nel film da Fritz Lang, nel ruolo di se stesso), intende raccontare ed esplorare «l’animo di Ulisse, o meglio il suo subcosciente» e spiegare così le ragioni della sua volontà di non ritornare a Itaca e da Penelope; il produttore Battista (Prokosch nel film, impersonato da Jack Palance), invece, proponeva l’ennesimo kolossal in grado di attrarre e divertire il pubblico (e rendere così amabile il protagonista nonostante Ulisse, per tornare a Leopardi). Dilacerato tra queste due tensioni, Molteni, ribattezzato Paul Javal nel film di Godard, e interpretato da Michel Piccoli, ritrova nelle proposte del regista la trama dei propri tormenti esistenziali e coniugali e in quella del produttore, che nel frattempo tenta in ogni modo di sedurre sua moglie (nel film Brigitte Bardot), l’offesa antica dei Proci a Ulisse. Per questo il progetto di film fallisce, e lo sceneggiatore si ritrova naufrago, privo di ogni cosa se non l’allucinazione del suo stesso racconto, e finisce per coincidere con Ulisse stesso, certo più vicino a Leopold Bloom che all’eroe omerico. Da Moravia a Godard, una magistrale lezione sulle potenzialità narrative dell’Odissea nel secondo Novecento, malgrado la traduzione di Pindemonte cui si fa riferimento nel romanzo e il fatto che sia «quella che si studia a scuola».

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Fritz Lang, Jack Palance, Michel Piccoli e Giorgia Moll nel Disprezzo di Jean-Luc Godard.

Pasolini in Itaca. Il ritorno certo racconta il proprio tempo attraverso Odisseo e conferisce nuovi significati, o nuova «linfa» a questo segno capace di andare ben oltre il monumentale testo che ce lo ha consegnato; e l’enfasi sul rifiuto per la guerra da parte di un antieroe ridotto a un vecchio ricoperto di stracci ben si addice all’immaginario e agli orizzonti di attesa del nostro primo quarto di secolo. Del resto, già Euripide, tragediografo all’avanguardia e padre nobile di ogni sceneggiatore, aveva ricoperto di stracci gli eroi omerici come lo rimproverava un (finto) tradizionalista quale Aristofane. E dopo un secolo di peplum – la sfida principale con cui anche un genio come Nolan dovrà cimentarsi – l’ambientazione di Pasolini di un’Itaca primitiva, dal palazzo del re come una sorta di scarna dimora priva di arredi ai costumi ridotti ai minimi termini, rispecchiano efficacemente la visione di rottura non solo filmica rispetto all’aura monumentale e retorica dei classici (retaggio neoclassico, ma anche propaganda nazi-fascista: va ricordato) che il suo omonimo Pier Paolo aveva compiuto alla fine degli anni ’60, restituendo autenticità filologica e realismo ai personaggi e ai luoghi di Medea ed Edipo re.

La figura malinconica di Odisseo-Fiennes, così come le minimi varianti rispetto alla trama dell’Odissea, potrà forse disturbare quanti considerano il poema attribuito a Omero un testo quasi sacro e immutabile e quasi necessariamente univoca la rappresentazione di Odisseo (ma poi quale? quella dei canti del ‘ritorno’, XII-XXIV, o piuttosto quella delle avventure e dei viaggi ai confini del mondo, IX-XI? e ancora, quella neoclassica fissata da Pindemonte e Giani, o quella della più recente critica antropologica e narratologica?). Eppure, proprio la fedeltà al testo omerico, anzi l’esplicita passione rivolta ai versi che lo compongono e spesso richiamati nella sceneggiatura, sono una delle chiavi che renderanno questo film un punto di riferimento per quanti continuano a leggere, interpretare e ammirare il poema. Allo spettatore il piacevole compito di ritrovarne le tracce, rileggendo i canti del ritorno prima o dopo la visione del film. Ne basti qui un minimo, ma significativo dettaglio. Nella scena finale della gara dell’arco e la strage l’Odisseo di Pasolini saggia l’arco e la sua possibilità di tendersi, lo scalda vicino al fuoco quasi officiando un rito ancestrale. E infine si ferma, pizzica leggermente la corda e ne produce un suono. Sono questi pochi fotogrammi, ma non inutili perché l’immagine è direttamente tratta dai versi 410-11 del canto XXI: “Poi con la mano destra pizzicò e provò il nervo, / che bene gli cantò sotto, simile a grido di rondine”.

Il valore di un’opera si riconosce nei dettagli. Il film di Pasolini non è forse un capolavoro, anzi proprio la sceneggiatura mostra qualche sbavatura come l’improvvisa accelerazione nello sviluppo del protagonista, da naufrago inerte a guerriero invincibile, risolto in un improvviso cambiamento nella scena, non presente nell’Odissea, in cui difende Telemaco dai Proci che cercano di ucciderlo. Ma sicuramente è un film da vedere e apprezzare perché non indulge alla facile attualizzazione del retelling, ma attraverso un Odisseo molto più omerico di altri ci racconta ancora una volta di guerra e vendetta, di padri e figli, di abbandoni e ritorni.

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